venerdì 29 maggio 2015

29 maggio 1985, la finale di Coppa dei Campioni si trasforma in una carneficina

Sono passati 30 anni dal quel triste 29 maggio 1985. Me lo ricordo bene quel giorno. Io e i miei amici di via Tolstoy  decidemmo di vedere la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool in giardino, collegandoci con prese e prolunghe "di fortuna". Fu una tale fatica collegarsi, che quando riuscimmo a vedere le immagini, rimanemmo di sale nel vedere che la partita alle 21.30 non era ancora iniziata. Le notizie erano frammentarie. Il telecronista storico della Rai non aveva ancora delle informazioni ufficiali da comunicare circa il numero dei morti travolti dalla furia ubriaca degli hooligans inglesi.

Guardate il cortometraggio realizzato da Repubblica.it, vale veramente la pena. Con la voce di Michela Cescon e il racconto di Emanuela Audisio, il tifoso Matteo Lucii (allora sedicenne) torna allo stadio di Bruxelles, quell'Heysel scelto dall'UEFA nonostante non avesse alcun requisito per ospitare una finale di Coppa. Reti di separazione inesistenti, struttura fatiscente, procedure di sicurezza non previste. I tifosi della Juventus presenti nel settore Z si trovarono schiacciati dai tifosi inglesi, che sfondarono le debole recinzioni. Chi subì  la pressione mostruosa della massa inglese - in grado di far crollare un muro divisorio - morì asfissiato. La strage è quindi figlia della combinazione della stupidità umana degli hooligans e degli errori organizzativi .

Il racconto del signor Conti, che perse la figlia Giuseppina di 16 anni è straziante. Pensare di riconoscere la propria figlia morta attraverso le scarpe indossate toglie il fiato.

La partita iniziò alle 21.40 invece che alle 20.15, dopo il discorso di Gaetano Scirea che invitava alla calma. Vinse la Juve 1-0 con un rigore di Platini (fischiato per un fallo su Boniek avvenuto fuori dall'area. Il portiere del Liverpool Bruce Grobelaar ha raccontato: "Mancavano cinque minuti al riscaldamento, capimmo che era successo qualcosa: arrivava gente nella nostra zona. Quattro o cinque di noi s'affannarono a dare una mano. Passammo dall'interno dei secchi d'acqua, prendemmo degli asciugamani dalle docce e li lanciammo fuori. Riuscimmo a fare solo questo, ma ormai sapevamo abbastanza per non voler giocare. (...). Alla Juve è stato rimproverato di non aver restituito la Coppa ma l'errore fu giocare: fece un gol, la Coppa è sua".

Il giornalista Maurizio Crosetti, allora alla prima trasferta importante, scrive oggi: "Dalla tribuna si capiva e non capiva. "Ci sono dei morti", disse una voce, e subito ci precipitammo giù dale scale verso l'antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usati come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C'erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C'era morte dappertutto".

Nessuno ha pagato per la gravità di quanto è accaduto, soprattutto gli organizzatori belgi, indecorosi. Si vede addirittura nei filmati la polizia a cavallo che manganella i tifosi della Juve scampati alla tragedia invadendo il campo di gioco.
I morti, gli sia lieve la terra, saranno 39.

venerdì 22 maggio 2015

La capacità di concentrazione, focalizzazione è determinante per il successo. Ma non è senza costi.

Nel volume appena uscito della scrittrice Paola Mastracola - L'esercito delle cose inutili (Einaudi, 2015) - il protagonista Raimond ci insegna che anche quando fai la cosa più inutile del mondo - che sia raccogliere conchiglie, trapiantare primule, amare qualcuno in silenzio - puoi trovare una scintilla di vita, di lampo di senso, uno scatto inaspettato.

Arrivato al capitolo 25, il lettore rimane folgorato dalla figura del biologo, "un bell'uomo, con un completo grigio e la cravatta (...), si è occupato per anni d'isolare un tal batterio per sconfiggere una malattia molto grave, che fa strage nei paesi più poveri del mondo".

