L'altra sera nell'Aula Magna dell'Università Bocconi, come ogni anno, si è meritoriamente ricordata la figura di Roberto Franceschi, studente della Bocconi, appassionato, studioso, diligente, con forte senso del dovere e della giustizia sociale.
Purtroppo per Roberto, la campana - come dice Hemingway - è suonata troppo presto.
Appena ho iniziato a frequentare l'Università Bocconi, ho notato che l'aula al secondo piano era dedicata alla memoria di Roberto Franceschi. Non c'era google al tempo, allora ho chiesto a mia madre, una vera e propria Garzantina o wikipedia vivente. E mi ha raccontato con emozione cosa successe quella disgraziata sera del 23 gennaio 1973.
41 anni fa, lo studente bocconiano Roberto Franceschi si accasciava al suolo colpito a morte da un colpo di arma da fuoco sparato da un proiettile di pistola Beretta calibro 7,65 in dotazione alla Polizia che presidiava l’Università.
“La sera del 23 gennaio 1973 era in programma un'assemblea del Movimento Studentesco presso l'Università Bocconi. Assemblee di questo tipo erano state fino ad allora autorizzate normalmente e non avevano mai dato adito a nessun incidente e, nel caso specifico, si trattava dell'aggiornamento di una assemblea già iniziata alcuni giorni prima; ma l'allora Rettore dell'Università quella sera ordinò che potessero accedere solo studenti della Bocconi con il libretto universitario di riconoscimento, escludendo lavoratori o studenti di altre scuole o università. Ciò significava vietare l'assemblea e il Rettore informò la polizia, che intervenne, con un reparto della celere, intenzionata a far rispettare il divieto con la forza.
Ne nacque un breve scontro con gli studenti e i lavoratori e, mentre questi si allontanavano, poliziotti e funzionari spararono vari colpi d'arma da fuoco ad altezza d'uomo. Lo studente Roberto Franceschi fu raggiunto al capo, l'operaio Roberto Piacentini alla schiena. Entrambi caddero colpiti alle spalle” (dal sito web http://www.fondfranceschi.it ).
Come spesso accade, il processo è stato un calvario scandaloso – oltre venticinque anni di processi penali e civili, l’ultima sentenza è del 20 luglio 1999, più di 26 anni dopo la morte di Francesco - dove la volontà di occultare la verità da parte della Polizia è stata dominante. Dalla sentenza che ha chiuso la fase istruttoria del processo (dicembre 1976) leggiamo: “La verità è che sin dall’inizio si preferì occultare rigorosamente la corcostanza che a sparare erano stati in diversi, e questa decisione comportò poi la necessità che l’intera fase delle indiagini preliminari fosse gestita sotto il controllo o quanto meno con l’accondiscenza dei vertici della polizia, all’insegna della costante preoccupazione di neutralizzare ogni risultanza che con tale versione potesse apparire in contrasto”.
Qualcosa si è ottenuto dai processi. Come scrive Biacchessi “L’accertamento della responsabilità della polizia e la condanna del Ministero dell’Interno al risarcimento del danno, ma non l’individuazione e la condanna dell’autore materiale e di eventuali corresponsabili”.
Ma torniamo alla figura di Roberto Franceschi, studente brillante e affettuoso.
Scrisse di lui un compagno di studi: "Roberto, la sua ferrea volontà, la sua onestà intellettuale, la sua incrollabile fede nella scienza, la sua costante ricerca della verità, il suo amore per la cultura, la sua illimitata fiducia nelle possibilità dell'uomo, dopo la sua morte, hanno aiutato me e molti altri compagni a superare le difficoltà, a correggere gli errori e ad andar avanti".
La sua insegnante di filosofia del Liceo Vittorio Veneto – Meris Antomelli - ha scritto: “Roberto era politicamente molto impegnato, e in particolare riteneva l’apertura della scuola alla società, e la lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione non come esigenze tra le altre, ma fondamentali: le considerava capaci di dare concretezza ai suoi ideali di democrazia e giustizia, e coerenza alla sua vita. Non accettava perciò quelle forme di contestazione della scuola che si traducevano nel rifiuto dello studio a vantaggio di una militanza politica che nella scuola vedeva soltanto uno dei suoi luoghi d’azione”.
