lunedì 26 marzo 2018

Basta lamentarsi, cari ragazzi, datevi da fare! Imparate da Nadia Cementero

L'Italia è il Paese del lamento, del mugugno, della protesta non costruttiva. Forse che si migliorano le cose? Giammai.
Detto ciò, mi ha veramente colpito la lettera di Nadia Cementero a Concita De Gregorio di Repubblica del 21 gennaio scorso.
Ve la ripropongo, con un commento finale

Ho ventisette anni e ho da poco cambiato lavoro. Mi sono laureata in lingue e letterature straniere, poi ho fatto un master a Siena per diventare insegnante di italiano per stranieri. Ben presto mi sono accorta che non sarei riuscita a lavorare nel settore per il quale avevo studiato (la maggior parte di questi impieghi sono poco retribuiti o addirittura di volontariato) così ho cercato altro; ho trovato quasi subito un lavoro che c'entrava poco con quello che avevo studiato. Stage di 4 mesi, assunzione di 8 mesi con un contratto di sostituzione maternità e poi contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti del buon Matteo, che voi quaranta- cinquantenni odiate tanto ma che ha permesso a noi venti-trentenni di essere assunti, altrimenti ci toccava passare dai contratti di somministrazione per almeno 3 anni.
Inizialmente facevo la segretaria. Non è quello per cui ho studiato, ma essendo ambiziosa e curiosa mi sono costruita una conoscenza tecnica che non avevo e sono stata promossa. Mi è stato dato un budget, che ho sempre rispettato e con il tempo ho acquisito moltissime conoscenze che mi sono servite per trovare il secondo lavoro che sto svolgendo ora. Per questi tre anni ho fatto parallelamente attività di volontariato come l'insegnamento di italiano a stranieri, aiuto compiti a bambini stranieri e all'interno di ospedali con un'associazione che porta musica e cucina ( per chi fosse interessato: www. officinebuone. it).
Avere esperienze in queste realtà da un po' di prospettiva. I problemi sono altri. Ovviamente nulla è semplice.
Molti dei ragazzi della mia età che si lamentano perché in Italia non c'è speranza, ma non sanno chi sia il presidente del Consiglio, non sanno cos'è la Bce e non sono capaci di pagarsi le bollette da soli o compilare i moduli per il 730. Come pensano di essere promossi al lavoro se sono poco interessanti alle cose che stanno intorno a loro? Nessuno ti fa trovare la pappa pronta e ti imbocca. Se il datore di lavoro vi dice che potete entrare in ufficio dalle 8.30 alle 9.00 significa che dovete essere lì tutti i giorni alle 8.30 e quella delle 9.00 deve essere un'eccezione, quindi poi non vi potete sorprendere se non vi promuovono.
Se analizzo le cose direi che non posso proprio lamentarmi. È giusto non accontentarsi ma quando sento una mia coetanea che dice "di non esistere più" rimango esterrefatta. È proprio un modo per non guardare ai veri problemi della vita.
Visto che conosco già alcuni dei commenti che arriveranno vi informo che i miei genitori non sono ricchi, non sono mai stata raccomandata sul lavoro, ma ho fatto colloqui come tutti i comuni mortali. Volevo dirvi anche che la fortuna non esiste, le cose si ottengono lavorando. Rimbocchiamoci le maniche, fortunatamente non siamo nati in tempo di guerra.
Tutti ovviamente possono lamentarsi, è un diritto sacrosanto. Ma se uno non è soddisfatto della sua vita vada veramente all'estero. Lo hanno fatto tutte le generazioni prima di noi, ci sono più italiani all'estero che nella penisola.
Vi vogliamo vedere con le vostre valigie negli aeroporti, non dietro una tastiera a piagnucolare!».

