lunedì 31 gennaio 2011

A Davos il mondo è a tre velocità

Al World Economic Forum di Davos – dove si riunisce la classe dirigente mondiale – la crescita economica del 2011 viene definita a tre velocità, three-speed recovery. I business leader non sono mai stati così ottimisti dal Davos di gennaio 2007, pre crisi subprime. Anche i più pessimisti, come Mr Doom Nouriel Roubini, sono d’accordo nel dire che “il bicchiere è mezzo pieno”.

All’apertura del Davos Forum, è stato Zhu Min, special advisor del Fondo Monetario Internazionale, a coniare il termine three-speed recovery per evidenziare le forti differenze di crescita tra diverse aree del mondo. Abbiamo quindi:

- le economie emergenti (o meglio emerse, come mio post Ma quali Paesi emergenti, sono già belli che emersi ) che cresceranno sopra il 6% di Pil; per fare dei numeri L'Etiopia crescerà dell'8,5%, il Mozambico del 7,5%, la Tanzania del 7,1%, il Vietnam del 7%, l'Uzbekistan del 7%, l'Uganda del 6,3%;
- gli Stati Uniti nell’intorno del 3%;
- l’area dell’euro, che crescerà meno del 2%, con forti differenze al suo interno. L’Italia, secondo le stime della Banca d’Italia e Confindustria, crescerà nell’intorno dell’1%.

Come sottolinea Martin Wolf sull’FT, “The divergence between the performance of the high-income countries and that of most emerging economies is remarkable”.

Nei Paesi Emersi la maggiore preoccupazione non è la crescita, ma l’inflazione. Il forte rialzo recente delle materie prime (in particolare i cereali, lo zucchero, le cipolle) induce le banche centrali ad alzare i tassi e impostare in modo restrittivo la politica monetaria, vedi India e Cina.

Un punto chiave sarà la capacità delle economie asiatiche di spingere sulla domanda interna e non esclusivamente sulla crescita export-led. Nelle parole di Mr Zhu: “The key test for emerging markets was whether they can keep going towards domestic orientation of their economies”.

Ken Rogoff, Harvard University – autore con Carmen Reinhart dello splendido This Time Is Different: Eight Centuries of Financial Folly (Princeton University Press, 2010) – sostiene che “Advanced economies would inevitably have a period of slower growth because they must deal with huge private and public debts. We are entering a five-year stretch where the overhang of debt in the advanced countries will hold back their growth”.

Negli Anni Ottanta e Novanta ci si preoccupava della bassa crescita dei Paesi economicamente arretrati, definiti (fa ridere tutto ciò) in Via di Sviluppo. Oggi non abbiamo che compiacerci del fatto che sempre più assisteremo a una convergenza dei redditi. Il mondo va verso una maggiore omogeneità dei redditi pro-capite. E’ una gran bella notizia.
Nell'ultimo quinquennio mezzo miliardo di persone sono uscite dalla miseria estrema. Il Brookings Institute in una corposa ricerca scrive che "Mai prima d'ora nella storia umana un numero così vasto di persone sono uscite dalla povertà in un arco di tempo così breve".

Chiudiamo allora con una massima di Thomas L. Friedman – tratta dal mitico The world is flat (2006): “Ragazze, quando ero piccolo, i miei genitori mi dicevano: “Tom, finisci quello che hai nel piatto; in Cina e India la gente muore di fame”. A voi io dico: “Ragazze, finite i vostri compiti, perchè in Cina e India la gente è affamata dei vostri posti di lavoro”.

Nouriel Roubini
P.S.: vale sempre il concetto che chi urla di più vince. Nouriel Roubini, dopo aver previsto la crisi finanziaria, non ne ha azzeccata una, ma ha urlato sempre più forte. Adesso la sua presenza a una conference costa un botto. E lui? Felice e contento, pronto a vaticinare la prossima crisi. Se un economista prevede una crescita moderata del 2% all'anno non lo ascolta nessuno. Se il solito catastrofista prevede il crash - che prima o poi arriva, come un orologio rotto ha ragione due volte al giorno - tutti a inginocchiarsi pronti a considerarlo un guru. Roubini - come volevasi dimostrare - si è appena comprato un attico a New York di 5,5 milioni di dollari. Chi è tranquillo e silente - e saggiamente non fa previsioni - non finisce sui giornali e vivrà sempre nel suo bilocale.

venerdì 28 gennaio 2011

Obama, Padoa-Schioppa e il declino di una (la nostra) classe dirigente

La dipartita di Tommaso Padoa-Schioppa (TPS per noi aficionados) mi ha indotto a rileggere alcuni suoi libri. Tra i tanti spunti, mi ha indotto alla riflessione un passo di La veduta corta (Il Mulino, 2009): “Negli anni ho constatato che la leadership consiste nel dare più che nel ricevere” (p.142). “Penso che il compito di chi governa sia di avere lo sguardo lungo là dove i comportamenti spontanei, degli individui e della società, possono averlo corto...Chi governa deve essere scelto da chi è governato, ma nello stesso tempo deve governare chi lo ha scelto, il che significa dare una direzione, un indirizzo, anche vincendo le resistenze che incontra. Perciò è indispensabile che chi governa sappia svolgere anche una funzione educativa, pedagogica e sappia indicare la strada a chi lo ha eletto” (p. 161).

Questa visione elitista di TPS si scontra spesso con governi che assecondano i peggiori istinti dei cittadini, incapaci di “guardare al di là della siepe”, incapaci di alzare lo sguardo.

Non possiamo non condividere le osservazioni di Ezio Mauro – Repubblica (14.1.11): “Attorno alla politica nazionale, il sistema non ha più prodotto uomini riconosciuti come quadri internazionali della comunità europea e mondiale, come ai temi di Ruggiero, Prodi, Monti, Padoa-Schioppa, Bonino. ...L’establishment ha confermato di non esistere, accontentandosi di non esistere, di essere un network di autoprotezione da rotocalco, incapace di svolgere la funzione nazionale di un richiamo alle regole e ai canoni europei, ma preferendo adattarsi al modus vivendi di un Paese rimpicciolito e rattrappito, pur di staccare qualche dividendo di piccolo potere, all’ombra del potere dominante. Così, inevitabilmente, l’immagine complessiva del Paese è declinata fino a raggiungere i più ingiusti stereotipi che ci hanno sempre accompagnati”.

Giacomo Leopardi
L’altra sera, nello sconforto, ho preso in mano un libro - ingiallito dal tempo - di poesie: Giacomo Leopardi nel Canto (1831) All’Italia:

Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.

