Qualche giorno fa, ci ha lasciato Irene Camber, formidabile atleta, medaglia d'oro di fioretto alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, campionessa mondiale, persona dalle grandi qualità umane.
Nata a Trieste nel 1926 - come mio papà! - Irene non si è mai accontentata nella vita. Amava immensamente vivere. Irene primeggia nello sport ma non esita a studiare. Il padre Giulio dal fronte le scrive incoraggiandola all'impegno e alla costanza. Oggi si direbbe "consistency". Diplomata in pianoforte al Conservatorio, si laureò - prima donna a farlo - in chimica industriale all'Università di Padova, in una facoltà quasi completamente maschile.
Nelle foto da giovane si vedono dei bellissimi occhi azzurri. La nipote Matilde Corno in una didascalia a un servizio fotografico ha scritto: "Irene ha gli occhi di ghiaccio. Se li guardi da vicino, vedi il mare di Trieste".
Gianni Brera in prima pagina sulla Gazzetta dello Sport dove era già giovane direttore dal 1949, in un pezzo dal titolo "Daghe Muleta!" ("Forza ragazza", in dialetto triestino), così si espresse al termine di una giornata appassionante - 27 luglio 1952, giorno in cui Emil Zapotek vinse i 5 e i 10mila metri - nei sobborghi della capitale finlandese, a Espoo, dove Camber vinse il primo oro olimpico femminile nella scherma italiana, già allora fortissima nella scherma maschile con i fratelli (Edoardo e Dario) Mangiarotti: “Irene Camber ha il volto onesto e buono di tutte le vostre compagne di liceo che hanno scelto Chimica”.
Gianni Brera |
Le gare di scherma negli anni Cinquanta non seguivano un tabellone tennistico come oggi, ma si snodavano in infiniti gironi eliminatori finché gli atleti rimangono in 8, e a quel punto si sfidavano in un ulteriore girone all’italiana. Si vinceva a quattro stoccate. Camber ricorda: “Io seguivo gli assalti, prendevo appunti sulla scherma delle mie avversarie. In mattinata ho superato senza difficoltà i primi turni, mentre le mie compagne venivano eliminate. A mezzogiorno ho chiesto alla mensa una bistecca: non me l’hanno data, mi hanno risposto che erano contate e che spettavano non ricordo a chi. Allora ho mangiato un uovo e una mela”.
“Ero calmissima”, ricorderà Irene, “mentre
lei era più nervosa, conosceva la mia forza. Non solo l’avevo appena battuta
nel girone, ma l’avevo anche cappottata a Budapest, a casa sua, qualche mese
prima”. “Cappottare” voleva dire vincere 4-0. Elek si porta subito sul 2-0, poi Camber pareggia 2-2, subisce il 3-2, poi 3-3 ed è decisiva l’ultima stoccata. “Ricordo il silenzio intorno, le luci che mi
davano fastidio. Accennai un attacco e la Elek parò. Ripetei lo stesso attacco e
lei parò con lo stesso gesto. Io stavo traccheggiando ma mi resi conto che lei
rispondeva in modo meccanico, senza grande attenzione. E allora entrai decisa:
feci un coupé e le entrai nella pancia”.
Nel leggere le cronache di allora, mi ha colpito una considerazione di Irene, tratta dall'insegnamento di suo padre Giulio, avvocato e uomo di lettere, combattente nella prima e nella seconda Guerra Mondiale (dove morì nel 1941 in Albania per una caduta da cavallo): “Sei tu che devi risolvere il tuo problema”. E' così che funziona nella vita di ciascuno di noi, nei momenti difficili. Nelle parole di Donato Menichella, storico governatore della Banca d'Italia dal 1948 al 1960, quando l'Italia cresceva come non mai: "Sta in noi".
Inoltre, Irene ricordava sempre ai giovani: "Per vincere bisogna combattere, se non si combatte non si può vincere". Ma aggiungeva un'altra esortazione del padre: "Mi diceva che nella vita, come nella scherma, devi essere sempre leale, corretto, senza mai imbrogliare". In un'altra occasione disse: “L’insegnamento di mio padre, che io trasmetto, è che l’importante non è vincere ma vincere con onestà, senza che nessuno ti regali nulla. E ai giovanissimi schermidori dico di essere pazienti e determinati, perché il nostro sport è una lunga sfida prima con se stessi”.
Irene ha ricordato con emozione il suo ritorno in terra triestina, dopo l'oro di Helsinki: ”Arrivai a Trieste con la corriera da Venezia alle 16,45. Fui portata per Corso Italia su una macchina scoperta, ci seguivano le macchine e trecento lambrette. Fu la vittoria di una città”. Trieste non era ancora completamente italiana. Sarebbe tornata all’Italia due anni dopo, e per sempre.
