venerdì 13 ottobre 2017

Il dualismo italiano nord-sud: una storia infinita. Un aggiornamento serio di Emanuele Felice

Qualche settimana fa la Banca d'Italia ha pubblicato un Quaderno di storia economica con un paper di Emanuele Felice, valente storico dell'economia, dal titolo "Le radici del dualismo: PIL, produttività e cambiamento strutturale nelle regioni italiane nel lungo periodo (1871-2011)".
Il lavoro ripercorre l’evoluzione della disuguaglianza regionale in Italia nel lungo periodo, dagli anni  intorno all’Unificazione (1871) fino ai nostri giorni (2011). Nella storia della disuguaglianza regionale in Italia si possono distinguere quattro fasi: moderata divergenza (l’età liberale (1871-1911)), forte divergenza (le due guerre mondiali e il fascismo, 1911-1951), generale convergenza (il miracolo economico, 1951-1971) e infine la polarizzazione in "due Italie" (1971-2011).
In quest’ultimo periodo, per la prima volta il PIL e la produttività, così come gli addetti per abitante e la produttività, hanno seguito due sentieri opposti: il divario Nord-Sud è aumentato nel PIL, diminuito nella produttività.
Felice, autore del notevole Perchè il Sud è rimasto indietro (il Mulino, 2014), ritorna ad appassionarsi sul tema dei divari regionali con un data-set aggiornato. Fa ancora una certa impressione leggere nell'introduzione che "Italy is arguably the only Western country where regional imbalances still play a major role nowadays: Italy’s North-South divide in terms of GDP has no parallels in any other advanced country of a similar size, and southern Italy is, after Eastern Europe, the biggest underdeveloped area inside the European Union".
Il nostro Mezzogiorno è ancora un problema enorme, afflitto da corruzione, criminalità, istituzioni di basso livello che non facilitano la vita d'impresa. Basti pensare alla storia dell'imprenditore Salvatore Barbagallo - a cui è stato conferito il Premio Giorgio Ambrosoli nel gennaio scorso - , attivo nel settore della trivellazione, che è stato costretto a chiudere la sua impresa in Calabria.
L'analisi di Felice è interessante anche perchè ci dà informazioni sulla crescita del Pil pro-capite delle singole regioni. Se osserviamo la tabella sul gdp pro capite, la Liguria nel 1871 (dopo l'unificazione) era la regione italiana messa meglio (138 vs 100 dell'Italia tutta). Nel 2011 la Liguria si trova a 106. Per l'attento osservatore non ci sono sorprese, infatti investimento ligure è un ossimoro come ghiaccio bollente. Gli investimenti sono inesistenti e sempre rimandati (in eterno). Peraltro la Liguria ha un drama demografico in corso visto che figli non se ne fanno. Chi fa figli investe sul futuro. Il ligure risparmia e sogna nostalgicamente il passato dorato.
Percorso opposto dell'Emilia Romagna, che partiva svantaggiata (106) e nel 2011 si trova a 122. La Valle d'Aosta e il Trentino sono le regioni che si sono comportate meglio: la prima passata da 80 a 136, la seconda da 69 a 129. La Campania ha dilapidato il vantaggio relativo, da 109 a 64; idem la Sicilia, terra irredimibile, da 95 a 66. Federico II si rivolta nella tomba a vedere gli sconquassi dell'Assemblea Regionale siciliana, l'organo politico peggiore del mondo, dopo Chavez.
Nella parte finale del paper Emanuele Felice cerca di individuare le determinanti del ritardo cronico del Sud, sulle quali non c'è convergenza tra gli studiosi. Felice propende per i fattori istituzionali: "It has been argued that these fixed effects could be enduring socio-institutional differences: higher inequality in the South, coupled with extractive political (clientelism) and economic (latifundium versus sharecropping, organized crime) institutions, which reinforced a de facto extractive setting in the South – although within a nominally national institutional framework. Historically, inequality and extractive institutions in the South may have also determined, in that area, lower human and social capital, that is, they may have created the concomitant conditioning variables which favored the falling back of the South in some periods". 