Concordiamo con Giampaolo Dossena, Mangiare banane (Il Mulino, 2007): “Altri commentatori intendono che la storia d’Italia è fatta ad alti e bassi: quando le cose vanno bene l’Italia è il meglio che si sia mai visto, una cornucopia di felicità, fiori, frutti, bellezze, capolavori; quando le cose vanno male l’Italia è nell’abisso di sventure inuaidte, il peggio che si sia mai visto, notte d’inferno. Alti e bassi, altissimi e bassissimi”.

Ruby Rubacuori
Più bassi di così!: “Noemi (Letizia, la prima minorenne frequentata dal Presidente del Consiglio, ndr) era la sua pupilla, io sono il suo culo”, Karima el Mahroug, alias Ruby Rubacuori, frequentatrice assidua di Arcore, in una conversazione telefonica.

Ci verrebbe da esclamare come Leopardi: “E fango è il mondo” (A se stesso), ma con la fresca lettura del discorso di Obama, ci siamo rinfrancati. Oltreoceano si continua a parlare di progetti, di scelte strategiche, di investimenti sulla crescita, di riforme e di coraggio.

Robert Kennedy
Mentre proviamo vergogna per la miseria del dibattito nazionale, non possiamo che elogiare Barack Obama (clicca qui per il discorso integrale, veramente bello ) quando - in occasione di State of the Union - afferma: “As Robert Kennedy told us, The future is not a gift. It is an achievement. Saranno le scelte che facciamo oggi a condizionare il nostro destino”. Come scrive Mario Calabresi “La forza del discorso di Obama, che è la forza dell’America e che è esattamente quello che ci manca in Italia, è riuscire a far riemergere una narrativa comune del Paese che alla fine supera sempre le divisioni e punta al risultato comune piuttosto che all’eliminazione dell’avversario o alla difesa sterile di rendite di posizione”.

mercoledì 26 gennaio 2011

27 gennaio 1994: autobomba allo Stadio Olimpico di Roma

Quando parlo con i miei amici della bomba non esplosa allo Stadio Olimpico, mi guardano con occhi sbigottiti. Peraltro i miei interlocutori sono persone informate, lettori “forti” - come si dice in gergo di coloro che leggono più di 30 libri l’anno – e disincantati al punto giusto. Però sull’attentato fallito allo Stadio Olimpico di Roma il 27 gennaio 1994 l’informazione pubblica è molto scarsa. Parliamone.

Così il magistrato romano Giancarlo De Cataldo (autore dello splendido Romanzo Criminale, Einaudi, 2002) nel suo romanzo Nelle mani giuste (Einaudi, 2007) racconta: “Pino Marino parcheggiò l’autobomba fra una vecchia Uno e il furgone di un panettiere. Dal vicino stadio Olimpico esplodevano, a tratti, gli scoppi d’ira o di entusiasmo dei tifosi. Angelino, dal sedile di guida della sua Saab, vide che il picciotto armeggiava nel vano motore. Starà controllando il contatto, si disse. Erano nei pressi del cancello G-8. La partita era appena iniziata. Fra un’ora e mezzo o poco più, i tifosi avrrebbero preso a defluire. Invadendo le strade circostanti.

L’autobomba era piazzata proprio lungo una di queste strade. Appostati in una piazzola a cento metri, Pino e Angelino avrebbero dato il via alle danze al passaggio della colonna di automezzi dei Carabinieri che smontavano dal servizio di ordine pubblico. Doveva essere una carneficina. Duecento, cinquecento, forse mille tra militi e tifosi”.

E' opportuno fare una digressione storica. Nel 1993 con il Governo Ciampi avvengono in Italia diversi attentati. Il più grave a Firenze in Via dei Georgofili.
La strage di via dei Georgofili è un attentato di stampo mafioso attribuito all'organizzazione Cosa Nostra.


Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, a Firenze, viene fatta esplodere una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo nei pressi della storica Torre dei Pulci, tra gli Uffizi e l'Arno, sede dell'Accademia dei Georgofili.
Nell'immane esplosione perdono la vita 5 persone.

La strage viene inquadrata nell'ambito della feroce risposta del clan mafioso dei Corleonesi di Totò Riina all'applicazione dell'articolo 41 bis che prevede il carcere duro e l'isolamento per i mafiosi. Due mesi dopo, il 27 luglio, altri attentati mafiosi vengono compiuti a Roma (alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e a Milano, in via Palestro, dove un'autobomba provoca cinque morti: tre vigili del fuoco e un vigile urbano intervenuti sul posto, e un cittadino straniero che dormiva su una panchina.

Successivamente il pentito Gaspare Spatuzza ha espresso "malessere" nei confronti di questo attentato e chiesto "perdono" alla città di Firenze.


Le risultanze del processo poi tenutosi a Firenze - per via del collegamento con le bombe in via dei Georgofili, accanto agli Uffizi nel maggio 1993 - portano a ritenere che l’attentato sia fallito per cause indipendenti dalla volontà degli ideatori. Per essere più precisi, un congegno elettronico non funzionò. Sentiamo Pier Luigi Vigna, Procuratore di Firenze nella sua testimonianza: “Era tutto pronto, la macchina con l’ esplosivo era lì. Grazie a Dio, non è partito l' impulso elettrico”. E’ giusto parlare non solo delle stragi avvenute, ma anche di quelle progettate. Perchè a differenza di altri Paesi dove pure esistono mafie forti, qui Cosa Nostra arriva a costituirsi come temibile contropotere dello Stato?”-


Il Presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel suo Da Livorno al Quirinale (Il Mulino, 2010) scrive: “Una caratteristica del mio governo (Ciampi giura davanti al Presidente della Repubblica il 29 aprile 1993, ndr) è stata quella di essere contrassegnato dalle bombe. Non faccio in tempo a formare il Governo che la prima bomba scoppia in via Fauro. Subito dopo, il 27 maggio, le bombe di Firenze in via dei Georgofili. Poi, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, le due bombe di Roma a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni, e contemporaneamente a Milano (in via Palestro, davanti al PAC, ndr), dove ci furono dei morti. Poi c’è stato l’attentato all’Olimpico, fallito solo perchè non scattò l’innesco dell’esplosivo. Si scoprì poi il progetto di fare un attentato alla torre di Pisa, per il quale avevano già procurato l’esplosivo”.

L’Italia è piena di misteri. Stragi senza colpevoli. Famiglie distrutte senza un perchè. “La democrazia non è soltanto governo “del popolo”, ma anche governo “in pubblico”, sostiene il giurista Stefano Rodotà. “Per questo la democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena conoscenza dei fatti da parte di tutti. In democrazia, la verità è figlia della trasparenza”.

Louis Brandeis
Allora non possiamo non citare il mitico giudice della Corte Suprema americana degli Anni ’30 Louis D. Brandeis, autore di Other people's money and how the bankers use it  (must read): “La luce del sole è il miglior poliziotto. La luce elettrica il miglior disinfettante”.