Firmato: Nadia Cementero

Cara Nadia,
che bella lettera. Hai preso esempio da Papa Francescp che ha attaccato sulla porta del suo studio il cartello "Vietato lamentarsi".
Che iniezione di fiducia. Come diceva Sant'Ambrogio: Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi".

giovedì 15 marzo 2018

A 40 anni dal rapimento di Aldo Moro permangono molti misteri

Il rapimento del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro il 16 marzo 1978 è il nostro 11 settembre. A 40 anni dall'attacco militare delle Brigate Rosse, siamo ancora qui a parlarne con trasporto. In via Fani rimasero sul terreno i cinque uomini della scorta di Moro, impreparati al momento dell'imboscata. Nessuno aveva la pistola in pugno. Solo uno dei cinque, Raffaele Iozzino, riuscì a sparare due colpi, prima di rimanere ucciso. I colpi sparati dal commando (probabilmente cinque, ma forse nove) spararono oltre cento colpi. Sono 91 i bossoli rinvenuti all'incrocio tra via Fani e via Stresa. Eravano ancora lontani dal mondo dei Ris, che raccomandano di non inficiare la scena del crimine. Per cui giornalisti, passanti, poliziotti, cameramen passarono tranquillamente sopra i bossoli, rendendo poi difficile la ricostruzione esatta dei fatti. La cosa che sorprende è che il volume incredibile di fuoco lascia illeso Moro
E' giusto ricordare i nomi dei componenti della scorta: l'appuntato Domenico Ricci, al posto di guida della Fiat 130 blu (non blindata, al contrario della macchina di Cossiga), il maresciallo dell'Arma Oreste Leonardi, guardia personale di Moro (secondo il racconto di Morucci, prima di morire riuscì a girarsi per far abbassare il president e proteggere la sua incolumità). Nella macchina di scorta i tre agenti di pubblica sicurezza, il vice brigadiere Francesco Zizzi, e gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Un bel libro li ricorda: Gli eroi di via Fani, di Filippo Boni, con la prefazione di Mario Calabresi, direttore di Repubblica.
Moro venne fatto salire sulla macchina dei brigatisti e portato nella "prigione del popolo" in via Montalcini, dove rimarrà per tutti i 55 giorni della prigionia, prima di essere ammazzato il 9 maggio 1978 (recentemente i Ris, incaricati dalla Commissione Moro, hanno messo nero sui bianco che lo statista non è stato ucciso coricato nel portabagagli come hanno sempre dichiarato i brigatisti, ma era seduto e avrebbe guardato il suo assassino negli occhi), e fatto ritrovare dentro il bagagliaio di una macchina rossa in Via Caetani, a due passi dalla sede della DC (Piazza del Gesù) e del PCI (via delle Botteghe Oscure). Come dire: siete stati voi i responsabili del misfatto.
Quella mattina Moro si sarebbe dovuto recare a votare la fiducia al governo Andreotti, frutto di un elaborato piano di "solidarietà nazionale", diretto a gestire la transizione italiana con l'appoggio dei due maggiori partiti italiani. Lo storico Guido Formigoni ha scritto: "Moro voleva consolidare il sistema democratico e accompagnare l'evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del compromesso storico".
Nel suo recente Un atomo di verità, il direttore dell'Espresso Marco Damilano dedica molte pagine all'ultimo discorso di Moro del 28 febbraio 1978, quando Moro invitò a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell'emergenza italiana, "l'emergenza reale che è nella nostra società". Mentre oggi la politica gioca e sfrutta la rabbia degli esclusi, dei meno fortunati, Moro rifletteva sulla necessità dell'inclusione: "Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell'opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno ala prova di una opposizione condotta fino in fondo". Cosa fa la politica oggi? Genera frustrazione negli elettori e non coltiva più la speranza. Non c'è più il futuro di una volta.

