All'estero si domandano sempre come l'Italia faccia a stare in piedi. Con una classe politica - scelta da noi! - screditata, con una pubblica amministrazione da quarto mondo, con sprechi di spesa pubblica senza limiti - viva i bonus per tutti!, come nel Paese dei Balocchi -, con corruzione endemica e criminalità organizzate che rendono molto difficile fare impresa in diverse regioni del Paese.
Siamo un Paese senza mezze misure. Abbiamo Mario Draghi e il viceministro dell'Economia Laura Castelli .- colei, membro del M5s che criticò il ministro Piercarlo Padoan senza sapere alcunché ("Questo lo dice lei"); Giggino di Maio e Tommaso Padoa-Schioppa; Paolo Baffi e Antonio Fazio.
Una storia a pieno titolo "senza mezze misure" è quella che vede Vincenzo Di Leo, ex operaio bianzolo finanziato da Bill Gates con un milione di dollari per sviluppare con caratteristiche particolari una pompa che spurga acque reflue (destinazione Africa dove la fondazione Bill & Melinda Gates dona miliardi di dollari l'anno).
La sfida è sempre la stessa: la forza della tenacia contro la debolezza d'animo; laboriosità contro nullafacenza, luce contro tenebre; le idee contro il pensiero stantio; la trasparenza contro l'opacità. La buona economia contro le confraternite del potere.
Chiudo con le parole piene di speranza di Manuel Bortuzzo, giovane promessa del nuoto, colpito accidentamente da un proiettile che lo ha ridotto in sedia a rotelle: "Ciò che conta è che ho imparato quanto vale la pena piangere, soffrire, sacrificarsi, pur di raggiungere un risultato a cui teniamo, perchè la soddisfazione ripaga di tutta la fatica fatta. Ho conosciuto l'abisso della disperazione, e ne sono venuto fuori, ora posso dirlo, con le mie gambe" (Rinascere. L'anno in cui ho ricominciato a vincere, Rizzoli, 2019)
mercoledì 1 luglio 2020
domenica 24 maggio 2020
I tassisti, con dichiarazioni dei redditi ridicole, piangono miseria. Troppo comodo!
Una notizia mi ha colpito in modo particolare nei giorni scorsi. Così ha titolato il Corriere della Sera: "Taxi in sciopero contro il Pirellone: "La pazienza è finita". Cosa sarà mai successo, mi sono chiesto. Semplice, i tassisti protestano davanti al Palazzo della Regione perchè esclusi dalle politiche regionali di aiuto post coronavirus (possono sempre richiedere il contributo di 600 euro come lavoratori autonomi).
Come ha sostenuto il presidente emerito del Censis Giuseppe De Rita, ormai stiamo diventando un Paese con i sussidi ad personam.
Già in passato su queste pagine mi sono scontrato coi taxisti, una delle numerose categorie che vivono di rendita e adottano la classica strategia del "chiagni e fotti", ossia piangono miseria ogni piè sospinto. Rivendicano sempre qualcosa. No a Uber. No alle liberalizzazioni, No all'obbligo di scontrino (perchè non passano dal Telepass quando portano i clienti a Malpensa?). No all'utilizzo delle carte di credito. Una lobby potentissima. Quando anni fa ho chiesto delucidazioni sula tariffa notturna che parte dalle 21, apriti cielo, il blog tempestato di insulti e financo minacce di morte.
Una domanda preliminare: le dichiarazioni dei redditi dei tassisti hanno qualcosa di veritiero? Assomigliano alla realtà? Come è possibile dichiarare meno di 15mila euro? Qualcuno me lo spiega? Sto parlando di reddito lordo, pre-contributi Inps e pre-Irpef e pre-addizionali regionali/comunali. Perchè ci si dovrebbe chiedere come fa un tassista a sopravvivere con meno di 600 euro netti al mese. Infatti dai dati dell'Agenzia delle Entrate usciti poche settimane fa si evince che fare il tassista non conviene in modo assoluto. Si fa la fame. Senza alcun coronavirus. Anzi, il contributo di 600 euro netti sarebbe maggiore del reddito dichiarato nei tempi buoni.
Le proteste dovrebbero essere precedute dall'invio del Modello Unico. Sono titolati a parlare solo coloro che hanno presentato una dichiarazione dei redditi seria. Non si può rivendicare aiuti dallo Stato quando per anni lo si è fregato bellamente. Infatti in Germania il sussidio arriva, ma è parametrato al reddito dichiarato l'anno precedente. Non si possono invocare aiuti urlando "la pazienza è finita". E' finita la pazienza dei contribuenti onesti, che sanno benissimo che con 15mila euro lordi si arriva a malapena a giugno. E il resto dell'anno? Si muore di fame?
In Italia il profitto è osteggiato a livelli mostruosi. Mentre le rendite sono amate e favorite a livello fiscale. Come la mettiamo? L'impresa è "brutta e cattiva" mentre percepire redditi da locazione o da business regolati è cosa "buona e giusta"?Qualche insegnante vuole spiegare la differenza ai nostri ragazzi? Così magari in futuro qualcosa cambierà.