P.S.: per approfondimenti si consiglia Nelle mani giuste, Giancarlo De Cataldo, Einaudi, 2007.

lunedì 24 gennaio 2011

In morte di Roberto Franceschi, studente bocconiano, ucciso dalla polizia il 23 gennaio 1973


Roberto Franceschi
 Appena ho iniziato a frequentare l'Università Bocconi, ho notato che l'aula al secondo piano era dedicata alla memoria di Roberto Franceschi. Non c'era google al tempo, allora ho chiesto a mia madre, un vero e proprio google vivente. E mi ha raccontato. Oggi allora faccio lo stesso.

38 anni fa, lo studente bocconiano Roberto Franceschi si accasciava al suolo colpito a morte da un colpo di arma da fuoco sparato da un proiettile di pistola Beretta calibro 7,65 in dotazione alla Polizia che presidiava l’Università.

La sera del 23 gennaio 1973 era in programma un'assemblea del Movimento Studentesco presso l'Università Bocconi. Assemblee di questo tipo erano state fino ad allora autorizzate normalmente e non avevano mai dato adito a nessun incidente e, nel caso specifico, si trattava dell'aggiornamento di una assemblea già iniziata alcuni giorni prima; ma l'allora Rettore dell'Università quella sera ordinò che potessero accedere solo studenti della Bocconi con il libretto universitario di riconoscimento, escludendo lavoratori o studenti di altre scuole o università. Ciò significava vietare l'assemblea e il Rettore informò la polizia, che intervenne, con un reparto della celere, intenzionata a far rispettare il divieto con la forza.
Ne nacque un breve scontro con gli studenti e i lavoratori e, mentre questi si allontanavano, poliziotti e funzionari spararono vari colpi d'arma da fuoco ad altezza d'uomo. Lo studente Roberto Franceschi fu raggiunto al capo, l'operaio Roberto Piacentini alla schiena. Entrambi caddero colpiti alle spalle” (dal sito web http://www.fondfranceschi.it/ ) .

Come spesso accade, il processo è stato un calvario scandaloso – oltre venticinque anni di processi penali e civili, l’ultima sentenza è del 20 luglio 1999, più di 26 anni dopo la morte di Francesco - dove la volontà di occultare la verità da parte della Polizia è stata dominante. Dalla sentenza che ha chiuso la fase istruttoria del processo (dicembre 1976) leggiamo: “La verità è che sin dall’inizio si preferì occultare rigorosamente la corcostanza che a sparare erano stati in diversi, e questa decisione comportò poi la necessità che l’intera fase delle indiagini preliminari fosse gestita sotto il controllo o quanto meno con l’accondiscenza dei vertici della polizia, all’insegna della costante preoccupazione di neutralizzare ogni risultanza che con tale versione potesse apparire in contrasto”.

Qualcosa si è ottenuto dai processi. Come scrive Biacchessi “L’accertamento della responsabilità della polizia e la condanna del Ministero dell’Interno al risarcimento del danno, ma non l’individuazione e la condanna dell’autore materiale e di eventuali corresponsabili”.

Ma torniamo alla figura di Roberto Franceschi, studente brillante e affettuoso.

Scrisse di lui un compagno di studi: "Roberto, la sua ferrea volontà, la sua onestà intellettuale, la sua incrollabile fede nella scienza, la sua costante ricerca della verità, il suo amore per la cultura, la sua illimitata fiducia nelle possibilità dell'uomo, dopo la sua morte, hanno aiutato me e molti altri compagni a superare le difficoltà, a correggere gli errori e ad andar avanti".

La sua insegnante di filosofia del Liceo Vittorio Veneto – Meris Antomelli - ha scritto: “Roberto era politicamente molto impegnato, e in particolare riteneva l’apertura della scuola alla società, e la lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione non come esigenze tra le altre, ma fondamentali: le considerava capaci di dare concretezza ai suoi ideali di democrazia e giustizia, e coerenza alla sua vita. Non accettava perciò quelle forme di contestazione della scuola che si traducevano nel rifiuto dello studio a vantaggio di una militanza politica che nella scuola vedeva soltanto uno dei suoi luoghi d’azione”.

Don Lorenzo Milani
Dopo aver riletto le testimonianze sulla figura di Roberto Franceschi, mi è tornato in mente Don Lorenzo Milani, che insisteva in continuazione sull’importanza dello studio affinchè le classi disagiate potessero giocarsela alla pari con i più fortunati. In un bellissimo passo de La ricreazione (Edizioni e/o, 1995) leggiamo: “Quando ripresi la scuola nel 1952-53 avevo ormai superato ogni ulteriore esitazione: la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era la rovina della classe operaia. Mi perfezionai allora nell’arte di far scoprire ai giovani le gioie intrinseche della cultura e del pensiero e smisi di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi l’occasione di umiliarli o offenderli...Prova ne sia che, dopo le ricreazioni, la domanda di rito è: “Vi siete divertiti?” A S. Donato oggi una domanda del genere viene considerata poco meno che pornografica”.

Corrado Stajano
Chiudo con una riflessione attualissima (è del 1979) di Corrado Stajano – scrittore e giornalista di grandissima levatura, ricordiamo solo gli imprescindibili Un eroe borghese Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, (Einaudi, 1991), Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini (Einaudi, 1975): “La storia del ragazzo Franceschi non conta solo per ieri, vale per oggi e per domani. E non riguarda solo la tarlata giustizia, ma il buongoverno nel suo complesso perchè sono proprio inutili le generiche affermazioni da cui siamo continuamente travolti, se poi, in concreto, si usa solo indifferenza e non ci si scandalizza più di fatti scandalosi”.

 Stasera invito tutti i miei lettori all’Università Bocconi dove la Fondazione Franceschi – nel cui Statuto si legge “La Fondazione si propone di sostenere l'attività di giovani studiosi delle generazioni successive a quella di Roberto, per dare testimonianza dell'intelligenza riflessiva e fortemente morale che ha distinto i suoi studi brillanti già negli anni del Liceo, indicando il percorso ideale, di forte impegno intellettuale e sociale, che egli avrebbe voluto seguire nella sua vita” - portata avanti dalla caparbia Signora Lydia - ricorderà Roberto Franceschi insieme a numerose testimonianze del mondo milanese. L’incontro ha per titolo Serata Franceschi all’insegna della Costituzione

P.S.: si consiglia la lettura di Roberto Franceschi, processo di polizia, a cura di Daniele Biacchessi (Baldini Castoldi, Dalai editore, 2004); http://www.fondfranceschi.it/

venerdì 21 gennaio 2011

Concorrenza, Poste Italiane e assenza di vigilantes

Mario Monti

Dal primo gennaio 2011 è finita l’era del monopolio per Poste Italiane. Grazie alle disposizioni europee – noi da soli facciamo ben poco, ancora una volta ringraziamo il “vincolo esterno” – si apre la completa liberalizzazione del mercato postale italiano.

