sabato 16 novembre 2019

Omaggio a Mario Cotelli, un grande uomo di sport

Mario Cotelli
Alla fine dei febbrili anni Ottanta l'Italia tutta rimase affascinata dalle gesta sugli sci di Alberto Tomba, atleta formidabile, che da San Lazzaro di Savena in provincia di Bologna - non proprio una località montana - riuscì a conquistare vittorie in slalom speciale e gigante, fino a vincere la Coppa del Mondo.
Ricordo che erano in molti, compreso me, a smettere di sciare e guardare la seconda manche, dove Alberto spesso compiva miracolosi recuperi. I commentatori erano - su Telemontecarlo - Bruno Gattai - avvocato di fama, e Mario Cotelli. Erano racconti concitati ed emozionanti. La lucidità di Cotelli mi affascinò fin da subito e volli approfondire la sua figura. Non vedevo l'ora di leggere i suoi commenti sul Corriere della Sera.
Ricordo come fosse ieri il soprannome "Alberto a quattro ruote motrici", che Cotelli diede a Tomba, capace con l'incredibile forza muscolare di frantumare ogni record.
Essendo nato nel 1970 non ero a conoscenza delle imprese di Cotelli, giovanissimo (si fece crescere i baffi - come più tardi fece lo "zio" Bergomi - per dimostrare una maggiore età) direttore tecnico della "Valanga Azzurra" di Gustavo Thoeni, Piero Gros e Paolo De Chiesa dal 1969 al 1978.

Proprio qualche giorno fa, purtroppo, Mario Cotelli si è spento per sempre. Nato a Tirano in Valtellina nel 1943, ha fin da subito grande capacità di guida, di leadership. De Chiesa racconta: "Lo ascoltavi, magari non eri d'accordo, ma alla fine facevi quello che diceva lui". Memorabili le litigate con i suoi uomini. I regolamenti di conti verbali. Ma Cotelli era un eccellente gestore di campioni.
Nei suoi nove anni da d.t. l'Italia conquistò 5 Coppe del Mondo assolute (4 con Thoeni, 1 con Gros), e 12 medaglie tra Mondiali e Giochi, dominando le discipline tecniche e lanciando anche discesisti come Herbert Plank.
Leonardo David
Con l'irrompere di Ingemar Stenmark a metà degli anni Settanta, Cotelli capì che la pacchia era finita. Lo svedese sarebbe diventato imbattibile. Forse ce l'avrebbe fatta Leonardo David, grande promessa dello sci italiano, campione sfortunato, ridotto in stato vegetativo in un letto tra Gressoney e Innsbruck, dopo una brutta caduta nelle prove di discesa libera di Cortina (poi fece l'ultima gara a Lake Placid il 3 marzo 1979, dove all'arrivo crollò tra le braccia di Piero Gros per non risvegliarsi più).
David avrebbe potuto essere il trait d'union tra la Valanga Azzurra e Tomba. Mario Cotelli citava spesso il povero Leo. E gli veniva un groppo in gola.

E' riuscito, vincendo moltissimo, a trasformare gli slalom in un fenomeno televisivo di massa. Lo sci è diventato con lui un argomento di discussione, da bar. E ancora negli anni Novanta, con Tomba sugli scudi, sentire le sue telecronache era come ascoltare la coppia Rino Tommasi e Gianni Clerici.
Una volta lasciata la Valanga Azzurra, Cotelli ha continuato a dare molto allo sport italiano, in qualità di commentatore, giornalista, organizzatore, manager, pioniere del marketing sportivo.

Caro Mario Cotelli, la terra ti sia lieve.

martedì 5 novembre 2019

Parole in libertà: da Falcone e Borsellino morti in una disgrazia, a Napolitano "boia", a bambino di 10 anni "negro di merda"

Nel nostro beneamato Paese stiamo assistendo a un degrado linguistico che evoca un odio, un imbruttimento, una rabbia collettiva.
Solo nella giornata di oggi ho letto sui giornali nazionali che:

1. Al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) la figura di riferimento per le 160 crisi industriali è Giorgio Sorial, un ex deputato M5S di 36 anni non rieletto ma noto per aver definite "boia" il presidente Giorgio Napolitano;
2. Antonello Nicosia, portaborse, componente del comitato nazionale dei radicali italiani, mentre in pubblico si batteva contro i mafiosi, di fatto era legato al boss Matteo Messina Denaro. In una intercettazione dice: "Dobbiamo cambiare nome all'aeroporto di Palermo. Perchè deve essere intitolato ai due magistrati (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ndr). Non è detto siano vittime".
Tale dichiarazione fa pandan con quella della madre del mafioso pentito Giovanni Brusca, che riferendosi alla strage di Capaci, disse: "Si ricorda, quando ci fu la disgrazia..:".
Come sostiene la moglie del caposcorta assassinato con Falcone, Tina Montinaro, "Attenti ai Mafiosi e ai messaggi che mandano dalle celle".
3. Giocano i "pulcini". Una madre grida "Negro di merda"a un bimbo di 10 anni. Dopo gli insulti a Mario Balotelli domenica, il clima è da "liberi tutti". Ha ragione Maurizio Crosetti su Repubblica: "Vogliamo i delinquenti fuori dagli stadi, solo questo. I neonazisti, gli 'ndranghetisti ricattatori, i marci. Succederà". E le mamme (e padri) sceme e ignoranti.

Come abbiamo fatto a finire così male? Occorre reagire, altrimenti la convivenza civile va a farsi benedire.

