martedì 9 settembre 2025

Julio Velasco, il segreto di un grande coach: dare fiducia, autonomia e autorevolezza

La pazzesca vittoria della nazionale femminile di pallavolo ai Mondiali in Thailandia ha portato ancora una volta all'attenzione del pubblico la straordinaria persona di Julio Velasco, il coach argentino capace di vincere le Olimpiadi con la nazionale femminile e Olimpiadi e Mondiali, anni dopo, con la nazionale femminile.

Non solo un leader eccezionale, ma anche una persona da cui si può imparare moltissimo. In una significativa intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del settembre 2024 Velasco - nato a La Plata il 9 febbraio 1952 - ripercorre la sua giovinezza in Argentina:

Poi, il 24 marzo 1976, il golpe. 

«Il peggiore della nostra storia, il più spietato, sanguinoso, retrogrado. I militari iniziarono ad arrestare persone, a torturarle, a farsi dare nomi di altre persone e a farle scomparire. Facevano partorire le ragazze incinte, ammazzavano la mamma e regalavano o vendevano i bimbi. Arrestavano illegalmente le persone delle liste che davano i torturati, le torturavano e si facevano dare altri nomi. Qualcuno indicò ex militanti che ormai avevano lasciato: mio fratello Luis fu preso così. Viveva con nostra madre, andarono a prenderlo a casa, alle tre del mattino».


Chi era suo fratello?

«Uno studente di medicina. Scomparve per un mese e mezzo. Fu terribile, ne uscì devastato. Quando tornò non era più lo stesso. E neppure la mamma era più lei. Luis si esiliò prima in Perù e dopo in Spagna. È morto giovane, per malattie che secondo me erano anche causate da qualcosa che si era rotto dentro di lui. Mio fratello fu testimone nei processi che si svolsero con il ritorno della democrazia nel 1983».

Lei ha perso amici nella repressione?

«Ho perso i miei due migliori amici. Con Rafael Tello eravamo insieme al liceo: anarchico, figlio di italiani, sparì con i due fratelli. Con Guillermo Micelli studiavamo insieme Filosofia: giocatore di rugby e pallavolo, lo uccisero davanti alla moglie incinta e al figlio di due anni. E poi Miguel Lombardi, mio compagno di squadra di volley, e tanti altri...».

Lei come si è salvato?

«Lasciai La Plata per Buenos Aires, dov’era più facile passare inosservati. Pochi sapevano che ero andato nella capitale e nessuno conosceva il mio indirizzo. I primi due anni sono stati molto duri, poi la pallavolo mi ha salvato: ho cominciato ad allenare bambini e a innamorarmi del mio lavoro. All’inizio per mantenermi ho fatto di tutto, anche le pulizie».


Velasco venne in Italia ad allenare a Jesi nel 1983, poi andò a Modena dove vinse 4 scudetti consecutivi. Nel 1989 passa ad allenare la nazionale italiana maschile. Ottiene subito l'oro ai Campionati europei, disputati in Svezia, il primo nella storia della pallavolo italiana. È solo il primo di una lunga striscia di successi: fino al 1996, quando Velasco lascia la panchina azzurra, l'Italia colleziona 3 ori europei, 2 mondiali e 5 vittorie nella World League.

Dal gennaio 2024 gli viene riaffidato l'incarico di commissario tecnico della nazionale italiana femminile. Nell'estate seguente conduce la squadra alle vittorie della Volleyball Nations League e della medaglia d'oro ai Giochi della XXXIII Olimpiade di Parigi, e domenica la vittoria del campionato mondiale in Thailandia.

Velasco con Paola Egonu

Qual è il segreto di Velasco? Mette i giocatori/trici nella migliore condizione di fare la loro parte: "Ho sempre detto che le volevo autonome e autorevoli". Nel secondo time-out del tie-break contro la Turchia Velasco ha detto loro: "Decidete cosa fare e fatelo bene".

"Un allenatore, e in genere un leader, non fa nulla. Fa fare le cose agli altri. E deve convincerli. L’allenatore è prima di tutto un insegnante; per questo deve uccidere il giocatore che è stato. Se non lo fa, rischia di fallire; e più forte è stato, più il rischio è alto. Capello, Cruijff, Guardiola, Ancelotti ci sono riusciti; Maradona e Platini no. Si convince con l’empatia. Devi capire che l’altro è altro, è diverso da te, e motivarlo con la sua motivazione, non con la tua. Devi fare un po’ come Socrate, che con le domande faceva ragionare, guidava".


Questi ragionamenti di Velasco mi hanno ricordato i ragionamenti di Massimo Recalcati che nel volume "La luce delle stelle morte" (Feltrinelli, 2022) ricorda quando la sua professoressa all'esame di maturità lo ha affiancato al banco e gli ha detto: "Resta lucido", un invito a essere pienamente se stesso, a coltivare quello che egli veramente è, un concentrato di fiducia.