Ci sarà così concorrenza nei diversi servizi, dalle raccomandate della pubblica amministrazione (251 milioni di euro), alla corrispondenza di contenuto pubblicitario (272 milioni euro), alla posta massiva (845 milioni di euro).

C’è un "ma però", direbbe mia figlia Allegra. A chi spetterà il compito di regolare la concorrenza nel settore? Finora questo delicato compito di regolazione era svolto direttamente dal ministero delle Comunicazioni, oggi dello Sviluppo Economico. Ora quest’anomalia deve finire poichè la UE impone agli stati membri di affidare la regolazione ad autorità indipendenti.

Nel decreto legislativo del 22 dicembre scorso, però, c’è una bella sorpresina. Invece di affidare la ragolazione ad un’Authority indipendente – l’Agcom per esempio – il Governo ha scelto una via diversa e più opaca. Si propone l’istituzione di una nuova Agenzia ad hoc affidando il compito agli uffici del Ministero che finora ha seguito la materia. E che verrebbero trasformati in Agenzia.

Il rischio è che questa Agenzia venga catturata dall’incumbent (Poste Italiane), con cui gli uffici ministeriali hanno maggiore dimestichezza e relazioni di lungo corso.

Pochi giorni fa l’Antitrust – bene! – ha prodotto un articolato parere trasmesso ai Presidenti di Camera e Senato, al capo del governo, al consiglio dei ministri, nel quale viene contestato il modello di Agenzia. L’Authority sostiene che l’apertura del mercato è a rischio: “Senza un Regolatore relamente indipendente e imparziale la completa liberalizzazione rischia di partire con il freno tirato....Il compito di vigilare sul percorso della liberalizzazione del servizio postale viene affidao dal decreto a un organismo, che opera al servizio delle amministrazioni pubbliche ed è sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza di un ministro, il quale ne definisce anche le funzioni, la struttura organizzativa e le modalità di funzionamento”. Poi la stoccata finale: “Il nodo dell’indipendenza e dell’imparzialità è invece cruciale...desta perplessità la mancata previsione si misure fondamentali per consentire una concorrenza effettiva del settore postale”.

Giorgio Napolitano
Con il tempo, molto lentamente - in un Paese dai processi lenti - la concorrenza diventa un tema di discussione pubblica. Anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso di fine anno ha parlato di rendite di posizione: “Reggere la competizione in Europa e nel mondo, accrescere la competitività del sistema-paese, comporta per l'Italia il superamento di molti ritardi, di evidenti fragilità, comporta lo scioglimento di molti nodi, riconducibili a riforme finora mancate. E richiede coraggio politico e sociale, per liberarci di vecchie e nuove rendite di posizione, così come per riconoscere e affrontare il fenomeno di disuguaglianze e acuti disagi sociali che hanno sempre più accompagnato la bassa crescita economica almeno nell'ultimo decennio”. E quali sono queste rendite? Licenze dei taxi, farmacie, servizi regolati, municipalizzate, servizi postali...

Secondo l’Istituto Bruno Leoni – il contenuto minimo di una seria proposta di riforma del settore del recapito non può prescindere – a parte la già citata presenza di un’Authority - da alcuni punti fondamentali:

1) l’armonizzazione del regime tributario del settore attraverso l’applicazione uniforme della medesima aliquota Iva, indipendentemente dall’identità dell’operatore;
2) la drastica riduzione dei trasferimenti monetari dello stato a Poste Italiane e dei ricavi da settore pubblico, a qualsiasi titolo siano ottenuti;
3) l’eliminazione di tutti gli automatismi nell’assegnamento di servizi da parte delle amministrazioni a Poste Italiane, possibilmente con l’introduzione della gara in tutte le situazioni rilevanti;
4) la separazione tra Bancoposta e le altre divisioni di Poste Italiane, con la limitazione rigorosa dei conflitti d’interesse e dei sussidi incrociati tra servizi finanziari e recapito;
5) la predisposizione di un percorso credibile per l’alienazione progressiva di quote dell’azienda – con l’obiettivo di una sua completa privatizzazione – attraverso il collocamento di azioni; o, in alternativa, la vendita diretta della società con il meccanismo dell’asta pubblica.

In queste situazioni, dove l’Unione Europea apre una finestra d’opportunità di maggiore concorrenza, bisognerebbe spingere. E' illuminante una recente uscita di Mario Monti – definito dalla stampa anglosassone SuperMario quando era Commissario alla Concorrenza presso la Commissione Europea: “....In molti casi il potere delle corporazioni ha impedito che le riforme andassero in porto o addirittura venissero intraprese. E lì non si tratta di tenaci fiammelle rivendicative fuori tempo, bensì di corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano” (Meno illusioni per dare speranza, 2.1.11, Corsera).

Franco Bruni
Concordiamo con l'economista Franco Bruni (La Stampa, 5.1.11, L’inflazione ritorna a preoccupare): “Va ripresa con vigore l’attenzione per le politiche di difesa della concorrenza e del consumatore, che la crisi pare aver messo fra parentesi. Il contenimento dei poteri di mercato, da quelli delle attività locali, piccole ma sovente cruciali per il costo della vita, a quelli dei grandi oligopoli multinazionali è la via maestra per frenare i prezzi e aumentare le produzioni. Un insieme di operazioni-trasparenza, riorganizzazioni strutturali e interventi anti-trust deve far sì che l’Italia, in particolare, smetta di essere uno dei Paesi dove sono più care le banche, le assicurazioni, i telefoni, la luce, il gas, la benzina, i servizi professionali alle imprese. In Europa è urgentissimo rilanciare l’agenda di avanzamento del mercato unico, abbattendo le molte barriere implicite ed esplicite che ancora lo segmentano. Il mercato unico delle merci, dei servizi, del capitale e del lavoro, oltre a essere la migliore opportunità per la crescita dell’Ue, è la più sicura difesa contro gli aumenti ingiustificati dei costi e dei margini che si formano sui mercati locali”.

P.S.: per approfondimenti, si rimanda al paper di Massimiliano Trovato dell’Istituto Bruno Leoni

mercoledì 19 gennaio 2011

Marchionne tutta la vita

Sergio Marchionne
Dopo la vittoria nel referendum a Mirafiori, nell’intervista a Ezio Mauro di ieri, l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne dice: “...Ma ho capito che eravamo sopra una torre di Babele. Io parlavo una lingua, loro un'altra. Tutti facevamo riferimento alla realtà: ma io alla realtà di oggi, così com'è nel mondo globale, la Fiom alla realtà del passato, quella che si è trascinata fin qui impantanandoci fino al collo, come Italia".