Come ha sostenuto il presidente emerito del Censis Giuseppe De Rita, ormai stiamo diventando un Paese con i sussidi ad personam.
Già in passato su queste pagine mi sono scontrato coi taxisti, una delle numerose categorie che vivono di rendita e adottano la classica strategia del "chiagni e fotti", ossia piangono miseria ogni piè sospinto. Rivendicano sempre qualcosa. No a Uber. No alle liberalizzazioni, No all'obbligo di scontrino (perchè non passano dal Telepass quando portano i clienti a Malpensa?). No all'utilizzo delle carte di credito. Una lobby potentissima. Quando anni fa ho chiesto delucidazioni sula tariffa notturna che parte dalle 21, apriti cielo, il blog tempestato di insulti e financo minacce di morte.
Una domanda preliminare: le dichiarazioni dei redditi dei tassisti hanno qualcosa di veritiero? Assomigliano alla realtà? Come è possibile dichiarare meno di 15mila euro? Qualcuno me lo spiega? Sto parlando di reddito lordo, pre-contributi Inps e pre-Irpef e pre-addizionali regionali/comunali. Perchè ci si dovrebbe chiedere come fa un tassista a sopravvivere con meno di 600 euro netti al mese. Infatti dai dati dell'Agenzia delle Entrate usciti poche settimane fa si evince che fare il tassista non conviene in modo assoluto. Si fa la fame. Senza alcun coronavirus. Anzi, il contributo di 600 euro netti sarebbe maggiore del reddito dichiarato nei tempi buoni.
Le proteste dovrebbero essere precedute dall'invio del Modello Unico. Sono titolati a parlare solo coloro che hanno presentato una dichiarazione dei redditi seria. Non si può rivendicare aiuti dallo Stato quando per anni lo si è fregato bellamente. Infatti in Germania il sussidio arriva, ma è parametrato al reddito dichiarato l'anno precedente. Non si possono invocare aiuti urlando "la pazienza è finita". E' finita la pazienza dei contribuenti onesti, che sanno benissimo che con 15mila euro lordi si arriva a malapena a giugno. E il resto dell'anno? Si muore di fame?
In Italia il profitto è osteggiato a livelli mostruosi. Mentre le rendite sono amate e favorite a livello fiscale. Come la mettiamo? L'impresa è "brutta e cattiva" mentre percepire redditi da locazione o da business regolati è cosa "buona e giusta"?Qualche insegnante vuole spiegare la differenza ai nostri ragazzi? Così magari in futuro qualcosa cambierà.
lunedì 13 aprile 2020
Un Paese senza
L'Italia arriva sempre in ritardo. Quando c'è un casino - e il coronavirus lo è di bestia - arriviamo già col fiato sul collo, impreparati. Senza un piano B, senza contromisure, senza un contingency plan. Basta che emerga un problema, e i nodi strutturali della nostra arretratezza, vengono al pettine.
Le istituzioni non sanno come muoversi, il diritto - della serie abbiamo una Costituzione bellissima, dove i poteri sono tutti chiari tra Regioni e Stato centrale - impasta le decisioni, i sindaci litigano con la Protezione Civile, i presidenti delle Regioni vanno ognuno per loro conto.
Un Paese provvisorio, diceva giustamente Edmondo Berselli (quanto ci manchi!).
Qualche giorno fa è morto Alberto Arbasino, intellettuale arguto, coniatore dell'immagine della "casalinga di Voghera". Andate su Mondo operaio a guardare il dibattito in salotto tra lui, Ronchey, Guttuso e Bettino Craxi sul futuro della sinistra italiana. Che livelli rispetto a oggi.
Nel suo immenso "Un Paese senza", nel 1980 Arbasino scriveva in apertura:
Un Paese senza memoria
Un Paese senza storia
Un Paese senza passato
Un Paese senza esperienza
Un Paese senza grandezza
Un Paese senza dignità
Un Paese senza realtà
Un Paese senza motivazioni
Un Paese programmi
Un Paese senza progetti
Un Paese senza testa
Un Paese senza gambe
Un Paese senza conoscenze
Un Paese senza senso
Un Paese senza sapere
Un Paese senza sapersi vedere
Un Paese senza guardarsi
Un Paese senza capirsi
Un Paese senza avvenire?
Arbasino proseguiva: "Un Paese onirico,senza nessi con la realtà, nè rapporti con l'esistente, voltando le spalle a se stesso, fissando energie soprattutto in sperperi ideologici e/o desideranti e/o bovaristici (finiremo come il Venezuela o l'Argentiva, tuonava incazzato Marcello De Cecco, ndr), senza volersi rendere conto che anche troppo spesso "tutto questo è già accaduto"...con varianti minime: la violenza, la ferocia, la volubilità, l'irresponsabilità, l'intolleranza, l'arroganza, il discorso teorico, il dibattito astratto,...la superficialità, la leggerezza, la criminalità, la volgarità, la villania, l'incompetenza, la ladreria, il banditismo, il teppismo, ...il cinismo, il melodramma, l'opportunismo, il trasformismo, il machiavellismo, il birignao, l'imbroglio, la cosiddetta arte di arrangiarsi, il presunto dolce far niente, l'incoerenza dei conformismi,...i conflitti corporativi, la rivendicazione di privilegi a spese d'altri, la smania di teatralità e di processioni, l'ingordigia di apparati circensi, lo snobismo di massa, l'incertezza e vaghezza del diritto e della giustizia, la smorfiosità e noiosità del pedantismo accademico, il latinorum dell'Azzecca-garbugli,..i sicari sulla porta, la bande, le minacce, le vendette, gli agguati, i rapimenti, i ricatti,...le speculazioni insensate, gli investimenti rovinosi, ...il provincialismo autarchico".
