domenica 3 marzo 2019

L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti

Prima di morire improvvisamente, Guido Roberto Vitale, finanziere-mecenate, mi ha fatto un ultimo regalo. Ha convinto il direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini a ripubblicare il mio volume edito originariamente per Vitale & Co. Il titolo - "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" e il testo sono rimasti gli stessi, non è stata cambiata una virgola. Il titolo è stato scelto dopo numerosi tentativi andati a vuoto dallo stesso Vitale. Fa il verso, al contrario al volume di anni fa di Napoleone Colajanni: "Il capitalismo senza capitale".
Un cambiamento c'è. E' la dedica speciale che ho scritto, che parte così: "Guido Roberto Vitale era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso, fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Nei tempi "dell'uno vale uno", un extraterrestre".
Un anno di lavoro, con due supervisor, lo stesso Vitale e Francesco Giavazzi, formidabile discussant. Serbo il ricordo di un pranzo a tre, dove sono uscito un po' scorato dopo le critiche incisive ricevute sul testo in bozza. Avercene di opinioni franche che non fanno che migliorare l'elaborato.
Giavazzi, a lavoro finito, mi ha fatto i complimenti per il risultato raggiunto e ha deciso di scrivere la prefazione, che si chiude così: "Ricordino i nostri ottimi imprenditori il monito di Luigi Einaudi che il 6 agosto 1924 scriveva sul "Corriere della Sera": "Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, partiti politici pur aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita la voce dei combattenti. Soltanto i capitani d'industria tacciono".

Il capitolo più importante del volume è intitolato "Che fine ha fatto il capitalismo italiano?". Argomento a più non posso e concludo: "Da questa lunga analisi è emersa l’incapacità della grande impresa privata italiana a trovare la via del proprio sviluppo.  Ha cercato di arroccarsi attorno a Mediobanca, che l’ha aiutata. Forse troppo. «Ho dovuto fare le nozze con i fichi secchi», ha risposto Cuccia a Colajanni.

Esaurito il ruolo dell’IRI, è mancata clamorosamente la grande impresa privata, che è stata foriera, più volte nella storia italiana, di molte illusioni. L’industria italiana non ha mai fatto da sé. Due personaggi, ben prima di Cuccia, l’hanno tenuta in piedi: Bonaldo Stringher e Alberto Beneduce. Il capitalismo privato si è dimostrato inadatto alle sfide del suo tempo. Sono emersi i vecchi limiti: un capitalismo senza capitali, la scarsa attitudine a rischiare, la tentazione ad adagiarsi sull’investimento dello Stato, tirato per la giacca per sopperire a tutte le manchevolezze del Paese.

Invece di stimolare la classe politica a creare le condizioni favorevoli per fare impresa, a creare quel clima generale favorevole allo sviluppo, i grandi imprenditori hanno chiesto aiuti, sussidi, pensando al proprio “particulare”, spingendo l’Italia verso un modello di «capitalismo assistenziale».

In questo contesto, l’economia italiana ha assistito alla crescita del “quarto capitalismo”, imprese in grado di essere competitive sui mercati internazionali, così capaci di combinare al meglio i fattori di produzione da ricavare margini elevati sul fatturato. In tal modo, le esigenze di finanziamento sono limitate al capitale circolante netto, mentre gli investimenti vengono realizzati con il capitale proprio, indice di sostenibilità finanziaria. Quando la famiglia proprietaria dell’impresa riesce a uscire dal familismo e far valere i principi della professionalità e del merito è quasi imbattibile. I saldi positivi della bilancia commerciale parlano da soli. Becattini aveva visto giusto. Il futuro dell’Italia è nei distretti e nelle medie imprese, che non necessariamente devono diventare grandi. Se il nanismo del sistema produttivo italiano è un vincolo al rafforzamento della competitività internazionale, come hanno sostenuto Becattini e Coltorti, non esiste una dimensione ottimale di impresa. 

Rimane il fatto che il nostro capitalismo imprenditoriale è sì trainato dalle imprese internazionalizzate ma è privo di global companies. Questo modello, con le sue debolezze, che Aldo Bonomi ha definito capitalismo intermedio, conserva un vantaggio competitivo: è fondamentalmente espressione di «grandi imprese artigiane ipertecnologiche».

Che dire di altro? Spero di avervi incuriosito. Da martedì 5 marzo il mio volume "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" si può comprare in abbinamento col Sole 24 Ore (+9,90 euro). Da metà aprile il volume sarà disponibile anche nelle librerie. Buona lettura. Aspetto poi i vostri commenti. Grazie.

1 commento:

  1. Che nostalgia il corso di economia industriale con il Prof. Becattini a Firenze! Dati alla mano, dimostrò che il declino italiano era iniziato già negli anni 70. Chi ha seguito quel corso sicuramente ha acquisito gli anticorpi alle bufale anti Euro (che ancora nemmeno c'era)!

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