Luigi Einaudi |
Esattamente come negli anni '20 quando gli industriali si accodarono al fascismo.
Dopo il delitto di Giacomo Matteotti - giugno 1924 - solo alcune voci flebili si fecero sentire. Allora Luigi Einaudi dalle colonne del Corriere della Sera, diretto da Luigi Albertini (che fu cacciato poco dopo, nel 1925, da Benito Mussolini).
Il titolo fu quanto mai eloquente: "Il silenzio degli industriali". Vale la pena di rileggerlo in toto e chiedersi come mai gli industriali di oggi siano silenti di fronte a questo sfascio giallo-verde.
Il silenzio degli industriali, di Luigi Einaudi, 6 agosto 1924, Corriere della Sera
Le rappresentanze degli industriali, dei commercianti e degli uomini d'affari si sono finora mantenute in un silenzio così prolungato intorno agli avvenimenti politici più recenti da far dubitare forte se esso non sia il frutto di una meditata deliberazione. Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, i partiti politici pure aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita ieri la voce dei combattenti. Soltanto i capitani dell'Italia economica tacciono.
Se si discorre con taluno di essi, con coloro che si può supporre rappresentino gli interessi più larghi dell'economia nazionale, l'impressione che se ne ricava non è già quella di approvazione delle esorbitanze verbali degli estremisti del fascismo, e dei frenetici di dittature e di plotoni d'esecuzione. Gli industriali non approvano le minacce; ma, affettando di considerare gli agitati gridatori come degli innocui maniaci, insistono sulla necessità preminente di un governo forte; e ritengono che la tranquillità sociale, l'assenza degli scioperi, la ripresa intensa del lavoro, il pareggio del bilancio siano beni tangibili, effettivi, di gran lunga superiori al danno della mancanza di libertà politica, la quale, dopotutto, interessa una minoranza infima degli italiani, alle cui sorti essi scarsamente si interessano. Prima bisogna lavorare, produrre, creare le condizioni materiali di una vita larga; il pensare, il battagliare politicamente sono beni puramente ideali, dei quali si può anche fare a meno. I più cinici, i più aderenti ad una inconsapevole concezione materialistica della vita aggiungono che val la pena di pagare un tenue tributo di danaro e di libertà, pur di salvarsi dal pericolo del bolscevismo, dell'anarchia, della distruzione della ricchezza. O il regime attuale, con tutte le sue restrizioni alla libertà politica o il bolscevismo. Tra i due, la scelta non è dubbia. Inutili le promesse di una via di mezzo. Fatalmente, la restaurazione dei metodi ordinari di governo parlamentare, della libertà statutaria di stampa, vorrebbe dire ritorno ai metodi giolittiani e nittiani di adulazione e di debolezza verso i partiti rossi. A Kerenski seguirebbe fatalmente Lenin. Vogliamo cadere, chiedono gli uomini della finanza, negli orrori del bolscevismo?
Giacomo Matteotti |
Non a torto corre nel mondo dei finanzieri un vago senso di malessere che induce gli speculatori ad alleggerire le posizioni, a stare ad aspettare. Lo speculatore valuta zero il passato. Quel che conta è solo l'avvenire. Si vorrebbe vedere nell'avvenire sicurezza, tranquillità, non imposte con le minacce, ma conquistate con la persuasione. Non pochi temono che l'ondata, rovesciandosi, colpisca in pieno l'industria, considerata responsabile degli eccessi peggiori del regime di coercizione. L'opinione pubblica, è inutile tacerlo, considera in blocco con sospetto gli industriali. Quando si è veduto che i finanziatori del giornale di Filippelli erano grandi industriali, quando si parla correntemente di acquisti fatti a colpi di milioni di quotidiani atti a influenzare o fabbricare la pubblica opinione; quando si vede che i soli giornali i quali abbiano plaudito al decreto sulla stampa sono quelli di cui non sono chiare le origini finanziarie ed i quali hanno d'uopo per vivere, di generosi sacrifici pecuniari dell'alta finanza; quando si ricordano le circolari della confederazione dell'industria e del commercio incitanti a versare fondi di propaganda durante le elezioni a favore del partito dominante, è facile l'illazione: dunque l'industria non può vivere se non provvede a crearsi un ambiente favorevole; dunque il capitalismo trae le sue ragioni di esistenza dalla corruzione, dagli affari conchiusi con lo stato od attraverso i governi; dunque si sopprime la libertà di stampa allo scopo di consentire ai ricchi di sfruttare il popolo con contratti leonini e con protezioni jugulatorie.