La cosa particolare è che il biologo per studiare meglio a un certo punto ha lasciato tutto, moglie, figli, amici, e si è affittato una baita in montagna, portandosi dietro i libri, gli alambicchi per gli esperimenti, il microscopio, i vetrini, le colture. "E ha vissuto lì, scollegato da tutto e da tutti. Tre anni".
Secondo il biologo, negli studi, "si può arrivare a qualche risultato solo se ci si rinchiude in un posto isolato senza la vita che ti prende", ossia senza far tardi la sera, andare al cinema con gli amici, portare a cena la fidanzata, comprarsi un paio di scarpe nuove".
Mastrocola scrive con sapidità: "Gli piace molto la vita. Ma lo distrae, non può permetterselo. Deve studiare. Una baita in alta montagna è perfetta. La sua ricerca richiede concentrazione".

Dopo qualche anno la ricerca è finite, il biologo ce l'ha fatta, ha isolato il batterio, la malattia può essere sconfitta. E' molto soddisfatto. Torna al suo paese. C'è un però. Il suo isolamento lo ha costretto a trascurare tutte le relazioni, a non coltivare i contatti: "Ero diventato un orso, un frate, una specie di eremita".


Paolo Baffi, governatore sempiterno
Dopo la lettura, il mio pensiero è volato subito al governatore Paolo Baffi - chi sennò!, le cui carte conosco quasi a memoria, sic - che ha coltivato poco o nulla le relazioni con la politica, e ne ha pagato un prezzo altissimo.
Nel volume di Baffi e Jemolo Anni del disincanto, che ho avuto il piacere di curare, cito un passaggio di Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, che scrive: "

Eugenio Scalfari ricorda - a Enzo Biagi - così un suo incontro con Pertini: "Un giorno mi permisi di suggerire a Pertini di nominare Baffi senatore a vita alla prima occasione, per dovere di riparazione contro un sopruso patito; ma, con mio grande stupore, lo trovai sordo su questo tema. «Prima», mi disse, «ci sono i miei amici della Resistenza, poi si vedrà».
Ricordo con amarezza questa frase del presidente, per dimostrare quale sia la separatezza di queste persone schive, ristrette nella loro scienza e al loro lavoro, prive di contatti e quindi di umane simpatie, al punto che perfino il più sensibile tra gli uomini del Palazzo, com’era certamente
Pertini, ne ignora i meriti e i torti subiti".


Come disse il fondatore di Intel, Andy Grove, "Only the paranoid survive", ma, talora, il costo può essere significativo.
 




 
 

lunedì 18 maggio 2015

Il mondo visto dal Salone Internazionale del libro di Torino: "Leggere non è solo ricchezza privata, è una ricchezza per la società, è antidoto all'appiattimento" (Mattarella, cit.)

Venerdì scorso sono andato col mio amico Leo al Salone del Libro di Torino. Un'esperienza da fare. Visto che i libri per me sono un oggetto erotico, è stata una gita di estremo piacere. Quando si prende in mano un libro ci si puo’ anche divertire molto, si ride, si piange e si é portati ad immaginare altri mondi, unici per ciascuno di noi.
Il libro non va messo in una teca, va vissuto, sottolineato, si possono scrivere note a margine, si devono poter ritrovare i passaggi che ci sono piaciuti di più a distanza di tempo.

Nel viaggio di andata sul FrecciaRossa ho trovato il tempo per leggere l'intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell'inaugurazione del Salone del Libro. Un passaggio in particolare mi ha colpito: "Leggere non è solo una ricchezza privata, destinata al singolo individuo. Leggere è una ricchezza per la società per il bene comune. E' un antidoto all'appiattimento, è ossigeno per le coscienze. La lettura non può essere ridotta a consolazione o semplice svago. E' semmai una porta sul mondo, che ci apre alla conoscenza di esperienze lontane, che ci mostra cose vicine che non avevamo notato, o capito, che ci fa comprendere le grandi potenzialità dell'umanità che ci circonda. Leggere ha a che fare con la libertà. E con la speranza".
Quando Mattarella ha detto che "Chi scrive un libro, lo fa perchè avverte valori da trasmettere", la mia mente è volata a tutte le idee, ai valori liberali e di integrità morale raccolti nel carteggio Baffi-Jemolo in cui mi sono cimentato con successo in "Anni del disincanto" (Aragno, 2014).