Un'analisi perfetta per il nostro disgraziato paese, dall'umanità sconvolgente.
Pierluigi Ciocca nel suo "Ricchi per sempre?" chiosa così:
"Carlo Cipolla ha chiarito nella retrospettiva di secoli il punto chiave: il benessere materiale degli italiani non è mai definitivamente acquisito. Il rischio dell'arresto, della perdita delle posizioni con fatica conquistate, è sempre latente.
Come la storia ci insegna, non possiamo sederci sugli allori...
Va respinta la provinciale presunzione di essere ormai ricchi per sempre.
La via obbligata per le imprese e per coloro che ci lavorano è la ricerca incessante di qualità imprenditoriale e professionale, aggiunta di valore agli inputs importati, capacità di esportare, di offrire "cose nuove che piacciano al mondo".
Nella dedica che Ciocca mi ha donato, si legge: "Al dott. Piccone, temo che il ? (Ricchi per sempre?, ndr) cadrà e che la risposta sia "no"?
Le istituzioni non sanno come muoversi, il diritto - della serie abbiamo una Costituzione bellissima, dove i poteri sono tutti chiari tra Regioni e Stato centrale - impasta le decisioni, i sindaci litigano con la Protezione Civile, i presidenti delle Regioni vanno ognuno per loro conto.
Un Paese provvisorio, diceva giustamente Edmondo Berselli (quanto ci manchi!).
Qualche giorno fa è morto Alberto Arbasino, intellettuale arguto, coniatore dell'immagine della "casalinga di Voghera". Andate su Mondo operaio a guardare il dibattito in salotto tra lui, Ronchey, Guttuso e Bettino Craxi sul futuro della sinistra italiana. Che livelli rispetto a oggi.
Nel suo immenso "Un Paese senza", nel 1980 Arbasino scriveva in apertura:
Un Paese senza memoria
Un Paese senza storia
Un Paese senza passato
Un Paese senza esperienza
Un Paese senza grandezza
Un Paese senza dignità
Un Paese senza realtà
Un Paese senza motivazioni
Un Paese programmi
Un Paese senza progetti
Un Paese senza testa
Un Paese senza gambe
Un Paese senza conoscenze
Un Paese senza senso
Un Paese senza sapere
Un Paese senza sapersi vedere
Un Paese senza guardarsi
Un Paese senza capirsi
Un Paese senza avvenire?
Arbasino proseguiva: "Un Paese onirico,senza nessi con la realtà, nè rapporti con l'esistente, voltando le spalle a se stesso, fissando energie soprattutto in sperperi ideologici e/o desideranti e/o bovaristici (finiremo come il Venezuela o l'Argentiva, tuonava incazzato Marcello De Cecco, ndr), senza volersi rendere conto che anche troppo spesso "tutto questo è già accaduto"...con varianti minime: la violenza, la ferocia, la volubilità, l'irresponsabilità, l'intolleranza, l'arroganza, il discorso teorico, il dibattito astratto,...la superficialità, la leggerezza, la criminalità, la volgarità, la villania, l'incompetenza, la ladreria, il banditismo, il teppismo, ...il cinismo, il melodramma, l'opportunismo, il trasformismo, il machiavellismo, il birignao, l'imbroglio, la cosiddetta arte di arrangiarsi, il presunto dolce far niente, l'incoerenza dei conformismi,...i conflitti corporativi, la rivendicazione di privilegi a spese d'altri, la smania di teatralità e di processioni, l'ingordigia di apparati circensi, lo snobismo di massa, l'incertezza e vaghezza del diritto e della giustizia, la smorfiosità e noiosità del pedantismo accademico, il latinorum dell'Azzecca-garbugli,..i sicari sulla porta, la bande, le minacce, le vendette, gli agguati, i rapimenti, i ricatti,...le speculazioni insensate, gli investimenti rovinosi, ...il provincialismo autarchico".
Un'analisi perfetta per il nostro disgraziato paese, dall'umanità sconvolgente.
Pierluigi Ciocca nel suo "Ricchi per sempre?" chiosa così:
"Carlo Cipolla ha chiarito nella retrospettiva di secoli il punto chiave: il benessere materiale degli italiani non è mai definitivamente acquisito. Il rischio dell'arresto, della perdita delle posizioni con fatica conquistate, è sempre latente.
Come la storia ci insegna, non possiamo sederci sugli allori...
Va respinta la provinciale presunzione di essere ormai ricchi per sempre.
La via obbligata per le imprese e per coloro che ci lavorano è la ricerca incessante di qualità imprenditoriale e professionale, aggiunta di valore agli inputs importati, capacità di esportare, di offrire "cose nuove che piacciano al mondo".