L'accusa ed il sospetto non toccano la grandissima maggioranza degli industriali, degli agricoltori e dei banchieri italiani, i quali vivono di un lavoro sano e fecondo. Ma il terribile si è che questa grandissima maggioranza non veda il pericolo a cui va incontro col non separare nettamente le proprie sorti da quelle dei pochi profittatori ed interessati all'oscurità ed al silenzio. No. L'industria italiana non vive di lavori pubblici, non vive di favori governativi; di fatto non è per lo più neppure vantaggiata dalla protezione governativa. L'industria italiana non ha perciò paura del bolscevismo: chi ha le mani nette, chi vive del proprio lavoro, chi è necessario in una organizzazione economica sana, non può essere soppresso. Faccia a faccia con gli operai, in aperto dibattito, l'industriale creatore di vigorose imprese industriali non dovrebbe temere di vedere negata la sua ragion d'essere.
Ciononostante egli può commettere suicidio. Per debolezza, per lasciar correre, per non aver fastidi, gli industriali italiani hanno commesso la propria rappresentanza ad alcuni pochi, i quali reputano atto supremo di saggezza comprar la pace giorno per giorno, propiziarsi con tributo adeguato i potenti della terra, ottenere per largizione ciò che avrebbero diritto di pretendere per giustizia. Stiano attenti i mal consigliati! Se c'è qualcosa che oggi in Italia possa rendere l'animo delle moltitudini favorevole nuovamente a barbare teorie orientali, sconfessate oramai da tutti i capi responsabili del movimento operaio del mondo occidentale, questo qualcosa non è l'attrattiva del vangelo di Mosca; è la repulsione verso le prediche di violenza e di compressione. Gli industriali, i finanzieri, i quali si rallegrano della scomparsa assoluta degli scioperi dopo la marcia su Roma e solo per questo affermano la loro solidarietà ad ogni costo anche cogli estremisti del fascismo, paiono ciechi. Ben fragili sono le fondamenta di mercati finanziari che riposano su un terreno così sdrucciolevole. Non senza ragione i valori di borsa rifiutano di salire più in su. Risaliranno, nel giorno in cui, - essendo pienamente liberi gli operai di abbandonare il lavoro sotto la guida di quei qualunque condottieri, bianchi, rossi o tricolorati, che liberamente essi si saranno scelti - gli scioperi non avranno luogo od avranno luogo in scarso numero perché industriali lungimiranti avranno saputo evitare a tempo la sciagura, con trattative accorte, con sforzi vittoriosi per concedere il massimo possibile alle maestranze, pur facendo vigoreggiare l'intrapresa. Se si ficca lo sguardo in fondo, la preferenza di tanti industriali per la pace sociale imposta dal governo e consigliata dall'amore del quieto vivere. Vogliono lavorare, essi dicono, e non essere seccati da memoriali, da leghe, da discussioni, che fanno perder tempo. Eppure, bisogna rassegnarsi. Per governare un'industria oggi non basta essere valentissimi tecnici e commercianti accorti. Importa altrettanto e forse più, essere condottieri di uomini. Non si lavora per produrre tessuti o rotaie o frumento, sibbene per creare condizioni di vita sempre più alte per tutti coloro, dai capi ai gregari, che partecipano alla produzione. E tra queste condizioni di vita, insieme col pane, forse più del pane medesimo, va annoverata la dignità di uomo libero. Gli industriali italiani non sono oppressori. L'accusa, che fu ad essi rivolta, è ingiusta. Ma essi devono evitare pur l'apparenza di esserlo. La politica del silenzio, in momenti così drammatici, delle rappresentanze industriali, prende, agli occhi del pubblico, aspetto servile. Non è pericolosissimo far pensare agli operai che il proprio avvilimento sia il prezzo della compiacenza padronale?