lunedì 30 settembre 2019

L’esempio di Silvio Novembre, una vita per la cultura del rispetto delle regole

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Silvio Novembre
Siccome la memoria è l’arma dei deboli contro i forti, è un dovere civico oggi ricordare Silvio Novembre, scomparso l’altra notte a Milano. Maresciallo della Guardia di finanza, fu tra i principali collaboratori di Giorgio Ambrosoli durante la liquidazione della Banca Privata Italiana del banchiere-bancarottiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di colui che è stato definito da Corrado Stajano “Un eroe borghese”.
Nel corso delle ricerche storiche sulla figura di Paolo Baffi, ogni qualvolta avessi bisogno di confrontarmi, Novembre, generosissimo e dalla memoria prodigiosa, mi invitava a casa sua, dove stavo a sentirlo per ore, prendendo paginate di appunti. Il suo motto è sempre stato: “Più è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo”. A inizio dicembre 2014, nell’occasione dell’ennesimo incontro, il maresciallo mi disse: “Se Ambrosoli non si fosse opposto a Michele Sindona, Ferdinando Ventriglia sarebbe diventato governatore della Banca d’Italia, al posto di Paolo Baffi”. La storia non si fa con i “se”, ma la nomina di Baffi – il “governatore della Vigilanza” secondo Donato Masciandaro – a Via Nazionale è stata determinante – in positivo – per la storia italiana.
Secondo i giornali dell’epoca, Ventriglia organizzò una cena per festeggiare in anteprima la sua prossima nomina a governatore. L’imprimatur di Guido Carli – che forse manifestò la sua preferenza per bruciarlo – lo fece smaniare. Quando, grazie a Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, venne nominato Baffi, Carli disse: “Se ne accorgeranno”. Come dire, questi non conoscono la forza e l’intransigenza di Baffi. Purtroppo anni dopo – quando fu costretto a dimettersi per accuse poi rivelatisi senza fondamento alcuno (un “coacervo affaristico-politico-giudiziario”, con la regia di Giulio Andreotti) Baffi scrisse mestamente: “In realtà sono io che me ne sono dovuto accorgere”.

Nel dicembre 2014 Novembre fu insignito dell’Ambrogino d’oro su proposta dell’allora sindaco di Milano Giuliano Pisapia, con queste motivazioni: “Maresciallo della Guardia di Finanza, ha indagato per conto della Procura della Repubblica di Milano sul fallimento della Banca Privata Italiana. Con abnegazione ed altissima competenza tecnica, ha collaborato con il commissario liquidatore, avv. Giorgio Ambrosoli, standogli vicino ben oltre gli stretti obblighi di servizio (con la moglie ammalata per un tumore, Novembre faceva da scorta nella notte all’avvocato Ambrosoli, ndr). Ha contribuito poi, con i commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, alla tutela degli interessi collettivi. Fondatore del circolo Società Civile, ha diffuso in città e nelle scuole il valore della legalità, dell’integrità e della lotta alla corruzione. Milano onora in Silvio Novembre un esempio di servizio generoso e instancabile alle istituzioni”.
È utile ricordare che Sindona, che si opponeva con tutte le forze al team guidato da Ambrosoli, cercò in tutti i modi di far trasferire Silvio Novembre. Il 4 novembre 1977, sull’agenda di Rodolfo Guzzi, avvocato di Sindona, c’è una piccola annotazione: “Riunione con Licio Gelli. Sostituzione di Novembre”. Solo l’intervento dei giudici Guido Viola e Ovidio Urbisci presso il Comando Generale, sventa il trasferimento di Novembre sul Monte Bianco.
Ha ragione Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, nel dire che “perdiamo un esempio altissimo di cittadino, che ha saputo esercitare la propria responsabilità di privato e di uomo delle istituzioni con profondo amore per l’Italia. Il suo impegno è andato ben oltre le vicende della Banca di Sindona: quando lasciò la Guardia di finanza mise la sua esperienza e competenza a disposizione dei commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, avendo in quella occasione la possibilità anche di insegnare il suo metodo di lavoro ai tanti giovani collaboratori dei commissari”.
Silvio Novembre si è impegnato per anni nelle scuole e negli incontri per diffondere la cultura del rispetto delle regole e della ricerca della verità. Era una persona umile, non amava la ribalta. Ogni volta mi diceva con candore: “Io ho fatto solo il mio dovere”.
Se torniamo al terribile 1979, l’anno dell’omicidio Ambrosoli e dell’attacco alla Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli, vale la pena riprendere in mano il carteggio tra il governatore e Giorgio Bocca.
Il 17 luglio 1979 Giorgio Bocca firma in prima pagina un editoriale da incorniciare, dal titolo “Due cadaveri molto ingombranti: Ambrosoli e Varisco, drammi ignorati dall’Italia dell’indifferenza”.
 Questo l’attacco fulminante di Bocca: “Per capire quest’Italia che seppellisce in fretta i suoi cadaveri ingombranti e che, nella calura estiva finge di non vedere i suoi fantasmi, conviene osservare alcune fotografie. In una c’è la famiglia Ambrosoli che arriva alla basilica di san Vittore, a Milano, per il funerale di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato morto ammazzato perché sapeva troppe cose di don Michele Sindona e dei suoi amici altolocati. La signora Anna Lorenza non piange, avanza tenendo per mano i figli, Filippo di dieci anni e Umberto di otto anche essi a ciglio asciutto; due amici di famiglia o parenti camminano ai lati come in un affettuoso servizio e anche sui loro visi si legge questa pacata ma ferma testimonianza: ci siamo ancora, in questo paese c’è ancora gente che non si lascia intimidire dai cialtroni e dai Mafiosi, che non recita il suo dolore, che difende una buona educazione senza la quale non si può essere classe dirigente”.
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Annalori e i figli al funerale di Giorgio Ambrosoli
Bocca prosegue: “In un’altra fotografia, sempre ai funerali di Giorgio Ambrosoli, si vede Paolo Baffi, il governatore della Banca d’Italia, il solo gran commesso dello Stato, la sola autorità, il solo uomo di potere che abbia capito che con Giorgio Ambrosoli non si seppelliva un professionista qualsiasi, vittima di un disgraziato incidente, ma uno dei non molti che cercano di salvare l’essenziale di una civile convivenza; e non sembra casuale che Paolo Baffi, l’unico a capire, a sentire che bisognava esserci al funerale di Ambrosoli, sia a sua volta sottoposto ai ricatti e ai messaggi di una giustizia che vede le pagliuzze e non i tronchi”.
Questa la testimonianza orale – trascritta dal sottoscritto – di Silvio Novembre che conferma ciò che scrive Bocca: «Nel breve percorso a piedi verso il cimitero, Baffi mi disse: “Come è diverso morire a Roma. Qui siamo in pochi e non è presente alcun rappresentante delle istituzioni. La settimana scorsa sono stato a un funerale a Roma e le autorità c’erano tutte con le loro auto blu”».
A stretto giro di posta – 23 luglio 1979 (Archivio Storico della Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario) – Baffi risponde a Bocca: “Caro dottor Bocca, l’attacco contro la Banca d’Italia e la mia persona è stato così massiccio e spietato, ha usato in alcuni organi di stampa argomenti così fraudolenti, abietti e malvagi, che solo quattro e più decenni di lavoro onesto e di profonda reciproca conoscenza con i massimi dirigenti delle altre banche centrali hanno potuto farmi scudo contro colpi che avrebbero diversamente ferito l’immagine della Banca e mia. Ma anche così essendo, il Suo articolo sulla Repubblica mi ha aiutato, venendo a conferma dell’opinione che i miei colleghi all’estero si erano formati su questo maledetto affaire. (…) Le sono grato e Le presento gli auguri più fervidi per le battaglie che Ella conduce al fine di avvicinare l’Italia al modello di una convivenza civile”.
La domanda da porci oggi è se l’Italia ha raggiunto un livello decente di civile convivenza e viene da rispondere “no”.
L’ultima volta che ci siamo visti, nell’osservare alla parete del salotto l’onorificenza di “Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”, Novembre, con gli occhi lucidi, mi ha mostrato una sua foto con Carlo Azeglio Ciampi e mi ha detto: “Io nutro per Ciampi una stima incommensurabile. Non so quante volte ci siamo visti, sia per Sindona che per il Banco Ambrosiano. Sono state per me le soddisfazioni di una vita”.
L’ho ringraziato ancora per l’esempio che ha dato a tutti gli italiani, l’ho abbracciato con forza e lui pure, con tutta la sua possente stazza. Ma come Primo Carnera, Novembre era buono come il pane.
Ti sia lieve la terra, caro Silvio Novembre.