Mi è tornato alla mente una riflessione di Tommaso Padoa-Schioppa tratta dalla prefazione di La veduta corta (Il Mulino, 2009): “Il passato è uno, il futuro è molteplice. Il futuro non giace in oziosa attesa sulle ginocchia di Giove, né sta scritto in alcun luogo; siamo noi a scriverlo con le nostre azioni e le nostre scelte, trasformando il molteplice in uno. La storia insegna che anche il passato lo era. Ecco perchè il presente è la linea della nostra libertà. Per plasmare il futuro dobbiamo pensare e volere un futuro possibile, uno tra quelli contenuti in germe nel passato e nel presente e suscettibili di essere sviluppati e fatti crescere. Ciò che dobbiamo sforzarci di leggere non è un futuro non ancora scritto; è la realtà, i vincoli che essa ci one, le srade che ci preclude, quelle che ci apre. L’uso che facciamo della nostra libertà influirà, infatti, sul corso della storia solo se si collocherà entro i vincoli del reale”.

Quale futuro vuole il sindacato? A quale realtà fa riferimento?

Come è possibile che in Italia si gridi contro Marchionne e negli Stati Uniti Obama lo ringrazi come salvatore di Chrysler? Se lo chiede anche Marchionne: “Ci sono due voti che mi preoccupano: quello di chi ha votato no su informazioni sbagliate e quello di chi ha votato sì per paura. Voglio convincerli, spiegare chi sono. E' impossibile che negli Usa dicano che gli ho salvato la pelle e qui la pelle vogliano farmela".

Una cosa è certa. Noi siamo con Marchionne. Un italiano - spesso in senso dispregiativo viene definito italo-canadese per sostenere che è uno straniero che non fa gli interessi degli italiani - che ha un solo obbiettivo: tenere in vita in modo profittevole e non assistenziale la prima azienda del Paese.
I sindacati confermano di vivere in un’altra realtà. Una realtà – per parafrasare Padoa-Schioppa - che Marchionne vuole costruire per il futuro, con grande difficoltà, come ammette lui stesso: “E invece ha preso spazio la tesi opposta, l'entitlement, e cioè il diritto semplicemente ad avere, senza condividere il rischio. Ma questo va bene per uno statale, non per un'azienda privata che deve lottare sul mercato".

Un'ultima riflessione. Nella Lex Column del Financial Times di ieri – Fiat’s big victory –  leggiamo: “Eurozone politicians and bondholders should be particularly relieved by the result. Investors are on the lookout for any sign that highly indebted Italy cannot deal with its economic challenges”. E' verissimo. Il successo di Marchionne è il segnale che anche in Italia il cambiamento è possibile. La vittoria è un'iniezione di fiducia, una spinta alla riduzione dello spread Btp-Bund.
Alla parte più reazionaria (Fiom) del sindacato – che tutela solo coloro che il lavoro ce l’hanno e non gli outsider, non i giovani, i cocopro e i consulenti a progetto – non rimane che tutelare i lavoratori anziani e garantire loro una pensione esagerata rispetto ai contributi versati, grazie al metodo retributivo. Tanto il metodo contributivo vale solo per i giovani. W gli anziani! Il Paese così va a meraviglia! Il futuro ci sorride.

Forza Marchionne, tutta la vita.

lunedì 17 gennaio 2011

Mio padre, la Resistenza, Calamandrei

Il 16 gennaio di 21 anni fa moriva mio padre Piero Piccone. Un cancro se lo è portato via. Non appena aveva deciso di dedicarsi ad altro, dopo una intensa vita professionale e imprenditoriale, si è ammalato e in breve tempo ci ha lasciato.

Ma le persone importanti per noi non muoiono, sono sempre presenti. Con i valori, le letture, i suggerimenti, le riflessioni, i ricordi, le emozioni vissute insieme.

Mio padre nasce nel 1926 a Grazzano Badoglio (Asti). A soli 17 anni sale in montagna come partigiano. Ma cosa spinge un ragazzo a scegliere da che parte stare a soli 17 anni? Cosa fa oggi un ragazzo a quell’età? Sta attaccato a Facebook tutto il giorno? Altri tempi.

Così racconta Giorgio Bocca (Fratelli Coltelli, Feltrinelli, 2010, p. 38): “Che cosa è stata per chi l’ha fatta la guerra partigiana? La scoperta della libertà? Una felice illusione? Venti mesi di libertà dai legami dell’esistenza, dal posto della tua vita già deciso dagli altri, dai tuoi genitori, dal loro censo, dai loro calcoli e desideri. E anche la libertà fisica di andare dove ti portano le gambe, di giorno e di notte in un mondo ritornato immenso, dove puoi scegliere anche la tua morte, dove puoi vivere senza una lira in tasca, come il santo Francesco, e riscoprire ciò che la vita in società ti ha nascosto, quel desiderio del valico da superare verso il nuovo e l’ignoto. E dentro questo vago ma inebriante senso di libertà, tutti i ferrei doveri che hai liberamente scelto: il coraggio in guerra, la solidarietà con i compagni di lotta, la scoperta degli altri, dei poveri, dei deboli, l’intransigenza verso gli oppressori......La guerra partigiana era per i giovani arrivati dal lungo viaggio dentro il fascismo la scoperta della ragione, della conoscenza, l’uso, finalmente, della ragione e della conoscenza che la dittatura non aveva cancellato, ma sospeso dietro gli opportunismi e gli inganni”.

Piero Calamandrei
Un giorno mio padre mi raccontò la sua fuga. Era stato catturato dai tedeschi, ma riuscì a scappare in circostanze avventurose. Si salvò.

Al termine del racconto, mi citò Pietro Calamandrei (che ho avuto modo di leggere e apprezzare più avanti): “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì col pensiero perchè lì è nata la nostra Costituzione” (Discorso sulla Costituzione, Milano, 26 gennaio 1955).


Luigi Einaudi
In un libro del Governatore della Banca d’Italia e Presidente della Repubblica Luigi Einaudi – Lezioni di politica sociale (Giulio Einaudi Editore, 1949) – che mi ha lasciato, ho trovato significativa una nota di Einaudi (che scrisse il libro nel 1944 quando esiliò in Svizzera durante il fascismo): “Compito della scienza non è d’inculcare una fede, ma d’insegnare il metodo di osservare i fatti (economici od altri) e di ragionare correttamente intorno ad essi”. Questo è proprio l’insegnamento che mi ha lasciato mio padre.

Come sapete, mio padre mi ha insegnato fin da ragazzo a tenere un archivio cartaceo con i migliori articoli della stampa italiana. E’ dall’archivio che pesco spesso qualche chicca per voi lettori.

A mio padre piaceva molto il filosofo Umberto Galimberti, e mi invitava a leggerlo la domenica sul Sole 24 Ore. E io ho continuato a leggerlo (e ritagliarlo).