Il Presidente Mattarella ha colto l'occasione anche per dire che l'idea stessa di Europa va oltre il territorio, e implica una "visione dell'uomo de del mondo". Meno male che c'è qualcuno per cui l'Europa non è solo il rapporto deficit/pil e il Trattato di Stabilità: "Potremmo dire che l'Europa non esisterebbe senza i libri: senza il lavoro dei monaci non avremmo recuperato tanti testi dell'antichità, senza Gutenberg, non ci sarebbe stata la Riforma, senza le grandi biblioteche non ci sarebbe stata l'evoluzione del diritto, non ci sarebbe stato il pensiero moderno".

Hans Tuzzi, bibliofilo e scrittore di talento, inventore del commissario Norberto Melis, nell'attacco al "Mondo visto dai libri" (Skira, 2014) coglie il punto, il libro come risposta all'orrore e all'ignavia: "Quando, il 5 settembre 2013, a Mantova, Paola Italia disse che Gadda pubblicò L'Adalgisa anche come atto etico, esile gesto di civiltà contro la criminale barbarie della Guerra voluta da Hitler, qualcosa scatto nel mio cervello: vidi, nello scoscendere dei secoli, morti disastri e ferocie scatenati dal sonno della ragione, e, fra stragi e guerre, prepotenze e ingiustizie, fra incerti progressi e mai facili conquiste, l'Uomo, nudo, piccolo, spaurito, molteplice, confuso e talvolta inconsapevole debitore a quanti, appunto, mai tra ignavia e orrore ammainarono il vessillo dell'intelligenza, del raziocinio, della scienza, dell'arte".

I giovani leggono sempre meno. Speriamo nelle donne che leggono molto di più. Nel corso delle mie lezioni universitarie, a furia di citare libri da leggere, uno studente mi ha detto: "Prof., ma lei li ha letti tutti questi libri che cita? Sa, io leggo solo d'estate, perchè gli altri mesi non ho tempo". Io gli ho risposto che leggere è un antidoto all'atrofizzazione della mente e al conformismo imperante. I libri vanno letti anche in autunno, inverno e primavera, altrimenti finiamo - con le parole di Pif -  a credere che La mafia uccide solo d'estate.

venerdì 8 maggio 2015

La battaglia di Roger Abravanel per soft skills, migliore didattica, mobilità sociale #education #scuola

Roger Abravanel, dopo una lunga carriera in McKinsey, ha deciso di combattere una vera e propria battaglia a favore della meritocrazia, su cui abbiamo scritto spesso in passato.

In anni recenti Roger si è innamorato e ha avuto un altro figlio, che gli ha allungato la vita e lo ha invogliato a pensare e riflettere sui giovani e in particolare sull'education.

E' appena uscito in libreria La ricreazione e' finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro (Rizzoli, 2015), scritto da Abravanel insieme a Luca D'Agnese, manager dell'Enel. Il titolo rieccheggia l'infelice frase riferita da Alain Minc all'Ing. Carlo De Benedetti in occasione della fallita scalata ostile alla Societè Generale de Belgique nel 1988.

Il volume di focalizza sulle competenze, sul "saper fare" (non basta il "sapere" nel 2015) di cui i giovani sono sprovvisti, poichè la scuola è impostata male, su canoni ottocenteschi, non adeguati a un mondo del lavoro molto cambiato.
Abravanel insiste ogni piè sospinto sulle nuove competenze necessarie nella società post-industriale: saper lavorare in autonomia (anche il dipendente deve agire come un imprenditore), risolvere problemi, avere spirito critico, saper comunicare e lavorare in team. Se interrogate gli imprenditori, vi diranno che i nostri ragazzi queste "competenze di vita" non le hanno.

Beppe Severgnini, che ha recensito il volume sul Corriere della Sera, ha sostenuto in modo convinto che "l'università è un investimento in se stessi e resta l'ultimo grande frullatore sociale, capace di mescolare redditi, censo e geografia. Se si ferma, siamo spacciati". Ma l'università italiana è tutto tranne che un ascensore sociale.

