giovedì 19 gennaio 2012

Imprenditori senescenti minorenni

La forte crisi economica, sociale, di identità, che attraversa l’Italia non può non indurci a riflessioni sulla nostra classe imprenditoriale.

Gli imprenditori non sono tutti uguali, certo. Ci sono storie incredibili, di grande successo. Ne abbiamo parlato in passato. Da Luxottica – fantastica multinazionale fondata da Leonardo Del Vecchio, orfano dei Martinitt - ad Autogrill, a Campari, Recordati, Sol, Rana – vi invito a leggere il post Giovanni Rana, tortellini ed errori - e tante altre.

Ma in questa sede non vogliamo parlare dei singoli, intendiamo parlare della classe imprenditoriale nel suo complesso.

E’ opportuno in via preliminare distinguere. Ci sono imprese aperte alla concorrenza internazionale, le migliori e ci sono imprese che vivono di rendita – oligopoli, monopoli naturali, servizi pubblici, concessionari, imprese controllate dalle Regioni - più che di profitto. Spesso in Italia la pubblica opinione non comprende la differenza.

In economia la rendita è definibile come il reddito percepito in virtù della proprietà di una risorsa naturale scarsa o come la remunerazione eccedente il costo opportunità di un fattore produttivo. Essa è distinta dal profitto, che è invece pari alla differenza tra i ricavi e i costi dell'impresa.

Nel suo Una Repubblica fondata sulle rendite (Mondadori, 2006), l’economista Geminello Alvi, assistente di Paolo Baffi alla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea – scrive: “Per spiegare le ciclotimie dei malumori delle famiglie italiane giova mettere in serie i dati sulle rendite di questi ultimi due settenni...Fino al 1996 le rendite crescono. Poi caleranno, ma la crescita nervosa delle pensioni, e quella metodica dei fitti, le mantengono ancora adesso sopra il 30% del reddito disponibile delle famiglie. Ben sopra la quota dei salari”.

Nel suo ultimo Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), l’inviato di Repubblica negli Stati Uniti Federico Rampini ha scritto: “Visti da lontano, però, i nostri imprenditori, anche i più geniali, a volte assomigliano ai principi delle città-Stato del nostro rinascimento: sempre impegnati a difendere le bandiere cittadine, sempre intenti a guerreggiare fra loro, fino a quando non trovano rifugio sotto la protezione di qualche potenza straniera”.

Ho letto un punto di vista interessante di recente, dello storico Marco D’Eramo: “Come il Giappone, quando è scoppiata la crisi del 2007, anche l’Italia non si era ancora ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda. Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli investimenti in grandi opere, all’acculturazione dei giovani, al mercato del lavoro). Ma quel che è successo potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i favoritismi nei confronti del nostrro paese avevano mascherato durante la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell’Italia, e cioè l’assenza di una classe borghese: in Italia ci sono moltissimi ricchi, come si è visto l’altro ieri a Cortina, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d’oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt’al più calciatori. L’assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote – sembra un’ovvietà – nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».

Ecco, il punto è proprio l’assenza di una classe borghese. Ci sono i ricchi, ma non fanno classe dirigente.

Torna in mente il giudizio del grande banchiere Raffaele Mattioli, mitico amministratore delegato e poi Presidente della Banca Commerciale Italiana (dal 1933 al 1972), il quale nel criticare il credito agevolato definì (nel 1962) gli imprenditori dei “senescenti minorenni”.

Lo storico Sandro Gerbi – nel suo intrigante e documentato Mattioli e Cuccia. Due banchieri del Novecento (Einaudi, 2011) scrive: “La sarcastica battuta del ’62 sulla scarsa lungimiranza di molti industriali nostrani era in linea con quanto Mattioli aveva spesso lamentato, e ancora lamenterà, nelle sue celebri relazioni annuali agli azionisti della Comit. Ad esempio, in quella relativa all’esercizio 1958 aveva parlato delle <trepide procrastinazioni di non pochi imprenditori cui non abbiamo certo lesinato il nostro appoggio>. E l’anno successivo: <il mancato esercizio del credito può essere pericoloso, per una banca, che l’abuso del credito stesso>.

Nella relazione del 1965 Mattioli definì gli imprenditori <i malcerti operatori di oggi e gli auspicati promoters di domani>. Purtroppo il suo scetticismo ebbe la meglio in occasione degli espropri a seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica: gli industriali furono incapaci di investire in modo proficuo i miliardi piovuti loro addosso attraverso gli indennizzi statali.