Umberto Galimberti
Quando ho iniziato a insegnare in Università, ho capito un messaggio più volte reiterato da Galimberti: “Attraverso la cultura si offre agli studenti la possibilità di evolvere dall’impulso, a cui corrisponde come reazione il gesto (come il bullismo insegna), all’emozione, e dall’emozione a quella forma ancor più evoluta che è il sentimento dove i giovani si orientano davvero poco...Occorrerebbero dei test di personalità per vedere se il futuro insegnante, oltre a sapere, sa anche comunicare e affascinare, perchè, come ci insegna Platone quando parla di Socrate, in età giovanile si apprende per fascinazione” (La distanza tra la cattedra e i banchi, 27 giugno 2009).

Io a lezione ci metto l'anima. Speriamo che i miei studenti se ne accorgano!

Papi, che la terra ti sia lieve.

giovedì 13 gennaio 2011

Soldi per far soldi per far soldi

Giorgio Bocca
Soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, scusate, non le ho viste” (Il Giorno, 1962). Questo il memorabile incipit del reportage di Giorgio Bocca sul distretto calzaturiero di Vigevano.

Nel suo ultimo libro – Fratelli coltelli (Feltrinelli, 2010) - il grande giornalista ormai novantenne ripesca un suo articolo del 1984 (Vini d’autore) dove leggiamo: “Se pensate che i grandi del vino langarolo lo facciano per i soldi non vi sbagliate di molto, ma c’è anche la sfida contro gli altri, contro i tappi, contro la terra”.

Ecco il tema di oggi. Se si vuole avere successo in un’impresa, l’ultima cosa a cui pensare sono i soldi. Chi lo fa, fallisce nel suo tentativo, che non a caso viene definito impresa per via delle difficoltà da superare.

Nel novembre 2010 ho avuto la fortuna di partecipare al convegno “Responsabilità nell’impresa” (in onore di Vittorio Coda) organizzato dalla fantastica imprenditrice Linda Gilli (Cavaliere del Lavoro, beninteso) di INAZ. I relatori del convegno erano numeri uno come Marco Vitale, Guido Corbetta e Umberto Ambrosoli. Al termine degli interventi, un inaspettato dono di Linda Gilli ha indotto il prof. Coda a intervenire.

Vittorio Coda
Coda – nonostante non si fosse preparato nulla – ha come di consueto parlato con grande chiarezza senza sprecare una parola. Io, che ho assistito in Bocconi alle sue lezioni, posso testimoniare che la sua esattezza di linguaggio e profondità dei temi trattati non hanno eguali.

In relazione alla perdita di senso e al solo obiettivo di fare soldi, riporto quindi il suo pensiero – tratto da Responsabilità nell’impresa (Piccola Biblioteca Inaz, 2010): “Sono convinto che noi, per vivere felici, abbiamo soprattutto bisogno di senso, di dare senso alla nostra vita...Ciò che conta è essere vivi, animati da una fiamma che ci portiamo dentro, ci appassiona e ci riscalda il cuore, la quale in definitiva è un valore o ideale per cui merita di spendere la propria esistenza. Giorgio Ambrosoli aveva questa fiamma, che ha sempre alimentato e l’ha portato a coltivare la sua professionalità e a impegnarsi con amore ricco di intelligenza.
Il bisogno di senso non riguarda solo la vita di una persona, ma è molto importante anche per la vita di un’impresa. Uno dei casi che avevamo considerato nel nostro corso di strategia alla Bocconi, ricordo, è quello della General Motors, dove a un certo punto, agli inizi degli anni Settanta, era stato nominato come capo azienda un uomo di finanza, il quale aveva teorizzato che General Motors non era nel business di fare automobili, ma in quello di “fare denaro”. Questa missione aberrante, che stravolge il senso del fare impresa – ignorando che la ragione d’essere di qualsiasi azienda consiste nella produzione di beni o servizi per soddisfare bisogni dei suoi clienti – ha progressivamente portato General Motors in una spirale di crisi che ben possiamo definire come “crisi da perdita di senso”.

Francisco de Quevedo
Quando leggiamo le dichiarazioni dell’amministratore delegato di turno, o meglio di CEO modello “faso tuto mi”, che si riempie la bocca di affermazioni del tipo “Vogliamo creare valore per gli azionisti”, “Vogliamo adottare un piano di stock options per motivare noi stessi”, “Vogliamo diventare più grandi con una bella fusione per crescere”, stiamo molto attenti. Siamo vicini a una disfatta. Basta solo aspettare.

Spesso trovo utile cercare dei riferimenti - sempre attuali, nonostante lo scorrere del tempo - alla letteratura. Rileggendo alcuni articoli (degli anni Ottanta!) del grandissimo critico televisivo Beniamino Placido, ho ritrovato una citazione che ritengo perfetta. Si tratta di Don Dinero, il cavaliere seicentesco e spendaccione della letteratura spagnola che soffre di eccesso di fiducia nel denaro: “Poderoso Caballero, es Don Dinero” (Francisco de Quevedo y Villegas, 1632).

Il testo completo è spassosissimo. Eccolo:

PODEROSO CABALLERO ES DON DINERO

Madre, yo al oro me humillo,
Él es mi amante y mi amado,
Pues de puro enamorado
Anda continuo amarillo.
Que pues doblón o sencillo
Hace todo cuanto quiero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

Nace en las Indias honrado,
Donde el mundo le acompaña;
Viene a morir en España,
Y es en Génova enterrado.
Y pues quien le trae al lado
Es hermoso, aunque sea fiero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

Son sus padres principales,
Y es de nobles descendiente,
Porque en las venas de Oriente
Todas las sangres son Reales.
Y pues es quien hace iguales
Al rico y al pordiosero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

¿A quién no le maravilla
Ver en su gloria, sin tasa,
Que es lo más ruin de su casa
Doña Blanca de Castilla?
Mas pues que su fuerza humilla
Al cobarde y al guerrero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

Es tanta su majestad,
Aunque son sus duelos hartos,
Que aun con estar hecho cuartos
No pierde su calidad.
Pero pues da autoridad
Al gañán y al jornalero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

Más valen en cualquier tierra
(Mirad si es harto sagaz)
Sus escudos en la paz
Que rodelas en la guerra.
Pues al natural destierra
Y hace propio al forastero,
Poderoso caballero
Es don Dinero.

martedì 11 gennaio 2011

Enzo Bearzot, un galantuomo che ci ha regalato emozioni

In dicembre se n’è andato Enzo Bearzot, IL commissario tecnico della Nazionale italiana, campione del mondo nel 1982. Lo abbiamo amato e apprezzato come uno dei tanti uomini migliori che hanno dato lustro all’Italia. Indro Montanelli nella prefazione a Il romanzo del vecio di Gigi Garanzini (Baldini e Castoldi, 1997) così lo ricorda: “...Che poi il mondo del calcio lo abbia accantonato non mi stupisce affatto. Non solo perchè anche in questo campo parlar chiaro e rifuggire dai compromessi non aiuta a far carriera: ma soprattutto perchè il pallone dei giorni nostri ha preso strade diverse dalla sua. Troppo smaccatamente commerciale, troppo mercenario questo genere di spettacolo per coinvolgermi ancora. Lo guardo di tanto in tanto in tv, ne leggo per tenermi aggiornato. Ma non c’è verso, non mi garba più come ai tempi di quel testone-galantuomo di Enzo Bearzot”.

