In queste condizioni ha buon gioco chi propone dazi doganali, chiusura delle frontiere, nazionalismi che credevamo morti e sepolti. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato, dopo la sua elezione, una battaglia per ridurre il deficit commerciale americano, pari nel 2017 a 566 miliardi di dollari. In surplus con gli States ovviamente la Cina, e a seguire Giappone, UE e Messico. Se il motto di Trump è "America first", e al contempo l'America ha deciso di servirsi della Cina a livello manifatturiero, riesce difficile pensare che le cose possano cambiare.
L'ultima iniziativa statunitense prevede dazi su acciaio (25%) e alluminio (10%) provenienti dalla UE. Oggi Trump ha accusato Harley Davidson di delocalizzare in Europa e danneggiare gli Stati Uniti. "The Donald" cerca di plagiare il suo elettorato, i blue collar: insiste nel vole disegnare la geografia produttiva. Vorrebbe che le auto tedesche vendute sul suolo americano siano prodotte negli States.
Il rischio di escalation non è banale. Non dimentichiamo che la crisi degli anni '30 nacque per i protezionismi reciproci. Oggi il mondo rischia un calo nell'interscambio commerciale, che si rifletterebbe necessariamente sul Pil. Il clima di incertezza aumenta proprio quando la congiuntura europea sembrava aver preso forza.
Per un Paese esportatore come l'Italia che nel 2017 ha conseguito un avanzo commerciale (esportazioni-importazioni) pari a 47,5 miliardi di euro, proporre uno stop ai trattati di libero scambio - come ha recentemente paventato il ministro dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio in relazione al Ceta, accordo tra Canada e Unione Europea - è una follia.
Ha fatto bene Alessandro De Nicola su Repubblica a ricordare al ministro le parole di Carlo Cattaneo contro il nazionalismo economico pubblicate oltre 150 anni fa sulla rivista "Il Politecnico": "Non si fabbrica un'auna di Merletti a Malines, che Bergamo non tessa nello stesso tempo un'auna di cotone, Aleppo una di mussolina. Una verga di ferro esce dalla miniere di Upland, e nello stesso istante Brescia estrae un fucile dalla fornace, Birmingham un'ancora marina, Bristol una pioggia di fili metallici. Così ogni uomo risponde all'altro uomo: ogni colpo di martello ha la sua riscossa lontana".
Camillo Benso Conte di Cavour la pensava come Cattaneo e infatti, uomo di cultura europea, ribadì la sua linea di apertura dei mercati come stimolo all'innovazione industriale. Sono i settori aperti alla concorrenza che ottengono i maggiori incrementi nella produttività. Cavour aprì a una politica commerciale che respingeva il protezionismo dei passati ducati e regni italiani: doveva vincere il libero scambio attraverso una graduale riduzione delle tariffe, che conduce a una maggiore specializzazione delle imprese, che aumentano la loro competitività in mercati non più solo domestici.
Cavour scrive: "Quale era la cagione che metteva nel 1850 i nostri industriali in una condizione di inferiorità rispetto ai fabbricanti esteri, e specialmente ai fabbricanti inglesi? Non era il difetto di intelligenza...non era il difetto di forza motrice...ma era la ristrettezza del mercato"(cfr. Patrizio Bianchi, Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2017, p. 17).
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