Pubblicato il 29 settembre su Econopoly, blog del Sole 24 Ore

mercoledì 18 settembre 2019

La parabola di Matteo Salvini, accecato dalla tracotanza


Il leader della Lega Matteo Salvini – evocando le parole di Benito Mussolini del 1922 – nel mezzo dell'estate, accecato dalla tracotanza, ha chiesto “pieni poteri” agli italiani, stufo dei “no” del Movimento 5 Stelle, delle pastoie della politica, dimenticandosi che la democrazia ha delle regole, che siamo in una repubblica parlamentare, che esiste un Presidente della Repubblica che non lavora sotto dettatura, un sistema democratico di contropoteri, di “check & balance”, che rendono il nostro sistema immune a un’altra dittatura.

La stampa deve funzionare da quarto potere, svolgere il compito determinante di far comprendere all’opinione pubblica le questioni che contano. L’economista Paolo Sylos Labini, invitava sempre a discernere, ad andare in profondità, stabilendo la corretta gerarchia dell’ordine delle priorità.
Una volta caduto il governo giallo-verde (Conte I) ci chiediamo cosa avrebbe potuto farne Salvini dei “pieni poteri” a livello di politica economica. Avrebbe certamente mantenuto come consiglieri due anti-Euro come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, pericolosi assai soprattutto per il contribuente il quale ha pagato con lo spread maggiori costi sul debito pubblico. Quali alleanze avrebbe costruito in Europa? Avrebbe ascoltato gli industriali del Nord che sono competitivi a livello mondiale o coloro – piccoli imprenditori - che auspicano ancora il binomio svalutazione & deficit pubblico?  

Fortunatamente il nuovo governo giallo-rosso ha ricominciato a dialogare con l’Europa, nell’ottica di rappresentare un’Italia come forza europea. I nostri mercati di esportazione sono Germania, Francia e Inghilterra. Non Ungheria e Polonia. Come Paese fondatore della Ue, come abbiamo potuto porci sempre all’attacco delle istituzioni europee? Quando la sola regione Sicilia ha più dipendenti di tutta l’Unione Europea, Salvini appena ha potuto ha sostenuto che tutta la colpa della mancata crescita economica italiana sta negli “odiosi euroburocrati” che non ci consentono di sforare i parametri di Maastricht.
La verità – che fa male – come cantava Caterina Caselli, è un’altra: il motore della nostra economia è inceppato da venticinque anni: criminalità, sistema pubblico inefficiente, nanismo della imprese, familismo amorale hanno bloccato la crescita, che non può riaversi con prebende e sussidi concessi in deficit. La ricetta del reddito di cittadinanza è stata fallimentare perché ha alimentato l’idea che stare in panciolle ha più senso (e reddito) che lavorare.  

Fabrizio Saccomanni - una vita in Banca d’Italia come civil servant fino alla direzione generale (non divenne Governatore solo per il veto di Silvio Berlusconi), scomparso quest'estate, uno dei tanti costruttori dell’Italia europea - era ben consapevole dell’importanza dei rapporti internazionali e criticava l’irresponsabile strategia della “sedia vuota” (come quella seguita dal generale Charles De Gaulle negli anni sessanta per sabotare le funzioni del Consiglio europeo ). E’ invece stata la linea scelta dai due ex vice-premier, che non hanno mai partecipato ai vertici europei, come quelli sulle politiche migratorie previste dal trattato di Dublino e al contempo hanno biasimato l’Europa in modo autolesionistico senza cercare alleanze e compromessi.
W l'unione europea, pensata nel 1940 da Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi in esilio fascista a Ventotene.

lunedì 8 luglio 2019

Decreto “Crescita”? Un caso di manipolazione del linguaggio

Come ha scritto Gianrico Carofiglio nella “Manomissione delle parole”, il linguaggio può essere manipolatorio. Nella politica italiana succede molto spesso. Il cosiddetto decreto “Crescita” assomiglia al decreto “dignità”, che nella relazione accompagnatoria scritta dall’Inps prevedeva un calo dell’occupazione, alias mancato rinnovo dei lavoratori a tempo determinato.

Nel caso del decreto approvato pochi giorni fa il rischio è il medesimo, ossia vedere una diminuzione del già basso livello di sviluppo economico. Se il governo giallo-verde ansia è riuscito a cancellare quel poco di crescita che c’era, come possiamo pensare che un decreto pieno di mance e assistenzialismo possa dare una svolta all’anemia economica che ci circonda?

Vediamo in dettaglio cosa è stato approvato in Senato.

1.      Viene rientrodotto il superammortamento per le imprese. Era stato detto dal ministro Luigi Di Maio che tutto quello fatto Matteo Renzi fosse da buttare. Ora, fortunatamente, c’è una revisione e si torna a guardare con favore agli investimenti privati, che dipendono dalla fiducia (costantemente in calo dalle elezioni del marzo 2018).