Nella dedica che Ciocca mi ha donato, si legge: "Al dott. Piccone, temo che il ? (Ricchi per sempre?, ndr) cadrà e che la risposta sia "no"?
lunedì 23 marzo 2020
Omaggio a Gianni Mura, maestro di giornalismo
Nel mezzo di questa maledetta pandemia da Coronavirus, ci ha lasciati Gianni Mura, 74 anni, un giornalista che ho amato tanto quanto il suo maestro Gianni Brera.
Le sue rubriche su Repubblica, i suoi racconti sul calcio e sul ciclismo mi hanno accompagnato fin da ragazzo. Infatti, dopo alcune esitazioni, sono andato alla ricerca nel mio archivio cartaceo della cartelletta di carta con scritto #GianniMura.
L'ho aperta, e mi è aperto un mondo (e il bocchettone delle lacrime).
20 ottobre 1991, Sette giorni di cattivi pensieri, la sua rubrica del sabato su Repubblica: "Un briciolo di speranza viene dalla lettura dell'Europeo. Pasquale Bruno, difensore del Torino (ve lo ricordate? Un macellaio spaccagambe, ndr), a una domanda sul dopo-calcio, risponde: "Tante idee mi frullano in testa: allestire una palestra, dedicarmi alle assicurazioni. Oppure fare il giornalista a tempo pieno. Collaboro con la Gazzetta del Piemonte, il quotidiano di Borsano, presidente del Torino e presto prenderò la tessera di pubblicista. Un giorno darò anch'io i voti ai giocatori. E ai tipi tosti come me non rifilerò il solito quattro o cinque ma un bel dieci". Bravo Bruno: 3.
E Mura, che dedicava la giornata del venerdì alle chicche sui giornali, prosegue: "Fra le altre cose, Bruno ci tiene a chiarire la sua fama di picchiatore: "Io non posso rinunciare alla mia cattiveria. Non posso scendere in campo senza la mia grinta, il mio modo di intendere il calcio, uno sport per uomini veri e non per signorine". Questa non è nuova, chiosa Mura, per poi segnalare che Bruno ha provato grande soddisfazione nel vedersi nella classifica di Cuore (il giornale satirico diretto da Michele Serra) sulle cose per cui vale la pena vivere: "Pasquale Bruno in nazionale" ha 185 voti, più di Paolo Conte.
Il 4 novembre 1990 Mura attacca il pezzo citando Giorgio Bocca: "E noi coglioni, i paguri bernardi, continuiamo a prenderli sul serio, a intervistarli, questi zombi". Ho aperto con la chiusa di un pezzo di Giorgio Bocca (8) su Gava (0,5), che da solo valeva tutto il Venerdì. Bocca si occupa di cose importanti per la vita, o per la sopravvivenza dell'Italia. Roba più seria dell'erba di San Siro o della moviola. Mi sembra però che la sua frase finale vada bene per svariati settori, e mi sembra che il linguaggio si stia esasperando (e non erano ancora comparsi i leoni da tastiera, ndr), incupendo, come intriso dal dubbio che ormai sia tutto inutile".
Pesco ancora dal mio archivio un esilerante "Sette giorni di cattivi pensieri", datato genericamente "1989", dal titolo "Vietato ai minori".
Uno spasso. cito testualmente:
"Il contenuto di questo pezzo può turbare la sensibilità di qualcuno. Se ne consiglia la visione ai soli lettori adulti. Si parte da due brevi notizie uscite su "Gazzetta" e "Corriere" di lunedì. Il succo è questo: c'è una signora milanese di Arona (sembra l'inizio di un limerick) che va a Roma a vedere il Milan. E alloggia nell'albergo del Milan. Con le ci sono le figlie (27 e 19 anni). In minigonna. Nella hall. L'occhio di Arrigo Sacchi (allora allenatore del Milan, per chi non lo sapesse, ndr) registra allarmato. "Possono turbare i giocatori". Ne parla con Adriano Galliani: faccia qualcosa, inviti queste donne a non frequentare i luoghi. In un albergo sopra via Veneto, si presume ci siano dozzine di donne e anche qualche minigonna. Invece di rispondere "vada a parlarci lei, mister", Galliani prova a delegare il supertifoso parmigiano Pietro Bernazzoli detto Gheddafi, ma alla fine l'ingrato compito lo prende Silvano Ramaccioni. Per quanto possa essere diplomatico, resta un discorsetto d'ostracismo. La signora piange (sbagliato), s'offende (giusto)...Affascinanti queste piccole storie. Se il Milan è turbato da una minigonna, è meglio che il prossimo ritiro lo faccia in mezzo ai chador. E se Arrigo Sacchi (voto 1) fa questo genere di pubblicità ai tecnici dell'ultima ondata, viva Oronzo Pugliese".
Chiudo con due battute sul ciclismo. Un giorno Mura chiese a Marco Pantani: "Perchè vai così forte in salita? E Pantadattilo, soprannominato così proprio da lui, rispose: "Per abbreviare la mia agonia". Che fa il paio con "saranno poco romantiche le gambe, ma nel ciclismo contano".