Trieste, città bellissima, con una piazza meravigliosa - Piazza Unità d'Italia - che si affaccia sul mare. Città piena di storia e caratterizzata dalle vicende dell'irredentismo. Qualche anno fa, nel dicembre 2018, per il centenario della sede della Banca d'Italia, il vicedirettore generale Federico L. Signorini scrisse un intervento tutto da leggere: "Trieste fra Europa e nazione: 1918-2018".
Voglio soffermarmi su un passaggio. In tempi di sovranismi, è quanto mai opportuno ricordare il pensiero di Luigi Einaudi, che definì il dogma della sovranità assoluta come "massimamente malefico":
Luigi Einaudi |
La degenerazione imperialistica del nazionalismo è colta appieno da Luigi Einaudi (futuro Governatore della Banca d’Italia, lasciatemelo ricordare), il quale nel 1918, quando le armi si erano appena posate, quando la Società delle Nazioni era ancora in gestazione (per non parlare dell’Unione europea, che era di là da venire), scrisse un lucido articolo dal titolo Il dogma della sovranità e l’idea della società delle nazioni. “Se fu necessario – disse Einaudi – sconfiggere il nemico […] sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica”. Varrebbe la pena riportare tutta la pagina di Einaudi, ma il succo è questo: se si accetta l’idea di una sovranità assoluta e perfetta delle nazioni, essa concerne naturalmente il diritto di far guerra, e quindi di avere le frontiere che permettano una agevole difesa, e quindi di conquistare i territori limitrofi che abbiano tali frontiere. Ma non solo: l’idea che una nazione per affermarsi debba essere autosufficiente implica la necessità di possedere tutte le materie prime, le infrastrutture, e quindi conquistare – sempre a fin di bene e di autodifesa – i territori che abbiano carbone, grano, porti marittimi, e così via. Ogni elemento in più che si conquista reclama un altro elemento da conquistare; non vi è fine a questa catena. Le nazioni dunque, per “essere pienamente se stesse”, cozzano contro altre nazioni.".
Il palmares di Irene Camber è quanto mai lungo: oltre all'oro olimpico, il bronzo a squadre a Roma 1960, mentre nei campionati mondiali si annovera un oro individuale (Bruxelles 1953) ed uno a squadre (Parigi 1957), un argento (a squadre Lussemburgo 1954) e 5 bronzi (fioretto a squadre a Copenaghen 1952, Bruxelles 1953, Roma 1955 e Buenos Aires 1962; fioretto individuale a Parigi 1957). Non partecipò alle Olimpiadi di Melbourne in Australia nel 1956 poiché impegnata nel matrimonio con Gian Giacomo Corno, diventato negli anni rispettatissimo commercialista e aziendalista a Lissone.
Irene Camber con Mattarella |
Al funerale di Irene Camber, con la chiesa gremita, il figlio Fabio Corno, già mio professore di economia aziendale in Bocconi, dopo aver ricordato quante persone provano gratitudine verso Irene, donna che si è spesa per gli altri, ha letto una poesia di Giulio Camber Barni (1891-1941), dal titolo "Il passato" (nel 1950 Mondadori pubblicò “La Buffa”, una sua raccolta di poesie con una lunga prefazione del più importante dei poeti triestini, Umberto Saba):.
La sera, quando suonan le campane,
la voce del Passato mi torna
con una profonda tristezza.
Ed io mi volgo allora
per dirgli qualche cosa,
e per guardarlo a lungo
nei suoi occhi d’arcobaleno.
Giulio Camber Barni
E lui, con la sua voce,
non parla, eppur lo sento
come mi dice con gli occhi:
“ti perderò nella notte;”
Io sento come mi chiede:
“perché tu m’abbandoni”?
Io lo vorrei trattenere
perchè gli voglio bene:
siamo vissuti insieme;
e intanto avanza lo stuolo dell’ombre:
bisogna partire.
Ed io non vorrei lasciare
la sua mano melanconiosa,
ma la notte l’afferra
ed io brancolando lo cerco,
e non lo trovo più.
E allora mi par di sentire,
nel vento una voce che piange,
come di mio padre,
e non capisco se sia
la sua oppure la mia.
La mela non cade mai lontana dall'albero, le generazioni si susseguono e ognuno porta avanti la propria storia. Il passato non deve essere visto con retrotopia e spirito nostalgico, bensì come uno stimolo, ascoltando le voci - sagge - di chi ci ha preceduto.
Camber con le fiorettiste d'oro a Milano (2023) |
La vita di Irene Camber deve fungere da esempio non solo per figli e nipoti (8 nipoti e 3 bisnipoti, tanta roba), ma per tutti noi, consapevoli che nella vita bisogna impegnarsi in modo serio, competere - ma con grande correttezza -, aiutare gli altri ogni qualvolta ci è possibile.
Un forte abbraccio a Fabio e ai suoi fratelli.
Cara Irene, le sia lieve la terra.