2.      Vengono tagliate le tariffe Inail dal 2023. Poca roba sul tavolo.

3.      Sono stati introdotti ecoincentivi per tutte le moto e microcar.

4.      Il Ministero dell’Economia è autorizzato ad entrare come azionista nella nuova Alitalia. Il prestito di 900 milioni sarà ben difficile vederlo restituito. Come possiamo pensare di creare sviluppo se vengono messi denari pubblici nella fornace Alitalia, che più vola e più perde?

5.      Nessun passo indietro sulla responsabilità penale per eventuali reati ambientali relativi alla bonifica e al rilancio dell’Ilva di Taranto. Il governo non ha previsto l’immunità totale nonostante il duro scontro tra Arcelor Mittal e il Mise.

6.      Previsti 3 milioni di euro per Radio Radicale (ottima cosa, vista la capacità archivistica) e  norme per favorire le aggregazioni bancarie al Sud, con particolare attenzione alla Banca Popolare di Bari.

7.      Le grandi imprese con più di mille dipendenti potranno licenziare i lavoratori più anziani offrendo loro in cambio “uno scivolo” di 5 anni, per chi ha maturato il diritto alla pensione di vecchiaia. Se si incentivano le persone ad andare in pensione, come si può pensare di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro?

8.      E’ stata introdotta una norma per `salvare´ i fornitori di Mercatone Uno, caso classico di incapacità degli imprenditori di competere in uno scenario dominato dalla disintermediazione.

9.      Ancora una volta il Comune di Roma viene aiutato dal contribuente. Infatti parte del  debito storico della Capitale passerà a carico dello Stato. E’ così, aiutando i peggiori amministratori comunali italiani, che si vuole creare un clima favorevole alla crescita? E i Comuni sobri e buoni pagatori, con i conti in ordine, cosa devono pensare? Quale esempio nefasto viene dato? Il presidente Sandro Pertini soleva dire: “I giovani non hanno bisogno di prediche, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà”. Eccoci serviti.


Se il governo voleva dimostrare alla Commissione Europea di essere sulla retta via, di creare le condizioni favorevoli per le imprese, di fornire un terreno favorevole al ritorno della fiducia, possiamo dire che siamo ben lontani dall’obiettivo.

Siamo ormai in estate con il caldo che ci attanaglia. Avremmo bisogno di una folata di fresco, di idee innovative, di pensiero vigoroso. Ha vinto la retorica e il pensiero debole.
(Pubblicato sulla "Gazzetta del Mezzogiorno" il 2 luglio 2019).

martedì 28 maggio 2019

Omaggio a Vittorio Zucconi, giornalista formidabile

Quando ho iniziato a leggere i giornali avevo 14 anni. Uno dei primi giornalisti a catturare la mia attenzione era Vittorio Zucconi, affabulatore di qualità. Sempre arguto, soave, ti teneva attaccato alla pagina. Ti prendeva per mano e ti portava fino in fondo.
Ora, a distanza di 35 anni, mi tocca salutarlo e ringraziarlo per le volte in cui mi ha fatto riflettere, pensare e anche tanto ridere. Mi ricordo in uno dei suoi tanti libri il racconto di quando suo padre Guglielmo gli regalò per i 18 anni un cucchiaino d'argento, con un bigliettino d'auguri che recitava così: "Nella vita dovrai mangiare così tanta merda, che almeno il cucchiaio sia d'argento".
Un maestro per tanti, anche alla radio, dove era divertentissimo e capace di non prendersi mai sul serio. Sono migliaia i lettori di Repubblica ad aver mandato messaggi di cordoglio. L'ex direttore Ezio Mauro ha scritto un coccodrillo memorabile ricordando con quale velocità era in grado di scrivere un pezzo anche in condizioni difficilissime.
Un lettore, Massimo Marnetto, ha scritto a Corrado Augias: "Vittorio Zucconi parlava dritto, con lealtà e spessore. Aveva tanto mondo nella sua storia. Parlava dei grandi, ma faceva passare nelle sue parole anche l'umore della gente. Nei dibattiti ribatteva con parole abrasive, spesso ironiche, mai arrogante. Se ne va così, con un flash d'agenzia, in una domenica piovosa".
Augias ha risposto da par suo: "Zucconi era un giornalista totale nel doppio senso dell'espressione: notizie da trovare, racconto da offrire al lettore. Mi ha sempre affascinato e un po' invidiato la sua abilità narrativa".
A chi gli chiedeva come fare per fare bene il mestiere del giornalista, Zucconi rispondeva: "Devi portare il lettore con te alla prima riga. Se vai in guerra, devi mettergli l'elmetto, se c'è un omicidio, deve vedere il cadavere, se vai al mare, deve avere il costume, e se vai in strada, devi fargli respirare l'odore dell'asfalto".
Il senatore leghista Simone Pillon (bigotto all'inverosimile, autore di un progetto di legge sul diritto di famiglia che ci riporterebbe al Medioevo), che era stato criticato su Radio Capital da Vittorio Zucconi, con un tatto da miserabile, è riuscito a insultare Zucco da morto. Bene ha fatto Michele Serra a replicare: "Pillon pensi all'anima sua".

Caro Vittorio, se molti compreso me, amano i giornali in modo viscerale, è anche merito tuo. Un caldo abbraccio e ti sia lieve la terra.

domenica 3 marzo 2019

L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti

Prima di morire improvvisamente, Guido Roberto Vitale, finanziere-mecenate, mi ha fatto un ultimo regalo. Ha convinto il direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini a ripubblicare il mio volume edito originariamente per Vitale & Co. Il titolo - "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" e il testo sono rimasti gli stessi, non è stata cambiata una virgola. Il titolo è stato scelto dopo numerosi tentativi andati a vuoto dallo stesso Vitale. Fa il verso, al contrario al volume di anni fa di Napoleone Colajanni: "Il capitalismo senza capitale".
Un cambiamento c'è. E' la dedica speciale che ho scritto, che parte così: "Guido Roberto Vitale era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso, fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Nei tempi "dell'uno vale uno", un extraterrestre".
Un anno di lavoro, con due supervisor, lo stesso Vitale e Francesco Giavazzi, formidabile discussant. Serbo il ricordo di un pranzo a tre, dove sono uscito un po' scorato dopo le critiche incisive ricevute sul testo in bozza. Avercene di opinioni franche che non fanno che migliorare l'elaborato.
Giavazzi, a lavoro finito, mi ha fatto i complimenti per il risultato raggiunto e ha deciso di scrivere la prefazione, che si chiude così: "Ricordino i nostri ottimi imprenditori il monito di Luigi Einaudi che il 6 agosto 1924 scriveva sul "Corriere della Sera": "Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, partiti politici pur aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita la voce dei combattenti. Soltanto i capitani d'industria tacciono".