Che formidabili racconti ci hai regalato, caro Gianni, dal Tour de France!
Caro Gianni Mura, come chiudevi i tuoi obituary, ti sia lieve la terra. Non ti dimenticherò.
Le sue rubriche su Repubblica, i suoi racconti sul calcio e sul ciclismo mi hanno accompagnato fin da ragazzo. Infatti, dopo alcune esitazioni, sono andato alla ricerca nel mio archivio cartaceo della cartelletta di carta con scritto #GianniMura.
L'ho aperta, e mi è aperto un mondo (e il bocchettone delle lacrime).
20 ottobre 1991, Sette giorni di cattivi pensieri, la sua rubrica del sabato su Repubblica: "Un briciolo di speranza viene dalla lettura dell'Europeo. Pasquale Bruno, difensore del Torino (ve lo ricordate? Un macellaio spaccagambe, ndr), a una domanda sul dopo-calcio, risponde: "Tante idee mi frullano in testa: allestire una palestra, dedicarmi alle assicurazioni. Oppure fare il giornalista a tempo pieno. Collaboro con la Gazzetta del Piemonte, il quotidiano di Borsano, presidente del Torino e presto prenderò la tessera di pubblicista. Un giorno darò anch'io i voti ai giocatori. E ai tipi tosti come me non rifilerò il solito quattro o cinque ma un bel dieci". Bravo Bruno: 3.
E Mura, che dedicava la giornata del venerdì alle chicche sui giornali, prosegue: "Fra le altre cose, Bruno ci tiene a chiarire la sua fama di picchiatore: "Io non posso rinunciare alla mia cattiveria. Non posso scendere in campo senza la mia grinta, il mio modo di intendere il calcio, uno sport per uomini veri e non per signorine". Questa non è nuova, chiosa Mura, per poi segnalare che Bruno ha provato grande soddisfazione nel vedersi nella classifica di Cuore (il giornale satirico diretto da Michele Serra) sulle cose per cui vale la pena vivere: "Pasquale Bruno in nazionale" ha 185 voti, più di Paolo Conte.
Il 4 novembre 1990 Mura attacca il pezzo citando Giorgio Bocca: "E noi coglioni, i paguri bernardi, continuiamo a prenderli sul serio, a intervistarli, questi zombi". Ho aperto con la chiusa di un pezzo di Giorgio Bocca (8) su Gava (0,5), che da solo valeva tutto il Venerdì. Bocca si occupa di cose importanti per la vita, o per la sopravvivenza dell'Italia. Roba più seria dell'erba di San Siro o della moviola. Mi sembra però che la sua frase finale vada bene per svariati settori, e mi sembra che il linguaggio si stia esasperando (e non erano ancora comparsi i leoni da tastiera, ndr), incupendo, come intriso dal dubbio che ormai sia tutto inutile".
Pesco ancora dal mio archivio un esilerante "Sette giorni di cattivi pensieri", datato genericamente "1989", dal titolo "Vietato ai minori".
Uno spasso. cito testualmente:
"Il contenuto di questo pezzo può turbare la sensibilità di qualcuno. Se ne consiglia la visione ai soli lettori adulti. Si parte da due brevi notizie uscite su "Gazzetta" e "Corriere" di lunedì. Il succo è questo: c'è una signora milanese di Arona (sembra l'inizio di un limerick) che va a Roma a vedere il Milan. E alloggia nell'albergo del Milan. Con le ci sono le figlie (27 e 19 anni). In minigonna. Nella hall. L'occhio di Arrigo Sacchi (allora allenatore del Milan, per chi non lo sapesse, ndr) registra allarmato. "Possono turbare i giocatori". Ne parla con Adriano Galliani: faccia qualcosa, inviti queste donne a non frequentare i luoghi. In un albergo sopra via Veneto, si presume ci siano dozzine di donne e anche qualche minigonna. Invece di rispondere "vada a parlarci lei, mister", Galliani prova a delegare il supertifoso parmigiano Pietro Bernazzoli detto Gheddafi, ma alla fine l'ingrato compito lo prende Silvano Ramaccioni. Per quanto possa essere diplomatico, resta un discorsetto d'ostracismo. La signora piange (sbagliato), s'offende (giusto)...Affascinanti queste piccole storie. Se il Milan è turbato da una minigonna, è meglio che il prossimo ritiro lo faccia in mezzo ai chador. E se Arrigo Sacchi (voto 1) fa questo genere di pubblicità ai tecnici dell'ultima ondata, viva Oronzo Pugliese".
Gianni Brera e Gianni Mura |
Che formidabili racconti ci hai regalato, caro Gianni, dal Tour de France!
Caro Gianni Mura, come chiudevi i tuoi obituary, ti sia lieve la terra. Non ti dimenticherò.
venerdì 6 marzo 2020
Mio nonno Carlo Tagliabue entra nel Giardino dei Giusti, una storia da raccontare
Carlo Tagliabue |
La scelta di destinare uno spazio ai Giusti del Monte Stella (la montagnetta di San Siro, così la chiamano i milanesi, costruita con le macerie della seconda guerra mondiale) nel Giardino Virtuale discende dalla impossibilità di dedicare un albero a tutti i Giusti di cui pervengono le segnalazioni, sia per mancanza di spazio, sia per la tematica nuova e diversa che ogni anno viene affrontata.