In un Paese dove il singolo di solito pensa solo al proprio “particulare”, come ci ha insegnato Guicciardini, Bearzot ha in più riprese esaltato l’importanza della squadra e del gruppo. La squadra deve assomigliare a un’orchestra jazz. Così racconta lo stesso Bearzot a Garanzini (Il romanzo del vecio, p. 150): “Se la squadra è l’orchestra, ed è quella, non cambia, cambia invece di volta in volta il tema musicale. Che è l’avversario: dunque va affrontato, suonato, ogni volta in modo diverso. C’è una base armonica, che va rispettata e corrisponde al sistema di gioco. Ma in questo ambito ciascuno ha la possibilità di esaltare le sue qualità personali, che danno lustro alla prestazione collettiva. La batteria dà i tempi di fondo, un po’ come il regista che detta le cadenze del gioco, il sax può essere il fantasista, il contrabbasso è il libero, capace di difendere ma anche di offendere, la tromba è il goleador. Tu che dirigi, fai in maniera che i singoli interpreti si muovano entro il filo conduttore della musica e si adattino di volta e in volta al pezzo da suonare, così come alla partita da giocare. Ma sempre in funzione dell’assolo del solita, perchè è quello che ti mette i brividi ed è grazie a quello che si vincono le partite”. E chi si è dimenticato gli assoli di Paolo Rossi in Italia Brasile del Mundial ‘82?

Per i veri aficionados, riporto un fantastico passo di Francesco Piccolo – Momenti di trascurabile felicità (Einaudi, 2010): “Erano i mondiali del 1982. L’Italia li vinse, nella sostanza, nel momento in cui allo stadio Sarrià di Barcellona, l’arbitro fischiò la fine di Italia-Brasile...Quel giorno di Italia-Brasile, casa mia era invasa da una quantità di amici e compagni di scuola...Ho visto mio padre e gli altri perdere completamente il controllo su un gol che non esiste più e che però per noi esiste ancora.
Sono gli ultimi minuti della partita, il Brasile attacca perchè sta perdento 3 a 2, e l’Italia parte in contropiede con Antognoni che corre e lancia la palla sulla destra a Rossi e continua a correre. Rossi entra in area, vede Oriali accanto e gli appoggia la palla piano. Antognoni è arrivato, si è fermato, solo solo, sulla sinistra. Oriali ha il tempo di vederlo e gliela passa. Antognoni calcia da vicino e a colpo sicuro. Gol. Mio padre salta sul divano, in piedi, urlando con occhi roteanti “siamo i più forti, siamo i più forti”, così, per circa sessanta-settanta volte.
Un mio compagno di scuola, Alessandro Vessella, ha legato per sempre il suo nome a un gesto che gli invidierò tutta la vita. Gol di Antognoni, tutti a esultare e abbracciarci, mio padre che saltava sul divano. Vessella, senza dire una parola si alzò dalla sedia andò verso la porta d’ingresso, scese di corsa le scale, in silenzio, andò in strada, entrò nella Cinquecento e fece una sfilata intorno all’isolato di circa cinque minuti, ma era solo al mondo e urlava Italia, strombazzava e sventolava una bandiera. Credo che nel raggio di migliaia di chilometri quadrati non ci fosse nessuno, in quel momento...Quando è tornato, l’arbitro ha fischiato la fine e siamo scesi tutti, di nuovo, a fare la sfilata. Nessuno ha avuto il tempo di dirgli che il gol era stato annullato. Antognoni era in fuorigioco, anche se forse, a rivedere le immagini, non lo era. Ma oramai era fatta, e non ce ne importava più.
Sono sicuro che ancora oggi lui sia convinto che quella partita finì 4 a 2. Lo immagino che si meraviglia molto quando vede le storie dei mondiali e quel gol spesso nemmeno lo fanno rivedere. Penserà che sono scemi”.

Caro Piccolo, sei spassosissimo! Ho pianto di gioia a rivivere quei momenti di tensione pazzesca. Quando a pochi minuti dalla fine Zoff parò sulla riga un colpo di testa di Socrates, mi venne un colpo.

Chiudo con un ricordo di fine anno di Gianni Mura: “Bearzot Enzo (uomo di sport). Avrei potuto scrivere ex ct, ma Bearzot non è mai stato ex di nulla. Al 1982 si lega il ricordo dell’ultima, vera, grande , spontanea festa collettiva di un Paese, il nostro. Negli anni successivi ha badato solo a non contaminare i suoi valori di cittadino e di sportivo mescolandoli a quelli, sempre più velocemente cadenti, di un Paese, sempre il nostro. Gli amici sognavano per lui un funerale senza applausi. Non c’è stato, ma bisogna dire che l’applauso e durato proprio poco”.

Caro Enzo, ti sia lieve la terra.

lunedì 10 gennaio 2011

Le banche italiane sono messe veramente meglio delle altre?

Durante le vacanze natalizie, mentre ero in fila a Parigi – circondato dal vociare di tanti connazionali – al Musée d’Orsay (splendido), ho preso in mano il giornale e ho letto nella pagina dei titoli azionari una sequela di bagni di sangue per i titoli finanziari.

Siccome si continua a leggere che le nostre banche sono le più solide del mondo, ci si potrebbe chiedere il perchè di siffatte performance negative. Leggiamole insieme (dal 1° gennaio al 29 dicembre 2010):

- Unicredito -29%
- Monte dei Paschi (MPS) -30%
- Banco Popolare -32%
- UBI Banca -33%
- Intesa Sanpaolo S.p.A. -34%
- Unipol Banca -45%
- Banca Popolare di Milano -46%

Nello stress test effettuato a giugno dalla Banca centrale europea, MPS, UBI e Banco Popolare erano, rispettivamente, al 79°, 70° e 67° posto per dotazione di capitale nello scenario avverso. Intesa Sanpaolo, la più solida al test, non andava oltre il 49° posto.

L’economista Alessandro Penati scrive con saggezza: “Si dice che il sistema bancario italiano abbia superato la crisi finanziaria meglio degli altri, grazie al maggior radicamento territoriale, meno finanza e più attività tradizionale. Ma la Borsa non sembra apprezzare le apparenti virtù dei nostri banchieri: i nostri maggiori istituti sono tra i più penalizzati proprio dall’inizio della crisi greca: meno 19% in media rispetto all’indice di settore europeo”.