Il capitolo più importante del volume è intitolato "Che fine ha fatto il capitalismo italiano?". Argomento a più non posso e concludo: "Da questa lunga analisi è emersa l’incapacità della grande impresa privata italiana a trovare la via del proprio sviluppo.  Ha cercato di arroccarsi attorno a Mediobanca, che l’ha aiutata. Forse troppo. «Ho dovuto fare le nozze con i fichi secchi», ha risposto Cuccia a Colajanni.

Esaurito il ruolo dell’IRI, è mancata clamorosamente la grande impresa privata, che è stata foriera, più volte nella storia italiana, di molte illusioni. L’industria italiana non ha mai fatto da sé. Due personaggi, ben prima di Cuccia, l’hanno tenuta in piedi: Bonaldo Stringher e Alberto Beneduce. Il capitalismo privato si è dimostrato inadatto alle sfide del suo tempo. Sono emersi i vecchi limiti: un capitalismo senza capitali, la scarsa attitudine a rischiare, la tentazione ad adagiarsi sull’investimento dello Stato, tirato per la giacca per sopperire a tutte le manchevolezze del Paese.

Invece di stimolare la classe politica a creare le condizioni favorevoli per fare impresa, a creare quel clima generale favorevole allo sviluppo, i grandi imprenditori hanno chiesto aiuti, sussidi, pensando al proprio “particulare”, spingendo l’Italia verso un modello di «capitalismo assistenziale».

In questo contesto, l’economia italiana ha assistito alla crescita del “quarto capitalismo”, imprese in grado di essere competitive sui mercati internazionali, così capaci di combinare al meglio i fattori di produzione da ricavare margini elevati sul fatturato. In tal modo, le esigenze di finanziamento sono limitate al capitale circolante netto, mentre gli investimenti vengono realizzati con il capitale proprio, indice di sostenibilità finanziaria. Quando la famiglia proprietaria dell’impresa riesce a uscire dal familismo e far valere i principi della professionalità e del merito è quasi imbattibile. I saldi positivi della bilancia commerciale parlano da soli. Becattini aveva visto giusto. Il futuro dell’Italia è nei distretti e nelle medie imprese, che non necessariamente devono diventare grandi. Se il nanismo del sistema produttivo italiano è un vincolo al rafforzamento della competitività internazionale, come hanno sostenuto Becattini e Coltorti, non esiste una dimensione ottimale di impresa. 

Rimane il fatto che il nostro capitalismo imprenditoriale è sì trainato dalle imprese internazionalizzate ma è privo di global companies. Questo modello, con le sue debolezze, che Aldo Bonomi ha definito capitalismo intermedio, conserva un vantaggio competitivo: è fondamentalmente espressione di «grandi imprese artigiane ipertecnologiche».

Che dire di altro? Spero di avervi incuriosito. Da martedì 5 marzo il mio volume "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" si può comprare in abbinamento col Sole 24 Ore (+9,90 euro). Da metà aprile il volume sarà disponibile anche nelle librerie. Buona lettura. Aspetto poi i vostri commenti. Grazie.

domenica 10 febbraio 2019

Omaggio a Guido Roberto Vitale, formidabile banchiere d'affari

Guido Roberto Vitale
Ho avuto il privilegio negli ultimi due anni di frequentare assiduamente il banchiere d'affari Guido Roberto Vitale, scomparso il 5 febbraio, colpito da un infarto. E' stato un dono della vita conoscerlo. Una persona straordinaria, dal punto di vista umano e professionale.
La mia conoscenza di Vitale risale a parecchi anni fa, quando Giancarlo Arduino, collega in Nextam Partners SGR, me lo presentò, memore dei suoi trascorsi in Euromobiliare. E da allora ci siamo visti a ritmo costante. Ogni volta che pubblicavo un volume sul mio amato Paolo Baffi, gli facevo visita e discutevamo a lungo dei problemi del nostro Paese. Era un suo chiodo fisso. Gli uomini si misurano con i successi professionali, siano fama o guadagni, difficile che considerino l'impegno civico una misura del loro valore umano. Per Vitale non era sufficiente. Spesso, quando incontrava qualcuno, gli chiedeva: "Scusi, lei cosa sta facendo per l'Italia. Quello che fa nella vita professionale non basta".
Questo comune sentire per l'interesse collettivo ci ha unito negli anni. Quando mi sono candidato alle elezioni regionali nella lista civica di centro sinistra "Per Ambrosoli presidente", mi ha sostenuto moralmente e incoraggiato a darmi da fare in modo serio, approfondendo i vari dossier, in primis la sanità lombarda, che cuba oltre 18 miliardi di euro l'anno. E' quello che ho fatto. Grazie a questi miei interventi sul web, Repubblica Milano nella persona del caporedattore Roberto Rho mi invitò a collaborare.

Nel novembre 2017 Vitale mi chiamò per invitarmi a colazione, sotto il suo ufficio. Per me era un piacere incontrarlo. Discutere con lui era uno stimolo continuo. Mai banale, sempre con un pensiero laterale che non immaginavi. Ti spronava sempre a dare il meglio di te.
Appena seduti, dopo i primi convenevoli, Guido Roberto mi disse: "Ho una proposta da farle: scrivere il prossimo volume per la Vitale e Co., che regaliamo ai nostri clienti e amici come strenna natalizia". Io, abituato a cimentarmi con le carte d'archivio, chiesi su quale argomento dovessi lavorare e Vitale mi rispose: "Il capitalismo italiano". Io, colpito a sorpresa e basito, esclamai: "Vaste programme, direbbe il generale De Gaulle". Vitale prese quindi a spiegarmi il suo progetto, convintissimo che fossi in grado di fare un bel lavoro (era più convinto lui di me, nelle fasi iniziali).
Tra le tanti doti di Vitale c'era sicuramente quella di scegliere le persone. Aveva un fiuto particolare e lo sguardo lungo. Intravedeva la capacità degli individui, e, una volta individuati, delegava monitorando e consigliando da vicino. Credeva nei giovani, profondamente.
Gli piacevano anche le sfide. Spesso sosteneva che "Volere è potere". Amando le cose difficili, doveva crederci. Una volta gli risposi citando Carlo Azeglio Ciampi, nel cui lessico spiccava l'espressione "atto volitivo", espressione di una ferrea determinazione. La citazione gli piacque.