Dopo aver riletto le testimonianze sulla figura di Roberto Franceschi, mi è tornato in mente Don Lorenzo Milani, che insisteva in continuazione sull’importanza dello studio affinchè le classi disagiate potessero giocarsela alla pari con i più fortunati. In un bellissimo passo de La ricreazione (Edizioni e/o, 1995) leggiamo: “Quando ripresi la scuola nel 1952-53 avevo ormai superato ogni ulteriore esitazione: la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era la rovina della classe operaia. Mi perfezionai allora nell’arte di far scoprire ai giovani le gioie intrinseche della cultura e del pensiero e smisi di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi l’occasione di umiliarli o offenderli...Prova ne sia che, dopo le ricreazioni, la domanda di rito è: "A San Donato oggi una domanda del genere viene considerata poco meno che pornografica”.
Chiudo con una riflessione di decenni fa (1979) ma attualissima di Corrado Stajano – scrittore e giornalista di grandissima levatura, ricordiamo solo gli imprescindibili Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica (Einaudi, 1991), Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini (Einaudi, 1975): “La storia del ragazzo Franceschi non conta solo per ieri, vale per oggi e per domani. E non riguarda solo la tarlata giustizia, ma il buongoverno nel suo complesso perchè sono proprio inutili le generiche affermazioni da cui siamo continuamente travolti, se poi, in concreto, si usa solo indifferenza e non ci si scandalizza più di fatti scandalosi”.
Dove sarebbe oggi il brillante studente Roberto Franceschi? A me piace immaginarlo come civil servant in Banca d'Italia, accanto a Ignazio Visco e Salvatore Rossi, tutti impegnati a elaborare le strategie per far ripartire il nostro sgangherato Paese.
Un abbraccio particolare a Cristina e Lydia Franceschi - per anni impegnate caparbiamente per la ricerca della verità - per l'effort con il quale ogni giorno attraverso la Fondazione Franceschi porta avanti progetti, pubblicazioni, convegni, premi di laurea, rende viva e presente la memoria di Roberto.
Il fatto che di fronte al più grande dolore che una persona possa provare - la morte di un figlio - la famiglia Franceschi sia riuscita a trasmettere dei valori positivi è una cosa di un valore inestimabile.
P.S.: si consiglia la lettura di Roberto Franceschi. Processo di polizia, a cura di Daniele Biacchessi (Baldini Castoldi, Dalai editore, 2004)
http://www.fondfranceschi.it/
lunedì 27 gennaio 2014
mercoledì 22 gennaio 2014
Il lavoratore italiano tiene il suo TFR nell'impresa dove lavora. Errore sesquipedale. I fondi pensione, questi sconosciuti.
Purtroppo il mercato dei fondi pensione in Italia è sottosviluppato. La causa principale è da ricercarsi nel bassissimo livello di educazione finanziaria del lavoratore italiano.
Il dipendente italiano - che sia operaio, impiegato o quadro - preferisce detenere il proprio Trattamento di Fine Rapporto (TFR) presso il proprio datore di lavoro piuttosto che investirlo in modo proficuo sui mercati finanziari.
Il datore di lavoro, l'impresa italiana, fa di tutto per mantenere il TFR dei propri dipendenti presso si sè, al fine di avere una fonte di finanziamento a basso costo.
Così il lavoratore - che nella maggior parte dei casi non si avvale dei fondi pensione - si trova in questa spiacevole situazione:
1. sostiene un forte rischio di credito o rischio di controparte, per cui se il datore di lavoro fallisce o omette di pagare i contributi del TFR, la propria liquidazione va in fumo; è pur vero che c'è un fondo speciale presso l'Inps che interviene in caso di fallimento, ma spesso nascono controversie sull'effettività dei contributi versati.