Cosa possiamo aspettarci da parte dei manager dei nostri istituti di credito? Ce lo dice la Banca d’Italia: “In questa fase congiunturale, la capacità di generare flussi di reddito appare compressa, poiché, in un modello di intermediazione incentrato sul credito a imprese e famiglie, essa è fortemente dipendente dal livello dei tassi d’interesse e dalle perdite sulle sofferenze. Nel primo semestre di quest’anno il ROE medio delle prime cinque banche è sceso al 4 per cento, un punto in meno rispetto allo stesso periodo del 2009. Diverse grandi banche europee hanno invece migliorato la redditività. La differenza è riconducibile principalmente a un margine di interesse in ripresa per le banche europee e ancora in flessione per quelle italiane, che hanno risentito della riduzione dei volumi intermediati e dei tassi d’interesse. Sugli utili delle banche italiane continuano inoltre a gravare significative perdite su crediti, ancorché in flessione rispetto all’anno precedente. Nel primo semestre di quest’anno esse hanno assorbito oltre metà del risultato di gestione. Come accennato in precedenza, il profilo temporale dei nuovi requisiti patrimoniali colloca la parte maggiore dello sforzo di adeguamento negli anni successivi al 2015, cioè in una fase congiunturale presumibilmente diversa da quella attuale. Peraltro, va notato, da un lato, che le strategie di molte banche internazionali puntano sulla realizzazione immediata di significativi aumenti di capitale, piuttosto che sul graduale adeguamento del patrimonio attraverso la ritenzione di utili; dall’altro, che difficilmente le banche italiane potranno sottrarsi a una nuova fase di riduzione dei costi, analogamente a quanto sta avvenendo all’estero”(Giovanni Carosio, Vicedirettore della Banca d’Italia, Audizione al Senato della Repubblica- Indagine conoscitiva sui rapporti tra banche e imprese L’effetto delle regole di Basilea 3 sulla patrimonializzazione delle banche e sull’economia, 23 novembre 2010).

Traduciamo il linguaggio forbito del membro del Direttorio: più sofferenze sugli impieghi, più accantonamenti, meno utili, più tagli (compresi quelli del personale). Marco Onado scrive a sostegno della tesi di BI: “Se andiamo a guardare i dati delle banche italiane, vediamo che il livello dei costi sul margine di intermediazione è rimasto invariato rispetto a 25 anni fa”.

Quando al TG1 ci raccontano – storytelling!, vedi post  – che le banche italiane non hanno asset tossici, cambiamo canale. Quando la crisi colpisce duro, gli asset tossici sono gli impieghi!

venerdì 7 gennaio 2011

Il ritorno di Dan Peterson, un esempio per tutti

Dan Peterson
Non ci credevamo fino a che non l’abbiamo visto in campo al Forum. Il grandissimo Dan Peterson, 75 anni - nato a Evanston (USA) il 9 gennaio 1936 - è tornato ad allenare dopo 23 anni. Era dal 1987 che allenava. E non poteva che tornare sul parquet dell’Olimpia Milano, oggi Armani Jeans Milano.

Soprannominato “Nano ghiacciato”, Dan Peterson è l’emblema degli anni Ottanta della Milano da bere. Quando i palazzetti urlavano “Du-du-McAdoo”. Quando Pillitteri – cognato del presidente del consiglio Bettino Craxi - era sindaco di Milano, quando il settimanale Time dedicava la copertina a Milano! (agosto 1987).

Contraddistinto da enormi capacità motivazionali, Dan Peterson è riuscito in Italia a vincere 5 scudetti, 1 Coppa Korac, una Eurolega, 3 Coppe Italia.

Iniziò a farsi conoscere con le telecronache del basket NBA. Il suo slang, le sue espressioni non le abbiamo dimenticate: “Mamma, butta la pasta” – per dire che la partita è finita e si può tornare a casa o “Sputare sangue” rimangono negli annali.

Due storici campioni dell'NBA: Bird e Johnson 
Appena tornato ha dichiarato: “Io sono come Elvis Presley, non passo mai di moda. E visto che ha perso l’entusiasmo di un tempo, si concede la battuta: “Il mio amico cinese Confucio diceva: l’amore e le ragazze giovani mi tengono in forma”.

Dan Peterson è uno psicologo applicato allo sport. Ne ha dato la dimostrazione in conferenza stampa l’altro giorno: “Il senso della vita sta nell’essere pronti a vincere, proprio perchè consapevoli di poter perdere. Quando senti il richiamo della foresta, non stai a fare calcoli. So di essere un bersaglio, ma vincere o perdere dipende anche dal non aver paura”.

Beatrice Bauer
Nel 1994, poco prima di laurearmi, venne in Bocconi una collaboratrice di Dan Peterson, Beatrice Bauer – psicologa e psicoterapeura - a spiegare a noi studenti che nella vita bisogna bilanciare le diverse attività per evitare di abbattersi alle difficoltà che chiunque incontra. E la dott.ssa Bauer ci raccontò di come Dan costruiva un muro (vero!) mattone su mattone per ogni partita vinta nello spogliatoio dell’Olimpia Milano per rendere importante, simbolico e concreto l’ottenimento del risultato finale: lo scudetto.

Mi ricordo ancora le slides della dott.ssa Bauer. Stupende e ancora attuali. Ne potete avere un’idea sul testo “Studiare all'università. Imparare a gestire il tempo, lo stress e le relazioni interpersonali", di Beatrice Bauer e Gabriella Bagnato (EGEA, 1994), che illustra l’importanza dell’equilibrio nella vita. Per dare senso alla vita bisogna applicare la nostra passione nelle diverse aree: famiglia, amici, studio, lavoro, vita di coppia. Se ci si concentra su una sola, il rischio di un fall down è elevato. Valgono le stesse regole della diversificazione di un portafoglio mobiliare: mai mettere le uova nello stesso paniere. Markovitz, Miller e Sharpe hanno vinto un Nobel per l’economia nel 1990 trattando questi argomenti!

L’ex general manager di Milano, Toni Cappellari, conferma le sue straordinarie capacità psicologiche e motivazionali: “Via le lavagnette. Nei time out lui non scrive, ma legge negli occhi dei giocatori, per capire se sono pronti”.
Così Dipollina su Repubblica di ieri: “Il primo time out è spettacolo puro, faceva cose alla Mourinho quando il medesimo Mou approdava al liceo, le urla in inglese, intimidiscono e galvanizzano da prammatica i giocatori”. E' corretto. Mourinho ha imparato dal vecchio Dan!

Grazie Dan di essere tornato. Dai il buon esempio a tutti. A 75 anni ti rimetti in gioco dando tutto quello che hai. E non potevi tornare che con una vittoria. Netta e convincente contro un avversario di peso, Caserta.