Abbiamo bisogno che qualcuno creda in noi, che ci aiuti a tirare fuori quello che di meglio abbiamo dentro. Quando lo troviamo, diamo il massimo. Come le pallavoliste domenica in Thailandia. E così diamo senso alla nostra vita.


mercoledì 27 agosto 2025

Il generale Eisenhower e la necessità di documentare la Shoah. Abbiamo capito perchè Israele continua a uccidere i giornalisti a Gaza

 Giornalisti uccisi a Gaza dall'esercito israeliano


Dal vile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 - che costò la vita ad almeno 1.194 persone tra civili israeliani e militari - la risposta prevedibile di Israele è stata quanto mai cruenta, con un numero di morti al momento superiore alle 40mila persone (di cui 13.000 bambini).
Tra le cose sconvolgenti della situazione nella striscia di Gaza vi è il sistematico assassinio da parte dell'esercito israeliano (Idf) di oltre 192 giornalisti e fotografi, il cui obiettivo è solo quello di documentare la realtà. Senza testimoni il giudizio non è possibile. Eliminando i giornalisti e fotografi testimoni, Israele intende far credere che nulla sia accaduto.
L'ultimo attacco dell'altro giorno - dopo diverse versioni dell'Idf contradditorie tra di loro, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato di "tragico errore" (ha anche detto che "rispetta il lavoro della stampa", ma qui siamo nel ridicolo), quando si è trattato di un "double tap", ossia di un doppio colpo da parte di un carro armato, il primo per colpire i giornalisti nell'ospedale Nasser a Khan Younis e il secondo per essere sicuri di aver ammazzato il target (il double tap è quanto di peggio possa esserci perchè prevede di ammazzare in modo subdolo i soccorritori) ma ormai all'Idf le regole sono saltate del tutto): 22 persone, di cui 5 giornalisti (che lavoravano per Associated Press e Reuters), 2 medici, e 8 operatori della Difesa civile palestinese.

Ciò che rimane di Gaza

Mariam Abu Dagga, reporter vittima dell'attacco israeliano, ha lasciato al figlio (scappato da Gaza, fortunatamente) una lettera testamento tutta da leggere: " Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio".
La giornalista di Euronews Ruwaida Kamal Asser, intervistata da Repubblica, dice i giornalisti a Gaza sono disposti a rischiare la vita poichè "non c'è alcun altro modo di raccontare e il mondo deve sapere Questa non è una guerra come le altre che duravano una settimana, due, un mese. No, sono 750 giorni, un tempo lunghissimo. Non dormiamo, non abbiamo casa, siamo nel mirino, perdiamo la gente che amiamo. Siamo umani, non ce la facciamo più: ma se ci fermiamo noi, chi racconterà questa guerra immorale? La stampa internazionale non può entrare, ci siamo solo noi palestinesi. E' nostra responsabilità raccontare".

Il fotografo di fama internazionale Paolo Pellegrin sfoga così la sua indignazione: "Sono stati ammazzati a Gaza più giornalisti che in tutte le guerre degli ultimi ottant'anni. Non è un aumento della ferocia, è una strategia che da alcuni anni imperversa su tutti i fronti: i giornalisti sono obiettivi da eliminare...Non vogliono che il mondo sappia...Stiamo assistendo allo smantellamento di regole di tutela dell'informazione e di protezione dei giornalisti che bene o male aveva retti dalla Seconda guerra mondiale". 
Ecco, siamo al punto decisivo. Gli israeliani da perseguitati sono diventati persecutori. Quando vennero liberati i campi di concentramento nel 1945 l'Occidente lavorò per realizzare tutte le immagini possibili, di modo che potesse essere tutto documentato, per i posteri. Cosa che oggi, incredibilmente, gli israeliani impediscono. Siamo nel paradosso dei paradossi.

Torniamo al 1945.

A livello storico va ricordato che furono i russi a liberare per primi i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz. Non furono tanto i mucchi giganteschi di cadaveri – come accadrà nei campi occidentali liberati dagli anglo-americani – a rendere immediatamente comprensibile questa scala industriale anche perché Auschwitz-Birkenau funzionò principalmente come luogo di assassinio di massa degli ebrei europei, distruggendo completamente i corpi delle vittime e ogni loro traccia. La Shoah, in effetti, comprendeva secondo le intenzioni dei carnefici nazisti la distruzione totale dell’ebraismo, senza lasciare alcuna prova del crimine, né della presenza in quei luoghi delle vittime. A rendere conto dell’enormità del crimine furono quindi gli oggetti abbandonati dalle vittime prima di essere assassinate e i loro resti umani: pezzi di ossa, denti, occhiali, scarpe, oggetti, capelli, valigie.

Eisenhower visita il campo di Ohrdruf nell'aprile 1945
Fu la visita dei sopravvissuti denutriti e moribondi di Ohrdrurf, ma anche i numerosi resti di cadaveri bruciati in grande quantità e lasciati in putrefazione a cielo aperto, così come gli strumenti di tortura usati dalle guardie sui prigionieri, i resti delle vittime, a traumatizzare i soldati americani e i reporter al seguito dell’esercito, suscitando un’ondata di raccapriccio sia negli Stati Uniti che in Europa. Il generale Dwight Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa, fu chiamato dai soldati a visitare il campo (12 aprile 1945) e ne rimase così colpito da telefonare a Churchill per comunicargli l’orrore a cui aveva assistito, inviandogli personalmente anche delle fotografie che poi Churchill farà circolare in Inghilterra.