Un giorno mi raccontò di quando non prese la lode in sede di laurea perché il solito barone torinese si offese dal non essere citato. Vitale da quel giorno comprese dal vivo il potere delle corporazioni. La sua tesi sulle operazioni di mercato aperto della Federal Reserve era qualcosa di esoterico per i "professoroni".
Dal quel novembre 2017 non so più quante volte ci siamo sentiti e visti. Mi chiamava più volte al giorno. Alla mattina presto, specialmente. "Come va?", erano le sue prime gentili parole al telefono. E subito mi chiedeva se avessi letto Francesco Giavazzi sul Corriere o Claudio Cerasa sul Foglio.
Luigi Einaudi
Ogni volta che scrivevo un capitolo, mi invitava a colazione. Arrivava preparatissimo, aveva sempre letto e sottolineato i passaggi più interessanti o che non lo convincevano. Un giorno, dopo che lesse la citazione dell'articolo di Luigi Einaudi sul "Silenzio degli industriali" dopo il delitto Matteotti del 1924, mi chiamò alle 7.40 e mi disse: "Dott. Piccone, questa citazione vale il volume. Si attivi per procurarmi il testo integrale. Adesso chiamo Cerasa così che lo pubblichi sul Foglio. Anche oggi gli industriali devono farsi sentire e reagire alle politiche nefaste del governo giallo verde".
Quanto mi manca il suo "Come va?". E non sono il solo.

Una volta completato il volume, restava da scegliere il titolo. Mentre mi arrovellavo e proponevo titoli su titoli, un giorno Vitale se ne uscì col titolo perfetto: "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti". La titolazione ricorda, ribaltandolo, il "Capitalismo senza capitale" di Napoleone Colajanni. Ma Vitale era convinto giustamente che il problema dell'Italia non fossero i capitali, che ci sono, ma il loro corretto utilizzo da parte di una classe di imprenditori che non è stata in grado di farsi classe dirigente. Come ha scritto Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, "Un Paese senza borghesia è come una macchina da corsa senza driver, rischia di sbandare e finire fuori strada".
Che emozione presentare il volume al Circolo del Giardino davanti a 400 persone! Difficile dimenticare quel parterre de rois composto da Elsa Fornero, Vittorio Colao, Francesco Giavazzi, Fabio Tamburini, Manuela Romeo Pasetti, Alessandro Spada. Con Guido Roberto Vitale a fare gli onori di casa.

Vi voglio raccontare un episodio che rappresenta bene l'acume e capacità di Vitale di andare dentro le cose, e il testo. Nell'ultima parte del volume ho analizzato i fattori di arretratezza storica del Belpaese, tra i quali c'è l'assenza di una classe dirigente adeguata. Ho ritenuto utile e necessario citare Tommaso Padoa-Schioppa, che nel gennaio 2007 sul Corriere della Sera scrisse: "Si ritornerà alla crescita solo se all'ansia della rincorsa, che ci ha sospinto per anni, subentrerà, quale spirito animatore, una ambizione nazionale. Desiderio di eccellere come Paese, fiducia nelle sue forze, sguardo lungo" (Via le rendite, o l'Italia torna povera, 7 gennaio 2007).
Guido Roberto Vitale in uno dei tanti pranzi insieme (quanto mi mancheranno!), mi disse: "Caro Piccone, non ci siamo, il termine "desiderio" non va bene. E' troppo vago, aleatorio. Se gli americani avessero avuto il desiderio, e basta, di andare sulla luna, non ci sarebbero andati. Hanno invece lavorato per realizzare l'obiettivo prefissato. Hanno avuto il commitment, la responsabilità di portare avanti il progetto. Il desiderio non è sufficiente. Bisogna impegnarsi a fondo, trovare le risorse, le persone, preparare budget, andare avanti con determinazione. Altrimenti i desideri rimangono solo desideri. E nulla più". Non potevo che essere d'accordo, e quindi, cambiai la citazione e il virgolettato, così da inserire il tema del commitment . Una lezione di 20 minuti, che non dimenticherò mai.
Più volte Vitale mi ha invitato a cercare la verità e dire con franchezza le cose come stavano. Quando trovavo qualcosa di interessante da un punto di vista storico negli archivi, ed ero titubante se pubblicarlo o meno, Vitale mi sferzava e non aveva esitazioni. Poche settimane fa è stato lui a convincermi a pubblicare il post su queste colonne sul giurista Sabino Cassese, dotato di un formidabile Zeitgeist (spirito del tempo), che lo portò a stare dalla parte di Giulio Andreotti nel terribile biennio 1978-9 ed attaccare la Banca d'Italia guidata allora da due integerrimi servitori dello Stato quali Paolo Baffi e Mario Sarcinelli. La pagina di Cassese sull'Espresso, a detta di un economista da me contattato, è da considerarsi "terrificante". Fino a che Baffi si vedeva attaccato da Michele Sindona, Roberto Calvi, o i fratelli Caltagirone finanziati dall'Italcasse era nelle cose, ma il fuoco amico di Cassese non era prevedibile.
Ricordo ancora Guido Roberto al telefono: "Dott. Piccone, non abbia esitazioni, pubblichi. La memoria di questo Paese è labile, bisogna rafforzarla". Una volta pubblicato, la sua reazione su Whatsapp (che conservo con commozione) fu la seguente: "Si farà qualche nemico in più, ma è il prezzo che si paga per essere liberi e intellettualmente onesti. Complimenti vivissimi, grv".
Come ha scritto Roger Abravanel sul Corriere della Sera, "Un uomo giusto che se credeva in una idea, la portava avanti con coraggio anche a costo di rischi personali".