Con l’inserimento nel Giardino Virtuale l’Associazione ha voluto sopperire a questo limite oggettivo, per rendere omaggio a quanti hanno onorato la propria qualità di esseri umani in nome di tutti gli uomini di coscienza e buona volontà.
I nuovi Giusti scelti per il 2020 saranno onorati in occasione della prossima Giornata dei Giusti - 6 marzo.
«A maggior ragione in un momento complesso come quello attuale – commenta il presidente del Consiglio comunale di Milano Lamberto Bertolé -, l’esempio di chi ha dedicato la propria vita agli ideali di giustizia, non violenza e amore verso ciò che siamo e il mondo nel quale viviamo deve guidarci nelle scelte che compiamo ogni giorno. Solidarietà e rispetto, ci ricordano i Giusti, sono fondamentali per affrontare il presente e pensare al futuro».
Carlo Tagliabue è stato per anni (dal 1923 al 1946, dopo aver scalato con merito i gradi della carriera amministrativa) direttore della Pia Casa degli Incurabili ("e degli schifosi", secondo la dicitura al momento della fondazione) di Abbiategrasso - in provincia di Milano - oggi facente parte dell'Azienda dei Servizi alla Persona Golgi Redaelli (Camillo Golgi, 1843-1923, è il primo scienziato italiano ad aver preso il Premio Nobel nel 1906).
Chi lo ha conosciuto, ne ha sempre denotato forti tratti di umanità. Credeva nel ruolo del lavoro, che conferisce dignità alle persone. Una delle sue massime era: "Se uno non si sente utile, si lascia morire". Durante la sua gestione, diede impulso a una serie di attività, dalla produzione di stuzzicadenti all'innovativa piscicoltura, che prevedeva di cibare le carpe con gli insetti presenti nelle risaie, e cucinare poi le carpe per gli ospiti della Pia Casa, quando la penuria di cibo durante la guerra di faceva sentire. Così facendo, la Pia Casa raggiunse la totale indipendenza economica (Carlo era ragioniere e guardava sempre ai numeri, io faccio altrettanto, saraà questione di dna!).
Pia Casa degli Incurabili |
Solo lui, il cappellano don Filippo Carminati, un paio di suore, e il medico conoscevano il rifugio delle donne ebree alla Pia Casa e ogni tanto andavano a trovarle per riferire loro le notizie che venivano trasmesse dalle radio straniere, cercando d'infondere così nei loro animi fiducia e speranza.
Secondo le testimonianze raccolte, era a conoscenza della cosa anche don Ambrogio Palestra (che in seguito testimoniò la vicenda), zio dello storico di Abbiategrasso Mario Comincini.
Io non ho mai conosciuto mio nonno, se non dai racconti di mia madre e mia zia Milly, che lo hanno descritto come integerrimo e con una dedizione totale al lavoro. Alla sera, dopo cena, tornava alla Pia Casa per completare le cose non ancora realizzate. Spesso le figlie lo andavano a chiamare, sospinte dalla madre, che non lo vedeva mai arrivare.
Sorrido, a distanza di anni perchè mi sovvien quello che sosteneva Carlo Azeglio Ciampi: "La scrivania alla sera deve essere lasciata vuota", così che il giorno dopo si possa ripartire di gran lena.
Caro nonno Carlo, sono proud of you; possiamo dire che Carlo Azeglio abbia imparato da te.
Ti sia lieve la terra, caro Carlo.
P.S.: oggi alle 14.30 sulla pagina facebook di Gariwo (la Foresta dei Giusti),
Qui l'articolo su Corriere Milano
Qui la pagina dedicata a Carlo Tagliabue dall'Istituto Geriatrico Golgi
P.S/2: un particolare ringraziamento va a Marco Bascapè, dirigente del Servizio Archivio e Beni Culturali, ASP Golgi-Redaelli, e al suo team, senza i quali la storia di Carlo Tagliabue non sarebbe emersa.
giovedì 6 febbraio 2020
Guido Roberto Vitale, finanziere ante litteram
Guido Roberto Vitale |
Quando l’Italia del maestro Manzi leggeva la Gazzetta
dello sport per familiarizzare con la lingua italiana, Guido Roberto Vitale
leggeva il Financial Times. Laureato brillantemente in economia – senza
lode perchè il barone di turno scoprì di non essere citato nella tesi sulle
operazioni di mercato aperto della Federal Reserve – all’Università di
Torino, Vitale partì per Londra e New York (specializzato alla Columbia
university), per poi lavorare a Mediobanca. Possiamo dire che abbia portato il merchant
banking in Italia, attraverso Euromobiliare, da lui fondata nel 1973.
Guido Roberto Vitale, scomparso giusto un anno fa, era un
alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un
italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il
compromesso (si dimise appena Michele Sindona comprò la Centrale Finanziaria,
nonostante il finanziere siciliano gli offrì un assegno in bianco), fautore del
merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente, la nostra classe
dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava
la competenza e le persone preparate. Nei tempi dell’«uno vale uno», un
extraterrestre. Credeva nei giovani, veramente, li spronava in continuazione.