All’indomani delle forzate dimissioni di Mattioli dalla Comit, il Governatore di allora di Banca d’Italia, Guido Carli , il 30 aprile 1972, in un articolo per L’Espresso con lo pseudonimo di “Bancor”, scrisse: “Raffaele Mattioli li ha giudicati (gli industriali italiani, ndr) nella maggior parte dei casi impari al compito gravoso che avrebbero dovuto assolvere in un paese così complesso com’è il nostro: impari per cultura, per fantasia e per coraggio. Li ha quasi sempre aiutati, ma li ha quasi sempre guardati con sospetto”.

John Maynard Keynes
Faccio mio il giudizio di Guido Carli. Ancora oggi la classe imprenditoriale italiana ha una mentalità arretrata, scarsa audacia – da qui la definizione di Mattioli senescenti minorenni – tendenza ad approfittare dell’assistenza dello Stato.

6 commenti:

  1. Condivido in pieno, come nn si potrebbe...la cosa che mi da più fastidio di molti imprenditori, soprattutto locali è l'utilizzo inappropriato della cassa integrazione e di altri strumenti di previdenza..sono estremamente costosi per imprese e stato e tolgono fondi ingenti che si potrebbero utilizzare per investire in attività e ricerca....

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  2. Eh beh, mai come ora Italia divisa in due. Alex

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  3. E' vero, ci sono molti imprenditori che tendono ad approfittare dell' assistenza statale (anche se a questo proposito farei una riflessione onesta e critica anche sui singoli cittadini). Ce ne sono anche molti altri però, che di certo sono più piccoli e meno conosciuti dei "soliti noti", che hanno a cuore sul serio il futuro delle loro persone, che hanno il fegato di investire ANCORA in Italia e anche in ricerca, perchè credono fermamente che "il rating reale" del nostro paese non sia quello che ci dicono i giornali..!
    Forse sono di parte perchè appartengo a quella categoria, ma ce ne sono più di quanto si creda. Il problema è che i fari sono sempre puntati su chi "fa notizia", non su chi agisce a fari spenti.

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  4. da piccolo imprenditore mi dissocio un po' da questa opinione unilaterale e un po' esogena dalle vere problematiche di gestione..
    mi pare banalizzante e semplicistico impuatare agli imprenditori poco coraggio e poca "partecipazione civile" innanzitutto ci vuole un contesto agile,( ..legislativamente) favorevole ( in termini di riconoscimento e gratificazione)v, un sistema del credito coraggioso e moderno..e un sistema della competizione equilibrato e paritario... un pacchetto di controlli serio e mirato non isterico e pregiudiziale ; certo confermo che siamo "depressi", demotivati scoraggiati e fare impresa oggi ( e riuscire anche solo a galleggiare) è un fatto, almeno in Italia, sicuramente eroico!!
    ciao claudia

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  5. Oppure agli imprenditori italiani vengono date delle Public Utilities come ai Benetton. Da quando hanno la rendita certa di Autostrade sono stati surclassati dalla concorrenza di Zara, H&M, Gap.
    Matteo V.

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    1. rispondo con colpevole ritardo.
      ci sono due punti da analizzare , ovvero "essere imprenditore" e "lo stato in cui si agisce"
      1) io sono un imprenditore in quanto tale cerco di "farcela" da solo, senza inseguire facili aiuti statali( che nel momento del bisogno sicuramente non ci sono o costerebbe troppo), ma contando sul mio lavoro e su quello dei miei colleghi( nota non dipendenti, non lavoratori); successo e sacrifici per tutti! non ho un auto di lusso, non ho la villa al mare, mai avuto un giorno di sciopero in 29 anni, sono solo un imprenditore!
      2) ci sono nazioni , come gli USA, in cui si può scaricare TUTTO, quindi un imprenditore come il sottoscritto è incentivato( questo si che è un buono) a finanziare la ricerca; altre nazioni invece, come ahimè la nostra, prediligono la BUROCRAZIA( tonnellate di carta da compilare per collaborare-finanziare qualsiasi ente di ricerca) alla MERITOCRAZIA( dove sono gli insegnati- benny escluso ovvio- che insegnano, trasmettono la sete di sapere, la voglia ai propri studenti?)
      forse si potrebbero raggiungere due risultati, seguendo l'esempio USA, ovvero migliori centri di ricerca- quindi più sviluppo- e meno evasione fiscale...

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