2. perde i contributi obbligatori che il datore di lavoro è tenuto a versare per legge una volta che il lavoratore opta per i contributi per il TFR versati in un fondo pensione negoziale; se non esiste un fondo pensione di categoria/negoziale, si può sottoscrivere un fondo pensione aperto, beneficiando delle deduzioni fiscali (5.165 euro l'anno);
3. con l'inflazione in forte calo - siamo ormai sotto l'1% - il rendimento del TFR - stabilito per legge uguale al 75% del tasso inflazione a cui si aggiunge lo 1,5% è irrisorio. Nel 2014 siamo quindi nell'intorno dell'1,95% ricavato da: 0,6%x0,75%+1,5%.
Qualsiasi prodotto finanziario, anche a basso rischio, è in grado di dare un rendimento superiore (e nel rendimento va aggiunto il contributo "gratuito" del datore di lavoro, quando ci si può avvalere dei fondi negoziali).
Si potrebbe replicare - per migliorare lo stato dell'arte - quanto fatto nel Regno Unito dove da fine 2012 è stato introdotto l'auto-enrollment ai fondi pensione. Il dipendente è automaticamente iscritto al fondo pensione e ha la facoltà (opting-out) di uscirne entro 30 giorni.
In un suo lucido intervento su lavoce.info, gli economisti Luigi Guiso e Boeri hanno stigmatizzato l'operato del Ministro del Welfare Giovannini che tentenna nel mandare a tutti i lavoratori italiani la busta arancione, ossia una busta dove l'INPS informa sul futuro livello della pensione:
"Dare una previsione (sulla futura pensione, ndr) non vuol dire emettere una condanna; anzi insieme alla previsione noi crediamo che i lavoratori debbano ricevere anche informazioni su come mettere riparo a una potenziale scarsità di benefici pensionistici. Illustrare loro l’esistenza dei fondi pensione, come funzionano, i lori vantaggi fiscali e così via, dovrebbe essere parte integrante della busta arancione. In Svezia contiene informazioni anche sull’andamento della previdenza integrativa. L’informativa guidata deve servire per promuovere la previdenza complementare, che non decolla principalmente per ostacoli informativi. Sarebbe un’iniziativa da gestire insieme alla Covip (autorità di vigilanza sui fondi pensione, ndr).
Come altro definire questo atteggiamento se non "ignavia di Stato"? Chi – come i presidenti Inps e i ministri del Lavoro succedutisi finora (eccezion fatta per il ministro Fornero che si è mossa in controtendenza, ma è stata bloccata dal suo presidente del Consiglio proprio mentre stava per mandare le buste arancioni) – rifiuta di prendersi la responsabilità di informare i lavoratori italiani delle prospettive pensionistiche, per paura di essere loro stessi travolti da una crisi di consenso, non assolvono per ignavia al dovere a cui li chiama il loro ruolo".
Fino a che non verranno date informazioni corrette ai cittadini, questi saranno prigionieri dei deficit cognitivi che hanno consentito a Kahneman (psicologo) di vincere il Nobel per l'economia.
Il dipendente italiano - che sia operaio, impiegato o quadro - preferisce detenere il proprio Trattamento di Fine Rapporto (TFR) presso il proprio datore di lavoro piuttosto che investirlo in modo proficuo sui mercati finanziari.
Il datore di lavoro, l'impresa italiana, fa di tutto per mantenere il TFR dei propri dipendenti presso si sè, al fine di avere una fonte di finanziamento a basso costo.
Così il lavoratore - che nella maggior parte dei casi non si avvale dei fondi pensione - si trova in questa spiacevole situazione:
1. sostiene un forte rischio di credito o rischio di controparte, per cui se il datore di lavoro fallisce o omette di pagare i contributi del TFR, la propria liquidazione va in fumo; è pur vero che c'è un fondo speciale presso l'Inps che interviene in caso di fallimento, ma spesso nascono controversie sull'effettività dei contributi versati.