Ne serbo testimonianza diretta. Un vero talent
scout. Ha allevato da maestro di vita una generazione di persone, alle
quali raccomandava il rispetto rigoroso delle regole, degli investitori, del
mercato.
L’italiano ama gli arabeschi, Vitale preferiva la linea
retta della franchezza. Le idee dovevano emergere, così come la verità, senza mezze
misure. Un giorno, vedendomi indeciso se pubblicare o no un testo forse troppo incisivo,
mi disse: «Si farà qualche nemico in più, ma è il prezzo che si paga per essere
liberi e intellettualmente onesti».
Luigi Einaudi allo scrittoio |
Le sue riflessioni, mai banali, erano concreti inviti a
lavorare per cambiare le cose. Quando eravamo in dirittura d’arrivo per il
volume “L’Italia: molti capitali,
pochi capitalisti”, una mattina di buon’ora mi chiamò – lui aveva già letto
tutti i quotidiani, amava in modo viscerale la carta stampata – per dirmi:
«Dottor Piccone, la citazione di Einaudi sul “silenzio degli industriali” vale
il libro (ripubblicò anni fa Le lezioni di politica sociale). Adesso
chiamo Claudio Cerasa del “Foglio” per chiedergli di pubblicare integralmente
quel testo». Gli risposi: «Dottor Vitale, ho appena riletto l’intervento di
Einaudi in occasione del suo insediamento al Quirinale nel 1948». E gli citai
il passaggio chiave, dove l’economista liberale invitava a puntare, con il consueto
stile asciutto e puntuale, sull’«eguaglianza delle condizioni di partenza». Non
potevo che rallegrarlo, vista la sua netta contrarietà alla «nefasta preferenza
dell’egualitarismo che malauguratamente permea la nostra società».
Quando Vitale fondò la Vitale e Associati (2001),
decise di pubblicare ogni due anni un volume da regalare ai clienti, con
l’obiettivo di far dibattere le classi dirigenti, secondo lui tra i maggiori
responsabili del declino italiano. La cultura, per lui, aveva un valore
imprescindibile. E doveva legarsi a un piano d’azione successivo. Sono diversi
i libri pubblicati negli anni. Uno edito nel 2008 ricordava il pensiero
economico di Luigi Sturzo, formidabile intellettuale e politico, tra i primi a
combattere contro lo statalismo: «Di bestie enormi della democrazia ne ho
individuate proprio tre: lo statalismo – la partitocrazia – l’abuso di
denaro pubblico; il primo va contro la libertà, la seconda contro
l’eguaglianza, il terzo contro la giustizia».
Nel volume del 2015 di Sergio Romano Breve storia del
debito da Bismarck a Merkel, nell’introduzione di Fabrizio Saccomanni si
deprecava l’atteggiamento schizofrenico di far crescere il deficit pubblico con
le politiche keynesiane (“all’italiana”, che come diceva Marcello De Cecco
favoriscono i soliti noti), e al contempo dichiarare di voler ridurre il
debito. Se il debito pubblico è la somma dei deficit del passato, non si
capisce come possa essere ridotto aumentando la spesa pubblica corrente. Non a
caso il compianto civil servant in nota vergava così: «Il nesso tra
debito e deficit era ben chiaro al signor Micawber, personaggio di David
Copperfield di Dickens, il quale, imprigionato dai debiti nel carcere di
Marshalsea a Londra, predicava una sua filosofia economico-morale: ».
Nel
novembre 2017 Vitale decise di affidarmi il compito di scrivere un volume sul capitalismo
italiano. Ogni settimana ci vedevamo per confrontarci e scrivere l’indice
insieme. Non ha mai voluto sindacare il mio pensiero. Ma nei numerosi nostri
incontri, il confronto era serrato. C’era sempre da imparare. Senza contare che
Vitale mi stimolò con la presenza di un discussant di pregio, Francesco
Giavazzi, che poi ha scritto la prefazione al volume che, con una felice
intuizione di Vitale stesso, uscì col titolo L’Italia: molti capitali, pochi
capitalisti.
Un giorno Vitale mi invita a pranzo e, appena seduto, mi
fissa negli occhi e mi dice: «Dottor Piccone, ho letto con attenzione l’ultimo
capitolo e non mi sono piaciute le ultime righe». Preoccupato, prendo le bozze
e chiedo spiegazioni. Leggiamo insieme un passaggio di Tommaso Padoa-Schioppa
che invitava tutte le classi sociali ad impegnarsi per invertire le
aspettative, per uscire dall’invidia, dal rancore e dalla nostalgia. TPS scriveva
sul Corriere della Sera: «Si ritornerà alla crescita solo se all’ansia
della rincorsa, che ci ha sospinto per anni, subentrerà, quale spirito
animatore, una ambizione nazionale. Desiderio di eccellere come Paese, fiducia
nelle sue forze, sguardo lungo». Vitale si concentra sul termine desiderio
e mi dà una lezione di vita: «Piccone, il desiderio
è insufficiente, non basta. Se gli americani avessero desiderato andare sulla
Luna, non ci sarebbero andati. Occorre un impegno deciso, il commitment,
a cui va affiancata la responsabilità delle classi dirigenti che devono
scegliere le persone giuste per gli obiettivi fissati, stendere un budget coerente
e trovare le risorse».