Siccome Vitale amava profondamente il proprio Paese, si è sempre impegnato in modo olistico, a favore della cultura e del sapere (e della bellezza). Non poteva quindi che impegnarsi - "sempre propositivo e dinamico" - come consigliere e vicepresidente del FAI, Fondo Ambiente Italiano. Proprio nelle scorse settimane, Vitale mi ha fatto incontrare il presidente Andrea Carandini, il vicepresidente esecutivo Marco Magnifico e il direttore generale Angelo Maramai. Persone capaci che si spendono per la cura dei tanti "luoghi del cuore" che abbiamo in Italia.

Come spesso avviene quando i nostri punti di riferimento se ne vanno, ci guardiamo intorno alla ricerca dei sostituti. Oggi facciamo fatica a vederne. E il vuoto che ci lascia Vitale è ancora più grande.
Mi ha fatto molto piacere ricevere telefonate e attestazioni di stima da parte di amici e colleghi di Vitale, il quale negli ultimi mesi continuava a parlare bene di me e del volume appena pubblicato. "Lo hai reso felice. Era gioioso come un bambino, te ne sarò eternamente grata", mi ha detto la figlia Roberta. Ho pianto le mie lacrime, come è naturale, e mi impegnerò fin d'ora nel parlare in giro per l'Italia di lui e dei temi che gli stavano a cuore.
Colgo quindi l'occasione per dirvi che all'inizio di marzo il volume "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" uscirà in una nuova edizione del Sole24Ore (Vitale, da signore quale è, mi ha ceduto gratuitamente i diritti d'autore affinché si potesse generare un dibattito pubblico dopo la pubblicazione del libro), sempre con la prefazione di Francesco Giavazzi, formidabile discussant. Si potrà comprare anche in edicola dal 5 marzo in abbinamento al quotidiano. Proprio nell'ultima telefonata, lunedì sera 4 febbraio alle 21.40, mi invitava a mandargli la bozza della nuova copertina del volume, perché voleva dire la sua. Mi disse: "Ne parliamo domani, quando torno a casa. E discutiamo di nuovi progetti". Non ce n'è stato il tempo, ahinoi.

Ci siamo sempre dati del lei. Il "tu" non gli piaceva.
Allora, caro Guido Roberto Vitale, mi mancherà moltissimo, la terra le sia lieve.

giovedì 31 gennaio 2019

La Banca d'Italia è passata all'opposizione? Lo sostiene il vice premier Di Maio, che ha letto con attenzione Sabino Cassese, vero precursore: nel 1978 accusò Paolo Baffi e la Banca d'Italia di burocratismo, di fare troppe ispezioni, di fare opposizione al governo

 

L'operato del governo giallo verde lascia molto a desiderare. I provvedimenti assistenziali incentrati su "quota 100" e sul reddito di cittadinanza hanno accentuato l'inversione delle aspettative sulla crescita. I consumi languono, la domanda privata è in ritirata in previsione di tempi cupi.
La Banca d'Italia, con il suo modello econometrico, non ha potuto che prendere atto di quello che vanno dicendo tutti gli istituti di ricerca: l'Italia nel 2019 crescerà ben poco. Fino a qualche tempo fa il governo, più che ottimista, preso da esuberanza irrazionale, stimava una crescita del Pil dell'1,5%. Dopo intense negoziazioni con la Commissione Europea, le stime sono state abbassate all'1%. Ma è ancora fantascienza. Via Nazionale settimana scorsa ha quindi reso noto che il suo modello prevede un rallentamento della nostra economia, che nel 2019 crescerà solo dello 0,6%. E i rischi sono verso il basso, come ha detto qualche giorno fa Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. Lo certifica anche l'Istat stamane: la variazione del pil nel quarto trimestre è stata negativa: -0,2%. Una flessione. Se il governo volesse dare la colpa del calo alle tensioni internazionali, casca male; infatti l'Istat scrive: "Dal lato della domanda, contributo negative della componente nazionale e apporto positivo della componente estera netta".
Il vice premier
Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle non ha esitato a criticare Palazzo Koch, sostenendo che la Banca d'Italia è inaffidabile - "sono diversi anni che non ci prende" - accusandola di complicità politica con gli avversari del governo: "Solo che è strano: quando c'erano quelli di prima le stime erano al rialzo, adesso fanno addirittura stime al ribasso".
Pochi giorni fa
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul "Corriere della Sera" - La politica che nega la realtà" - hanno criticato aspramente Di Maio: "Questa è un'accusa gravissima che nega decenni di storia di indipendenza di via Nazionale, un'istituzione anch'essa imperfetta ma una delle migliori di cui l'Italia si può vantare...Minare la credibilità delle istituzioni è una strada pericolosissima".
Come non essere d'accordo con il duo Alesina-Giavazzi, consapevoli dell'importanza capitale dell'indipendenza delle banche centrali, conquistata con fatica dopo decenni.
Ma Luigi Di Maio ha un precursore autorevole, prestigioso, al quale si è, a sua insaputa, ispirato. Niente popò di meno che Sabino Cassese, autorevolissimo giurista, già professore di diritto pubblico e amministrativo, già ministro della Funzione Pubblica nel governo Ciampi, già consigliere della Corte Costituzionale.
 Nel lontano 1978 Cassese criticò duramente - dalle colonne dell'Espresso -  la Banca d'Italia guidata allora dal governatore Paolo Baffi. Il 20 agosto 1978 - A via Nazionale il burocrate grida: ho vinto! - Cassese accusà la Banca d'Italia di burocratismo e di effettuare troppe ispezioni di Vigilanza (allora diretta da quel galantuomo dalla competenza superiore che risponde al nome di Mario Sarcinelli).
Avete letto bene. La Banca d'Italia eseguiva troppi controlli secondo Cassese, che rimpiange il governatorato Guido Carli, quando le ispezioni (ben poche) venivano annunciate con largo preavviso, così da "sistemare" con calma i pateracchi nella gestione del credito.