L'universita' italiana non funziona, non prepara in modo adeguato i giovani. A parte eccezioni come la Bocconi, i politecnici di Milano e Torino, l'università di Trento, il resto del panorama universitario lascia a desiderare. Perchè? La colpa, secondo gli autori, è delle tante lauree inutili sfornate da mediocri atenei che da anni creano schiere di giovani disoccupati. Quando i giovani protestano invocando il "diritto allo studio", dovrebbero invece chiedere "diritto al lavoro", grazie a una scuola migliore.
Come i maestri - secondo un proverbio ebraico - bisogna andarseli a cercare, così bisogna fare con le scuole e l'università. Non bisogna essere pigri e scegliere quella sotto casa. E' opportuno invece darsi da fare per scoprire le ottime scuole e università che sono presenti anche in Italia. Come valutare le scuole? Per esempio su www.eduscopio.it, ottimo sito web con analisi e valutazioni sulle scuole fornite dalla Fondazione Agnelli, guidata dall'ottimo Andrea Gavosto.
  
Quando gli autori tifano per una maggiore mobilità sociale basata sull'eguaglianza delle condizioni di partenza non fanno che riproporre in altri termini le teorie di Luigi Einaudi, ministro del Bilancio del dopoguerra, governatore della Banca d'Italia dal 1945 al 1948 e poi Presidente della Repubblica.

Luigi Einaudi
Einaudi nelle "Lezioni di politica sociale (Einaudi, 1949) discutendo della possibilità di un reddito minimo nazionale per i più' svantaggiati o i più colpiti dalle contingenze della vita o del lavoro, mette subito le mani avanti avvertendo come "bisogna cercare di stare lontani dell'estremo pericolosissimo dell'incoraggiamento all'ozio". Conta garantire l'eguaglianza delle condizioni di partenza, non di arrivo: "Una assicurazione data a tutti gli uomini perchè possano sviluppare le loro attitudini", affinchè emergano "studiosi e inventori che oggi ne hanno la possibilita'". L'uomo deve faticare, fin dai tempi di Adamo ed Eva, ammonisce Einaudi: "In perpetuo durerà la legge per cui gli uomini sono costretti a strappare col lavoro alla terra avara i beni di cui essa è feconda".
Chiudo invitando alla lettura completa del volume di Abravanel e D'Agnese. Purtroppo siccome l'italiano non legge, si perpetuerà il sistema ben delineato dagli autori per cui le famiglie acculturate, cittadine del mondo, consapevoli del valore dell'impegno, dello studio, della necessità di conoscenze orizzontali e verticali (ne riparleremo), di soft skills, manderanno i loro figli nelle università migliori. E i ceti popolari, che si nutrono di panem et circences (Berlusconi aveva capito tutto!), staranno attaccati alla tv così da privare i loro figli di un futuro migliore.
 
Giorgio Ambrosoli
P.S.: una critica: nel volume si cita una battuta di Giulio Andreotti sulla numerosità eccessiva degli student "fuori corso" nelle università italiane. Ecco, evitiamo di citare figure da cui i giovani hanno ben poco da imparare. Un politico che ha basato la sua carriera su accordi con la mafia, sull'appoggio della corrente siciliana guidata dal mafioso Salvo Lima - che sostenne a piè sospinto il "sacco di Palermo" guidato dal sindaco democristiano corrotto Vito Ciancimino - colui che definì il bancarottiere Michele Sindona "salvatore della lira", colui che delineò l'avvocato Giorgio Ambrosoli come uno "che se l'andava cercando", non merita di essere citato neanche una volta.

lunedì 4 maggio 2015

Diamo un taglio all'assenteismo nel pubblico impiego

Tre settimane fa, dopo aver corso domenica 10 km di maratona lunedì mattina, nonostante l'acido lattico nelle gambe, puntuale, alle 8 del mattino mi sono presentato in piscina al Leone XIII dove compio la mia ora di nuoto seguito dal mitico Mario Botto, sempiterno coach di grandi e piccini picciò.

Appena entrato nella hall per chiedere la chiave dell'armadietto, scambio una battuta con Alberto, e gli dico: "Sono venuto lo stesso anche se ieri ho fatto un pezzo di maratona. Non sono mica un dipendente pubblico!", e ho sorriso. Non l'avessi mai fatto! Una signora dietro di me mi ha subito redarguito, dicendomi che lei lavora nel pubblico impiego e subito dopo nuoto sarebbe andata regolarmente in ufficio. Io non ce l'avevo certo con tutti i dipendenti pubblici, ma con coloro che approfittano di uno Stato Mamma per fare quello che vogliono. Con una madre insegnante non posso essere contro coloro che lavorano nella PA (peraltro i racconti di mia mamma sulle assenze dei suoi colleghi corroborano la mia opinione).