Alessandro Galante Garrone
definiva quelli che considerava i suoi maestri «i miei maggiori». Vitale è
stato sicuramente uno di essi. Milano e l’Italia perdono con lui un ulteriore
punto di riferimento. Dopo Umberto Eco, Umberto Veronesi, Inge Feltrinelli e
altri nostri «maggiori», ci troviamo ancora più orfani senza Vitale. Quando se
ne vanno i migliori, siamo indotti a pensare che non ci siano eredi all’altezza.
Allora impegniamoci con la passione civile dell’Italia migliore, dell’«altra
Italia», quella laica sognata da Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Carlo
Azeglio Ciampi e Guido Roberto Vitale, che nell’ultima telefonata mi disse:
«Lasciamo lavorare le intelligenze».
P. S.: Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio e su Econopoly (blog del Sole 24 ore) in data 6 febbraio 2020.
lunedì 27 gennaio 2020
L'Emilia Romagna respinge Salvini e azzera i Cinque Stelle
Gli sconfitti Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni |
Come poteva una delle regioni più ricche d'Europa, con la sanità tra le migliori al modo, con gli asili nido invidiati dovunque, bocciare l'amministrazione uscente - secondo i principali parametri - capace e seria, per dare il potere a una compagine che fa dell'odio e del disprezzo per l'avversario una caratteristica distintiva?
Avrebbero potuto contare due variabili, la paura - fomentata - dell'immigrazione e la sicurezza, due sfere di competenze che non spettano a coloro che governano le regioni. Come ha scritto Piero Ignazi su Repubblica, "proprio perché sazia e appagata, questa regione è, non da ora, alla ricerca di qualcosa di diverso, del brivido della novità, e persino dell'indicibile".
Sarebbe stato comunque inspiegabile come possa un'area economica che basa il proprio tenore di vita sull'apertura al commercio, sulle esportazioni fitte in tutto il mondo - dalle pesche alle apparecchiature medicali, dagli attrezzi da palestra di Technogym ai motori, dalla Ferrari ai tortellini - votare a favore di forze politiche che invocano il nazionalismo, "prima gli italiani", il "sovranismo" becero che non porta da nessuna parte.
Luigi Einaudi sul sovranismo ha scritto pagine bellissime. Nel 1945 scrisse: «lo Stato sovrano che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico e falso. Anche le guerre diventeranno più rare, finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo dello Stato sovrano».
Gli italiani ogni tanto, si fanno affascinare da persone di modesta qualità, che li portano nell'abisso. Così, tanto per dire, dopo la dichiarazione di guerra di Benito Mussolini a Francia e Germania del 10 giugno 1940, furono in molti a dover partire con le scarpe di cartone per la guerra. E quanti furono gli alpini a tornare dalla Russia? Ce lo dovremmo ricordare, ma quanti hanno letto "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern?
giovedì 9 gennaio 2020
La storia di Adriano Olivetti dovrebbe essere meno edulcorata
Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi |
Fondata da Camillo Olivetti all'inizio del '900, l'Olivetti ebbe il suo periodo di splendore con Adriano Olivetti negli anni Cinquanta.
Come è noto Adriano Olivetti morì in treno verso Losanna - probabilmente per chiedere ulteriori finanziamenti alle banche svizzere - il 27 febbraio 1960.
Come ha scritto il presidente di Mediobanca Renato Pagliaro, la documentazione è davvero eccezionale: "Tutte le riunioni con la clientela venivano verbalizzate e fatte circolare...da notare che sempre il documento di lavoro già conteneva i punti chiave delle questioni affrontate, concrete ipotesi di soluzione, i pro e i contro, le impressioni e spesso un giudizio sugli interlocutori. Questo era reso possibile da un approccio che rimane piuttosto unico in un'Italia generalmente timorosa e spesso ipocrita...Lo stile della casa era,e resta, quello di rappresentare alla clientela, senza remore, il nostro schietto punto di vista professionale, spesso non aderente alle attese della stessa, cui di contro chiediamo una dialettica altrettanto sincera".
Adriano Olivetti |
L'ingresso nel settore elettronico (avvenuto nel 1951) e l'acquisto disgraziato dell'Underwood (che costerà in perdite negli anni successive circa 100 miliardi di lire dell'epoca, una cifra colossale) posero l'Olivetti in serissima difficoltà
Nel 1963 la situazione precipita e diventa chiaro come l'Olivetti da sola non ce la può fare. Roberto Olivetti convince i familiari ad affidare a Bruno Visentini, allora vicepresidente dell'IRI, la questione. Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Comit, suggerisce di affidare a Mediobanca (governata allora da Enrico Cuccia) lo studio della situazione e delle possibili soluzioni.
Mediobanca procede a un accertamento scrupoloso delle condizioni dell'Olivetti (tragiche)
#Chapeau
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