2. perde i contributi obbligatori che il datore di lavoro è tenuto a versare per legge una volta che il lavoratore opta per i contributi per il TFR versati in un fondo pensione negoziale; se non esiste un fondo pensione di categoria/negoziale, si può sottoscrivere un fondo pensione aperto, beneficiando delle deduzioni fiscali (5.165 euro l'anno);
3. con l'inflazione in forte calo - siamo ormai sotto l'1% - il rendimento del TFR - stabilito per legge uguale al 75% del tasso inflazione a cui si aggiunge lo 1,5% è irrisorio. Nel 2014 siamo quindi nell'intorno dell'1,95% ricavato da: 0,6%x0,75%+1,5%.
Qualsiasi prodotto finanziario, anche a basso rischio, è in grado di dare un rendimento superiore (e nel rendimento va aggiunto il contributo "gratuito" del datore di lavoro, quando ci si può avvalere dei fondi negoziali).
Si potrebbe replicare - per migliorare lo stato dell'arte - quanto fatto nel Regno Unito dove da fine 2012 è stato introdotto l'auto-enrollment ai fondi pensione. Il dipendente è automaticamente iscritto al fondo pensione e ha la facoltà (opting-out) di uscirne entro 30 giorni.
In un suo lucido intervento su lavoce.info, gli economisti Luigi Guiso e Boeri hanno stigmatizzato l'operato del Ministro del Welfare Giovannini che tentenna nel mandare a tutti i lavoratori italiani la busta arancione, ossia una busta dove l'INPS informa sul futuro livello della pensione:
"Dare una previsione (sulla futura pensione, ndr) non vuol dire emettere una condanna; anzi insieme alla previsione noi crediamo che i lavoratori debbano ricevere anche informazioni su come mettere riparo a una potenziale scarsità di benefici pensionistici. Illustrare loro l’esistenza dei fondi pensione, come funzionano, i lori vantaggi fiscali e così via, dovrebbe essere parte integrante della busta arancione. In Svezia contiene informazioni anche sull’andamento della previdenza integrativa. L’informativa guidata deve servire per promuovere la previdenza complementare, che non decolla principalmente per ostacoli informativi. Sarebbe un’iniziativa da gestire insieme alla Covip (autorità di vigilanza sui fondi pensione, ndr).
Come altro definire questo atteggiamento se non "ignavia di Stato"? Chi – come i presidenti Inps e i ministri del Lavoro succedutisi finora (eccezion fatta per il ministro Fornero che si è mossa in controtendenza, ma è stata bloccata dal suo presidente del Consiglio proprio mentre stava per mandare le buste arancioni) – rifiuta di prendersi la responsabilità di informare i lavoratori italiani delle prospettive pensionistiche, per paura di essere loro stessi travolti da una crisi di consenso, non assolvono per ignavia al dovere a cui li chiama il loro ruolo".
Fino a che non verranno date informazioni corrette ai cittadini, questi saranno prigionieri dei deficit cognitivi che hanno consentito a Kahneman (psicologo) di vincere il Nobel per l'economia.
giovedì 16 gennaio 2014
A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti
Me lo ricordo come fosse ieri. Prova di maturità, orale. 11 luglio 1989. Il presidente della commissione, attento e scrupoloso, osserva: "Ho letto che suo padre è nato a Grazzano Badoglio nel Monferrato. Mi parli quindi del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo dal 25 luglio 1943 all’8 giugno del 1944". Vacillo. Tergiverso. Inizio a parlare del Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, di Mussolini portato via in ambulanza. Sulle questioni politiche mi tengo sul vago, per paura di suscitare incomprensioni. Accenno alla Resistenza, poi il Presidente, dice "Molto bene. Adesso, iniziamo con l’esame vero e proprio". Che si concluderà benissimo. Con i complimenti della commissione.
Eh beh, non ho mai studiato in vita mia così tanto come alla maturità. Neanche all’università.