Cassese accusò la Banca d’Italia di non collaborare col sistema politico-amministrativo e di formalismo, poichè, a suo dire, la Banca d’Italia eccedeva – a seguito delle ispezioni nelle banche vigilate - nelle denunce alla magistratura. Così Cassese: “Nel 1975, queste [denunce, ndr] furono 67; nel 1976, 117; nel 1977, 59. Per gli anni che precedono [con Carli governatore, ndr], ...si ha ragione di ritenere che il fenomeno fosse sconosciuto negli anni 1960 e fosse inferiore a poche decine dal 1970 al 1975...Ci si chiede se la Banca d’Italia non possa prevenire i reati [chissà cosa possono pensare i membri del direttorio oggi, ndr]: essa deve indirizzare e governare il credito, non agire come una Procura della Repubblica o la Corte dei Conti del sistema creditizio”. Cassese non comprese l’importanza vitale delle ispezioni in loco, decisive per scoprire il malaffare. Sono state proprio le ispezioni all’Italcasse di Arcaini dell’agosto 1977 e al Banco Ambrosiano di Calvi nel 1978 – oltre alla contrarietà al salvataggio-papocchio della Banca Privata Italiana di Michele Sindona - a segnare – purtroppo - la fine del “duo inafferrabile” Baffi- Sarcinelli.

Non è un caso che Donato Masciandaro, direttore del Centro Baffi Carefin Baffi della Bocconi abbia definito Baffi il “Governatore della Vigilanza”. Fu proprio il cambio di rotta nelle politiche di Vigilanza che indusse la politica a reagire servendosi della peggiore magistratura romana (altro che “porto delle nebbie”, meglio definirlo “porto delle follie”). Lo storico Alfredo Gigliobianco scrive: “Baffi, insieme con Sarcinelli, contrastò i fenomeni degenerativi che si manifestavano in quegli anni, usando anche con efficacia e senza timori reverenziali lo strumento delle ispezioni”.

Sabino Cassese

Cassese chiude così il suo j'accuse: "Un corpo si burocratizza quando perde di vista i suoi fini, le sue procedure vengono formalizzate e diminuiscono le sue capacità di reazione ai mutamenti esterni. I sintomi segnalati potrebbero indicare che la Banca d'Italia si sta burocratizzando, si isola, non coopera col sistema politico-amministrativo. O vogliono dire che è passata all'opposizione".
Possiamo solo immaginare la rabbia di Baffi nel leggere queste opinioni sgangherate di uno dei maggiori giuristi italiani. Baffi pensò: fino a che mi attaccano Giuseppe Arcaini, presidente dell'Italcasse (finanziatori dei fratelli Caltagirone), Michele Sindona della Banca Privata Italiana o Roberto Calvi del Banco Ambrosiano, è tutto molto prevedibile. Ma l'attacco di Cassese è fuoco amico, viene da chi mi dovrebbe difendere. 
Anni dopo, l'8 ottobre 1983, in una lettera a Giampaolo Pansa, Baffi scrisse che le streghe del Macbeth fossero più di tre: "E a librarsi nel basso cielo d’Italia di streghe e diavoli ve n’erano assai più di tre: Sindona, Calvi, i Caltagirone; i giornalisti come quelli del Fiorino, dell’Aipe, del Borghese; finanzieri vaticani e dirigenti di qualche istituto centrale di credito; uomini politici e loro caudatari; alti funzionari dello Stato; «magistrati», e qui virgoletto perché applicati ad alcuni il nome stride. Ora questa coalizione di «instruments of darkness» è meno potente; perciò non invano alcuni, dall’altra parte, sono caduti sul campo" (Archivio Storico della Banca d'Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario, cart. 33, fasc, 11).Chi sono i "caduti sul campo" citati da Baffi? Lui stesso, Mario Sarcinelli, esautorato dalla Vigilanza e poi, per sua fortuna nel gennaio 1982, richiamato come direttore generale del Tesoro dal ministro Beniamino Andreatta, e Giorgio Ambrosoli, assassinato da un killer al soldo di Sindona.
La reazione di Baffi a Cassese non si fece attendere. Il 27 agosto - A via Nazionale le cose stanno così - sull'Espresso il governatore cercò di trattenersi ma dalla replica - lunga, precisa e dettagliata - si capisce perfettamente lo sdegno per l'attacco non previsto e così ingiusto. Baffi: "Si fa offesa alla sforzo di pensiero e alla passione civile posti in questa attività di analisi e di collaborazione, che impegna le aree associative del cervello di un buon numero di persone, si misconosce il progresso insito nel passaggio dall'episodico al sistematico, tacciando di burocratismo le nuove metodologie di lavoro e di comunicazione". E sulla Vigilanza: "La Banca d'Italia, nell'esercizio dei compiti di vigilanza bancaria, espleta funzioni tipicamente amministrative di indirizzo e controllo degli enti creditizi da essi svolta. Esulano, quindi, dalle funzioni istituzionali della Banca la repressione e la prevenzione dei reati; ciò non toglie che nel compimento dei propri doveri l'Organo di Vigilanza possa talvolta imbattersi in fatti suscettibili di valutazione penale, che, secondo l'interpretazione corrente, vanno portati a conoscenza dell'Autorità giudiziaria a termini dell'art. 2 c.p.p.".

Paolo Baffi
Baffi chiude così: "Mi lusingo di aver fornito al lettore elementi sufficienti per giudicare dell'osservazione finale contenuta nell'articolo secondo cui la Banca "non coopera col sistema politico amministrativo" e dell'ancor più strano interrogativo che la segue suo suo "passaggio all'opposizione". 

Intanto Baffi, ferito da Cassese, era già sotto indagine fin dal 7 aprile 1978, inizio, secondo i magistrati Alibrandi e Infelisi, del fantomatico “disegno criminoso”.
Cassese, in passato, ha replicato così alle mie osservazioni: "Da quanto lei stesso scrive si evince che mi riferivo alla prassi di attivare le procure, non alla vigilanza in quanto tale". E se l'ispezione evidenzia irregolarità, non si devono denunciare le malefatte alla magistratura? E prevenire i reati, cosa significa? Che la "business judgement rule" nella concessione del credito non vale più? Che c'è la presunzione di colpevolezza? Mah.

Luigi Di Maio

Di Maio è stato negli archivi della Banca d'Italia (ASBI) il via Nazionale 191? Non credo, io non l'ho mai visto!

Il vice premier ha tratto ispirazione, nella sua inconsapevolezza, da uno dei massimi giuristi italiani.
Ci chiediamo se può essere la volta buona per il professor Cassese per prendere carta e penna e, dopo 41 anni, chiedere scusa, e ammettere di aver preso un granchio colossale attaccando (dando in tal modo una mano a Giulio Andreotti, regista dell'operazione di disarcionamento) Paolo Baffi e Mario Sarcinelli? E' così difficile ammettere i propri errori? Dall'alto del proprio scranno non si può ammettere di aver sbagliato?