Umberto Gentiloni Silveri ha scritto un libro - Il giorno più lungo della Repubblica (Mondadori, 2016) - raccogliendo molte delle lettere che vennero spedite dagli italiani dopo il rapimento. Si mobilitarono le scuole, semplici cittadini, famiglie, persone umilissime, anche emigrati. Una comunità smarrita. Attonita, incapace di reazione.
Mentre vanno in onda le edizioni speciali dei telegiornali, la famiglia Moro è sommersa dalle lettere.
Una corrispondenza spontanea e disordinata, che in alcuni casi scrive come destinatario Famiglia Moro in Via Fani, il luogo del rapimento. Pacchi di temi, scrive Gentiloni, arrivano dalle scuole di ogni ordine e grado. Iniziative nate dalla voglia di partecipare, di condividere la speranza di una soluzione positiva, di essere presenti in un passaggio cruciale della vita democratica.
In alcuni casi la scrittura è semplice, rivela una alfabetizzazione precaria, incerta, con errori e imprecisioni. Spesso i messaggi sono pervasi dall'orgoglio dell'appartenenza. Si vuole rimarcare il fatto di essere italiani.
Per dare un'idea del contesto, gli anni che vanno dal 1976 al 1979 rappresentano il picco della parabola terroristica. Si contano nel triennio 23 vittime per mano del terrorismo di destra, 91 per mano del terrorismo di sinistra e 85 in conseguenza di stragi di vario genere. In totale 199 morti in poco più di 36 mesi.
Alcune lettere dei bambini sono commoventi.
Cara Signora Moro,
sono una bambina di otto anni siciliana e sento parlare sempre di Aldo Moro. Sono brutti e cattivi quelli che lo lasciano in prigione.
Un'altra:
Gentile signora io sono una bimba di 6 anni e voglio dire 3 cose. 1. Deve avere tanto coraggio e tanta pazienza. 2. Non dovete piangere tanto perché si sciupano gli occhi. 3. Dovete dire a quelli della polizia perché la pistola ce l'hanno nella cintura? La devono portare sempre in mano per essere pronti quando si avvicina quella gente tanto cattiva.

Grazie all'ottimo libro di Andrea Galli - giornalista del Corriere della Sera - Dalla Chiesa (Mondadori, 2017) ho scoperto una cosa che non sapevo. Durante il sequestro Moro il generale Carlo Alberto dalla Chiesa è stato tenuto fuori da qualsiasi operazione. Come mai? Perché non si voleva trovare Moro? Il Comitato costituito presso il ministero degli Interni - guidato da Francesco Cossiga - si è scoperto poi essere formato quasi esclusivamente da membri della loggia P2 di Licio Gelli.
Solo il 30 agosto 1978 il presidente del Consiglio decretò che dalla Chiesa fosse "posto a disposizione per la durata di un anno, per l'espletamento ai fini della lotta contro il terrorismo delle funzioni di coordinamento e cooperazione tra le forze di polizia e gli agenti dei servizi informativi".
E le cose cambiarono profondamente. Uno dei maggiori collaboratori del generale, Domenico Di Petrillo, ha detto: "Partimmo quasi da zero... Fu fondamentale il metodo del nostro generale. L'uso della testa, l'analisi, la conoscenza: inquadrammo il fenomeno e i soggetti da monitorare, decidemmo un piano di azione, stabilimmo delle priorità, e seguimmo quel piano in modo organico e perentorio. Un passo dopo l'altro". Purtroppo Aldo Moro era già morto. Ucciso da aguzzini, così descritti da Giuliano Vassalli il 24 marzo 1978 ("Pensando a Moro oggi", Il Giorno): Non riesco a vederli diversi dai nazisti. Leggo e rileggo il messaggio finora tramesso e vi riconosco la stessa follia ideological, lo stello linguaggio brutale ed unilaterale, le stesse rivendicazioni di distruzione e di morte".

P.S.: I terroristi rossi, graziati da un ergastolo vero, non solo non stanno zitti, ma provocano. Una brutta pagina. Ancora. Aver dato voce ai brigatisti senza adeguato contraddittorio non è stata una bella pagina di tv. Barbara Balzerani, ancora presa da deliri, ha addirittura dichiarato che "fare la vittima è diventato un mestiere". Non una parola di pentimento, di pietà per le loro vittime, non un commento sulla robaccia scritta nei loro comunicati infernali. Cari giornalisti tv, date la parola ai parenti delle vittime, che sono stati privati per sempre dei loro cari.
P.S.: Coloro che hanno scritto sui muri a Bologna "Marco Biagi non pedala più" sono dei casi clinici. Come ha scritto Michele Serra su Repubblica, "Uno che gode della morte violentea di un inerme e trova spiritoso sottolineare con sarcasmo che l'inerme andava a lavorare in bicicletta è indiscutibilmente un sadico. Non è un giudizio politico. Basta una valutazione medica".

Caro Aldo Moro, che la terra ti sia lieve.