In una recente ricerca su google – che strumento fantastic! - mi sono imbattuto in un saggio dello storico Primo Maioglio, scritto in occasione della commemorazione del Maresciallo Badoglio. In un passaggio significativo si legge: "Concludo questa mia comunicazione ricordando un fatto significativo riguardante Grazzano, paese di Badoglio. Dopo la cattura dei 27 partigiani della banda Lenti aderente alle formazioni Matteotti - cattura avvenuta nel settembre del ‘44 sull’altura grazzanese della Madonna dei Monti - cinque giovani del paese si presentarono al comando della IX Brigata Matteotti, in Moncalvo, per diventare partigiani. Voglio citare i loro nomi a testimonianza di come essi, compaesani ed estimatori di Badoglio, poterono dignitosamente militare in una formazione collegata ad un partito che si proponeva, a liberazione avvenuta, di operare per la edificazione di uno stato di forma repubblicana: Piero Piccone, Giulio Medesani, Bruno Mosso, Aurelio Redoglia, Sandrino Oliaro. Tre di essi (compreso mio padre, ndr) riposano da anni in quello stesso cimitero che il 2 novembre 1956 ha accolto le spoglie del loro illustre compaesano".
Ecco, mio padre - scomparso il 16 gennaio di 24 anni fa - è stato questo, una persona che nel settembre 1944, a soli 18 anni si arruola nelle Brigate partigiane Matteotti. Sente di dover dare un contributo fattivo per la liberazione dell'Italia.
Mio padre la pensava come Giorgio Bocca, anche lui partigiano, che ad un giovanissimo Walter Tobagi, disse: «La nostra democrazia è gracile, compromissoria, ma non è una democrazia trovatella. E se non è trovatella, se ha il minimo indispensabile di legittimità, lo deve alla Resistenza. La quale dà alla democrazia in cui viviamo quella base democratica, quel suffragio popolare sufficientemente grande per essere considerata legittima».
Caro Papi, ti sia lieve la terra.
lunedì 13 gennaio 2014
Perchè Maroni non dice nulla sul caso truffa di Stamina e Vannoni, sperimentato negli Spedali Civili di Brescia?
Non c’è giorno che Dio manda in terra che il
Presidente della Regione Lombardia non accusi l’euro di tutte le malefatte di
questo mondo. Nell’intervista data a Repubblica-Milano il 28 dicembre scorso, Maroni ha tuonato così: “L’euro è stata la gabbia che ci ha fatto perdere
competitività in un sistema che va profondamente rivisto”.
Premesso che non siamo d’accordo, vorremmo poter ascoltare con la stessa costanza parole contro la truffa di Stamina creata dal prof. Vannoni, demagogo fuori misura, laureato in lettere (come far costruire un ponte a una parrucchiera), che sfrutta la disperazione delle famiglie e di pazienti malati per cui la medicina non ha ancora trovato una cura. L’obiettivo per Vannoni è evidente: vendere a prezzi da capogiro i suoi miscugli, che non hanno nulla di scientifico. Sembrano gli intrugli preparati da Granny della famiglia Addams per zio Fester.
Obbligo dello Stato dovrebbe essere quello di non sprecare soldi pubblici per trattamenti inefficaci e pericolosi. Visto che le Regioni hanno in mano la Sanità e Maroni controlla la sanità lombarda, vorremmo chiedere a lui spiegazioni sul fatto che l’unico ospedale pubblico che ha scelto di applicare il metodo Stamina è una struttura pubblica lombarda, gli Spedali Civili di Brescia.
Dai racconti dei pazienti pubblicati da La Stampa, c'è da preoccuparsi. La vedova Milena Mattavelli ha raccontato di aver sborsato oltre 50mila euro: "Ci hanno messo davanti questo foglio: Prelievo midollo: 2mila€; preparazione cellule: 27mila€; 8mila€ a iniezione, 2.500€ per la crioconservazione".