Dopo questo scambio di battute, mi sono ripromesso  di scrivere un post documentato sull'assenteismo nel settore pubblico. Partiamo dai numeri. Secondo i dati forniti di recente dal Centro Studi di Confindustria nel pubblico le assenze dei dipendenti sono doppie rispetto al settore privato. Se si riportasse l'assenteismo sulle medie del privato, il risparmio sarebbe di 3,7 miliardi l'anno: "Dai dati del Conto annuale della Ragioneria dello Stato si evince che nel settore pubblico nel 2013 ai 10 giorni di assenza pro capite per malattia se ne sono aggiunti 9 di assenze retribuite. Un assenteismo del 46,3% più alto dei 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine di Confindustria per gli impiegati nelle aziende con oltre 100 addetti (il gruppo più comparabile al pubblico impiego)".


Aggiungo due notizie tratte dai giornali delle ultime settimane:
1) Roma, i primatisti dell'assenteismo licenziati dopo 900 giorni di malattia. Quattro autisti Atac hanno accumulato negli ultimi tre anni in totale 900 giorni di assenza. Uno in particolare dal 2013 al 2015 ha dato forfeit in 403 occasioni. C'è stato bisogno di ricorrere al Regio Decreto 148/31 per procedere al licenziamento. Che sicuramente sarà appellato e con buona probabilità i 4 dell'apocalisse saranno reintegrati. Alla faccia di chi aspetta l'autobus a Roma.

2) Il sindaco di Locri invoca Gesù per limitare le assenze dei dipendenti comunali: Giovanni Calabrese ha scritto una lettera, con tanto di intestazione ufficiale, niente meno che a Gesù Cristo. Il primo cittadino «manifesta la sua disapprovazione e lo sconforto per le continue e ripetute condotte di alcuni dipendenti comunali che immobilizzano l’apparato burocratico e si comportano in maniera poco corretta e anomala sul posto di lavoro, tralasciando il senso del dovere e lo stesso rispetto del lavoro e dei colleghi, nonché della parte politica che governa la Città».

Nella lettera, il sindaco Calabrese racconta ad esempio dell’elettricista comunale che «non poteva sostituire le lampadine perché non c’erano soldi per comprarle e dovevano provvedere i cittadini. Grazie a qualche buon amico sono riuscito ad avere quindicimila lampadine gratuitamente, ma non mi sembra che niente sia cambiato. Le lampadine sono tutte stipate in un deposito, molte zone della città continuano a rimanere al buio e l’elettricista continua ad essere uccel di bosco». Altro rilievo alla polizia municipale: «In circa otto mesi sono state elevate meno di 400 sanzioni stradali in una città in cui regna l’anarchia stradale e l’altro giorno sono stati bravissimi nell’ostacolare il percorso della Madonna Immacolata nostra reverendissima patrona».

Giuseppe Di Vittorio, sindacalista e politico
Un tempo il sindacato difendeva i lavoratori. Consiglio di leggere il profilo di Giuseppe di Vittorio, leader della CGIL dal 1945 al 1957 scritto dallo storico Piero Craveri sul Dizionario Biografico degli italiani della Enciclopedia Treccani. Nella biografia emerge la battaglia compiuta da Di Vittorio per concedere ai lavoratori senza diritti, ai braccianti, delle condizioni di lavoro degne, quando i soprusi e gli orari sovrumani erano la normalità.
Oggi i sindacati spesso tutelano i fannulloni, i nullafacenti, chi non va a lavorare, chi è irresponsabile o miope. Ha perfettamente ragione il giurista Pietro Ichino quando sostiene: "Da una parte c'è l'interesse dei nullafacenti a continuare a godere della rendita che finora è stata loro assicurata; dall'altra c'è l'interesse della maggioranza dei lavoratori pubblici—quelli veri—a una retribuzione adeguata, l'interesse dei precari a uscire dall'apartheid cui sono stati finora condannati, l'interesse della collettività a non veder tagliare gli investimenti necessari per lo sviluppo economico del Paese. In questo conflitto di interessi i sindacalisti del settore pubblico da che parte stanno?"