Insomma diverse le ipotesi, ma la ricerca storica non ha un'opinione condivisa. Anche io, nel mio piccolo, concordo con Felice e Acemoglu/Robinson (autori del bellissimo Why nation fail), i fattori istituzionali sono decisivi.
Intanto il Sud risulta tra le regioni più povere come pil-procapite e come produttività. Un disastro unico in Europa. Patetici sono coloro che piangono e si rifugiano dietro un racconto storico falso (vedasi i libri di Pino Aprile).

venerdì 6 ottobre 2017

Gli studenti si devono ribellare ai professori senza etica

Dopo l'ennesimo scandalo legato ai concorsi truccati in università, non si può che essere d'accordo con la senatrice a vita Elena Cattaneo che scrive su Repubblica: "Un professore che invita un candidato di un concorso a ritirarsi perchè "non è previsto che vinca", o affinchè sia abilitato un altro" meno meritevole, accompagnando l'invito con una minaccia - neppure velata -  che "altrimenti la sua carriera universitaria sarà compromessa", non è degno di ricoprire una carica pubblica".
Qualche anno fa Luigi Zingales, costretto ad andare negli Stati Uniti perchè in Italia non avrebbe avuto lo spazio meritato - scrisse sul Sole 24 Ore un pezzo superbo dal titolo "Strass-Kahn e il primato dei più deboli" dove il messaggio chiave era di alzarsi in piedi, protestare e far valere la propria voce. In sintesi, "Speak out, stand up". Lo portai a lezione e lo leggemmo insieme. Il passaggio rilevante è questo: "(In Italia, ndr) Prima di sfidare l'autorità, dovevamo chiederci «ma sei proprio sicuro?». Questo eccesso di zelo si trasformava spesso in sudditanza. Negli Stati Uniti ai miei figli viene insegnato il diritto-dovere di stand up speak out, letteralmente di alzarsi in piedi e alzare la voce per segnalare possibili errori: non solo dei compagni di scuola, ma anche dei professori. Questo non significa insubordinazione, ma diritto di chiedere conto anche ai propri superiori delle loro azioni". Zingales chiudeva così il suo articolo: "Non sorprendentemente, in un ricerca pubblicata di recente, Guido Tabellini trova una correlazione tra valori insegnati e crescita economica. Le regioni d'Europa in cui il principio di obbedienza all'autorità è uno dei primi valori insegnati crescono meno. È giunto il momento che anche in Italia si insegni il diritto-dovere di stand up ai don Rodrigo" (18 Maggio 2011, attualissimo, "niente è più inedito della carta stampata").

Già in passato ci siamo soffermati sull'"Università truccata", così definita dal professor Roberto Perotti della Bocconi. Sono passati i tempi in cui un professore ordinario - cosiddetto "barone" - chiedeva a un suo assistente qualsiasi cosa. Ho ricordato su queste pagine l'esilerante (con gli occhi di oggi) richiesta del prof. Corrado Gini - ancora oggi è citatissimo per il suo indice sulla concentrazione del reddito e della ricchezza - che chiese a Franco Modigliani, già full professor negli Stati Uniti, di portare a riparargli l'orologio.

Tra le soluzioni pensate per ridurre lo scambio di favori in università alcuni propongono un codice etico. Balle, i codici etici servono solo per farsi belli. Aumentare le risorse, come propone il professor Tomaso Montanari? Giammai. Ci sarebbe ancora una maggiore lottizzazione delle risorse in più. Efficacia zero. Soluzioni possibili. Perotti ne propone una: "Assegnare una parte sostanziale dei fondi secondo la qualità della ricerca e dell'insegnamento di ogni dipartimento, in base a giudizi di esperti internazionali. In questo sistema saranno i colleghi stessi del barone che impediranno di tramare per assumere un candidato inadeguato, perchè alla lunga ciò si rifletterà sulle risorse disponibili a tutti i membri di quell dipartimento". Vorrebbe dire cambiare mentalità. Ne siamo capaci?