Negli scorsi giorni, dopo che la rivista Nature ha ribadito la pochezza scientifica del “protocollo Stamina”, abbiamo letto che secondo il Comitato scientifico nominato dal MInistero, la descrizione delle malattie, così come altre parti del protocollo, sono state copiate da due articoli scientifici pubblicati da altri ricercatori, dal sito di un’associazione di pazienti e in quattro casi sono stati sono state prese da Wikipedia.
La magistratura non ne esce bene da tutta questa vicenda. Non è bello vedere alcuni giudici prescrivere d’ufficio un trattamento inutile, se non addirittura pericoloso, autorizzandolo come cura “compassionevole”. I magistrati dovrebbero perseguire, invece, ciarlatani e truffatori. Ma come nella storia di Pinocchio, vincono il Gatto e la Volpe e Pinocchio viene arrestato.
Michele Serra - in modo esilerante - ha scritto: "Dopo Stamina nuove cure salvifiche! Senza alcuna disamina e inutili modifiche agli scienziati (casta!) per promuoverle basta che piacciano alla gente".
Premesso che non siamo d’accordo, vorremmo poter ascoltare con la stessa costanza parole contro la truffa di Stamina creata dal prof. Vannoni, demagogo fuori misura, laureato in lettere (come far costruire un ponte a una parrucchiera), che sfrutta la disperazione delle famiglie e di pazienti malati per cui la medicina non ha ancora trovato una cura. L’obiettivo per Vannoni è evidente: vendere a prezzi da capogiro i suoi miscugli, che non hanno nulla di scientifico. Sembrano gli intrugli preparati da Granny della famiglia Addams per zio Fester.
Obbligo dello Stato dovrebbe essere quello di non sprecare soldi pubblici per trattamenti inefficaci e pericolosi. Visto che le Regioni hanno in mano la Sanità e Maroni controlla la sanità lombarda, vorremmo chiedere a lui spiegazioni sul fatto che l’unico ospedale pubblico che ha scelto di applicare il metodo Stamina è una struttura pubblica lombarda, gli Spedali Civili di Brescia.
Dai racconti dei pazienti pubblicati da La Stampa, c'è da preoccuparsi. La vedova Milena Mattavelli ha raccontato di aver sborsato oltre 50mila euro: "Ci hanno messo davanti questo foglio: Prelievo midollo: 2mila€; preparazione cellule: 27mila€; 8mila€ a iniezione, 2.500€ per la crioconservazione".
Negli scorsi giorni, dopo che la rivista Nature ha ribadito la pochezza scientifica del “protocollo Stamina”, abbiamo letto che secondo il Comitato scientifico nominato dal MInistero, la descrizione delle malattie, così come altre parti del protocollo, sono state copiate da due articoli scientifici pubblicati da altri ricercatori, dal sito di un’associazione di pazienti e in quattro casi sono stati sono state prese da Wikipedia.
La verità è che
dietro Stamina non c’è alcun “metodo”, nè terapia; non si usano neppure cellule
staminali, nè si producono neuroni.
Restano
le profonde preoccupazioni sulla sicurezza e l’efficacia della terapia con
cellule staminali. Il rispetto per i malati passa dalla verità. Dalla
scienza. Resta la rabbia verso chi si introduce nella disperazione con «metodi»
terapeutici non provati.La magistratura non ne esce bene da tutta questa vicenda. Non è bello vedere alcuni giudici prescrivere d’ufficio un trattamento inutile, se non addirittura pericoloso, autorizzandolo come cura “compassionevole”. I magistrati dovrebbero perseguire, invece, ciarlatani e truffatori. Ma come nella storia di Pinocchio, vincono il Gatto e la Volpe e Pinocchio viene arrestato.
Prof.ssa Elena Cattaneo |
Ha perfettamente ragione la prof.ssa Elena Cattaneo:
“Anche se ci sono giudici che prescrivono il “trattamento”, si tratta di un
inganno ai danni dei malati e un ricatto allo Stato: soldi per somministrare l’inganno
vengono sottratti ai trattamenti veri”.
Iscriviti a:
Post (Atom)