Eisenhower ordinò ai propri uomini di scattare il maggior numero di fotografie possibili alle fosse comuni, alle baracche, ai forni crematori, alle torri di controllo, alle armi, agli strumenti di tortura: “Che si abbia il massimo della documentazione possibile – che siano registrazioni filmate, fotografie, testimonianze – perché arriverà un giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai successo”.


In numerosi campi sia a Est che a Ovest, gli Alleati costrinsero le popolazioni locali, in particolare i civili tedeschi e austriaci, a visitare i resti dei lager. Gli abitanti dei villaggi nei pressi di Buchenwald e Dachau, per esempio, furono costretti a sfilare davanti alle pile di cadaveri per guardare ciò che durante la guerra “non avevano voluto vedere”, in alcuni casi anche a munirsi di vanga e a seppellirli. Diversi storici, come ad esempio Habbo Knoch (in Die Tal als Bild. Fotografien des Holocaust in der deutschen Erinnungskultur, Hambourg, Hamburger Edition, 2001) hanno appurato che la disposizione dei cadaveri nei lager fu appositamente organizzata in modo tale da acuire lo sconvolgimento emotivo e il senso di colpa nel visitatore tedesco. 

Nei primi mesi del 1945, a Londra, il produttore Sidney Bernstein, allora Ministro delle Comunicazioni britannico, scoprì le immagini girate dalle truppe britanniche nel campo di Bergen Belsen al momento della liberazione. Se le informazioni sulle atrocità commesse dai nazisti erano già molto diffuse, quelle immagini orribili erano la prova schiacciante dei crimini perpetrati nei lager. Nel frattempo Bernstein ricevette da russi e americani decine di ore di girato raccolte in altri 11 campi, tra cui Auschwitz, Buchenwald e Dachau. A quel punto Bernstein propose al suo governo di farne un documentario di propaganda da proiettare in Germania come mezzo di rieducazione politica, nell’ambito del processo di denazificazione. Il produttore chiamò attorno a sé per aiutarlo a realizzare il progetto numerosi specialisti del film, tra cui il suo amico Alfred Hitchcock, a cui affidò il compito di supervisionare i materiali e di scrivere un testo di accompagnamento alle immagini. Hitchcock, come ricorderà anni dopo in alcune  interviste, rimaste profondamente sconvolto da quelle immagini così atroci da sembrare inverosimili. 

Uomini nei campi di concentramento

Proprio nello sforzo di rendere credibili un orrore inconcepibile, il regista inserì le scene girate nei campi insieme ad altre girate nei villaggi circostanti, per mostrare come l’inferno convivesse con la normalità della vita della popolazione tedesca. Suggerì a Bernstein di inserire anche le immagini che mostravano le autorità civili e gli abitanti delle cittadine vicine ai lager condotti tra i cumuli di cadaveri, mentre osservavano con i loro occhi inorriditi quello scempio e venivano costretti a seppellire in fosse comuni i corpi scheletriti, o mentre passavano tra i sopravvissuti, fantasmi vestiti di stracci, e tra montagne di scarpe, occhiali, giocattoli.

Ma il progetto non era destinato a vedere la sua realizzazione e venne presto abbandonato perché già nell’agosto 1945 i rapporti politici tra Regno Unito e Germania erano cambiati e il Ministero degli Esteri (non più quello dell'Informazione) decise di attenuare l’impatto che le immagini dei campi di concentramento avrebbero avuto sulla popolazione tedesca, preferendo percorrere la strada della riappacificazione e della collaborazione economico-politica.

Bambini nei campi

Alla volontà degli Alleati di informare sulle atrocità commesse dai nazisti si univa quella di costringere la popolazione civile tedesca a prendere coscienza della barbarie perpetrata dal regime di Hitler, rieducandola attraverso la visione obbligatoria dell’orrore. Diversi fotoreporter professionisti e famosi negli anni della guerra seguirono l’avanzamento delle forze alleate in Europa e scattarono immagini della liberazione dei campi di concentramento. Tra questi vi erano due donne: Lee Miller, musa e collega di Man Ray, reporter di guerra per Vogue che scattò scene terribili a Buchenwald e Dachau e Margaret Bourke-White, prima fotografa di guerra americana e unica fotografa straniera ad ottenere il permesso di fotografare Stalin. Per Life Magazine scattò alcune fotografie diventate poi celebri nel complesso di campi di Buchenwald.

Cari israeliani, come ha scritto David Grossman, nulla giustifica ciò a cui stiamo assistendo, neanche il 7 ottobre: "A Gaza è genocidio, mi si spezza il cuore ma adesso devo dirlo".