lunedì 13 aprile 2020

Un Paese senza

L'Italia arriva sempre in ritardo. Quando c'è un casino - e il coronavirus lo è di bestia - arriviamo già col fiato sul collo, impreparati. Senza un piano B, senza contromisure, senza un contingency plan. Basta che emerga un problema, e i nodi strutturali della nostra arretratezza, vengono al pettine.

Le istituzioni non sanno come muoversi, il diritto - della serie abbiamo una Costituzione bellissima, dove i poteri sono tutti chiari tra Regioni e Stato centrale - impasta le decisioni, i sindaci litigano con la Protezione Civile, i presidenti delle Regioni vanno ognuno per loro conto.

Un Paese provvisorio, diceva giustamente Edmondo Berselli (quanto ci manchi!).

Qualche giorno fa è morto Alberto Arbasino, intellettuale arguto, coniatore dell'immagine della "casalinga di Voghera". Andate su Mondo operaio a guardare il dibattito in salotto tra lui, Ronchey, Guttuso e Bettino Craxi sul futuro della sinistra italiana. Che livelli rispetto a oggi.

Nel suo immenso "Un Paese senza", nel 1980 Arbasino scriveva in apertura:

Un Paese senza memoria
Un Paese senza storia
Un Paese senza passato
Un Paese senza esperienza
Un Paese senza grandezza
Un Paese senza dignità
Un Paese senza realtà
Un Paese senza motivazioni
Un Paese programmi
Un Paese senza progetti
Un Paese senza testa
Un Paese senza gambe
Un Paese senza conoscenze
Un Paese senza senso
Un Paese senza sapere
Un Paese senza sapersi vedere
Un Paese senza guardarsi
Un Paese senza capirsi
Un Paese senza avvenire?

Arbasino proseguiva: "Un Paese onirico,senza nessi con la realtà, nè rapporti con l'esistente, voltando le spalle a se stesso, fissando energie soprattutto in sperperi ideologici e/o desideranti e/o bovaristici (finiremo come il Venezuela o l'Argentiva, tuonava incazzato Marcello De Cecco, ndr), senza volersi rendere conto che anche troppo spesso "tutto questo è già accaduto"...con varianti minime: la violenza, la ferocia, la volubilità, l'irresponsabilità, l'intolleranza, l'arroganza, il discorso teorico, il dibattito astratto,...la superficialità, la leggerezza, la criminalità, la volgarità, la villania, l'incompetenza, la ladreria, il banditismo, il teppismo, ...il cinismo, il melodramma, l'opportunismo, il trasformismo, il machiavellismo, il birignao, l'imbroglio, la cosiddetta arte di arrangiarsi, il presunto dolce far niente, l'incoerenza dei conformismi,...i conflitti corporativi, la rivendicazione di privilegi a spese d'altri, la smania di teatralità e di processioni, l'ingordigia di apparati circensi, lo snobismo di massa, l'incertezza e vaghezza del diritto e della giustizia, la smorfiosità e noiosità del pedantismo accademico, il latinorum dell'Azzecca-garbugli,..i sicari sulla porta, la bande, le minacce, le vendette, gli agguati, i rapimenti, i ricatti,...le speculazioni insensate, gli investimenti rovinosi, ...il provincialismo autarchico".

Un'analisi perfetta per il nostro disgraziato paese, dall'umanità sconvolgente.


Pierluigi Ciocca nel suo "Ricchi per sempre?" chiosa così:
"Carlo Cipolla ha chiarito nella retrospettiva di secoli il punto chiave: il benessere materiale degli italiani non è mai definitivamente acquisito. Il rischio dell'arresto, della perdita delle posizioni con fatica conquistate, è sempre latente.
Come la storia ci insegna, non possiamo sederci sugli allori...
Va respinta la provinciale presunzione di essere ormai ricchi per sempre.
La via obbligata per le imprese e per coloro che ci lavorano è la ricerca incessante di qualità imprenditoriale e professionale, aggiunta di valore agli inputs importati, capacità di esportare, di offrire "cose nuove che piacciano al mondo".

Nella dedica che Ciocca mi ha donato, si legge: "Al dott. Piccone, temo che il ? (Ricchi per sempre?, ndr) cadrà e che la risposta sia "no"?

lunedì 23 marzo 2020

Omaggio a Gianni Mura, maestro di giornalismo

Nel mezzo di questa maledetta pandemia da Coronavirus, ci ha lasciati Gianni Mura, 74 anni, un giornalista che ho amato tanto quanto il suo maestro Gianni Brera.
Le sue rubriche su Repubblica, i suoi racconti sul calcio e sul ciclismo mi hanno accompagnato fin da ragazzo. Infatti, dopo alcune esitazioni, sono andato alla ricerca nel mio archivio cartaceo della cartelletta di carta con scritto #GianniMura.
L'ho aperta, e mi è aperto un mondo (e il bocchettone delle lacrime).

20 ottobre 1991, Sette giorni di cattivi pensieri, la sua rubrica del sabato su Repubblica: "Un briciolo di speranza viene dalla lettura dell'Europeo. Pasquale Bruno, difensore del Torino (ve lo ricordate? Un macellaio spaccagambe, ndr), a una domanda sul dopo-calcio, risponde: "Tante idee mi frullano in testa: allestire una palestra, dedicarmi alle assicurazioni. Oppure fare il giornalista a tempo pieno. Collaboro con la Gazzetta del Piemonte, il quotidiano di Borsano, presidente del Torino e presto prenderò la tessera di pubblicista. Un giorno darò anch'io i voti ai giocatori. E ai tipi tosti come me non rifilerò il solito quattro o cinque ma un bel dieci". Bravo Bruno: 3. 
E Mura, che dedicava la giornata del venerdì alle chicche sui giornali, prosegue: "Fra le altre cose, Bruno ci tiene a chiarire la sua fama di picchiatore: "Io non posso rinunciare alla mia cattiveria. Non posso scendere in campo senza la mia grinta, il mio modo di intendere il calcio, uno sport per uomini veri e non per signorine". Questa non è nuova, chiosa Mura, per poi segnalare che Bruno ha provato grande soddisfazione nel vedersi nella classifica di Cuore (il giornale satirico diretto da Michele Serra) sulle cose per cui vale la pena vivere: "Pasquale Bruno in nazionale" ha 185 voti, più di Paolo Conte.

Il 4 novembre 1990 Mura attacca il pezzo citando Giorgio Bocca: "E noi coglioni, i paguri bernardi, continuiamo a prenderli sul serio, a intervistarli, questi zombi". Ho aperto con la chiusa di un pezzo di Giorgio Bocca (8) su Gava (0,5), che da solo valeva tutto il Venerdì. Bocca si occupa di cose importanti per la vita, o per la sopravvivenza dell'Italia. Roba più seria dell'erba di San Siro o della moviola. Mi sembra però che la sua frase finale vada bene per svariati settori, e mi sembra che il linguaggio si stia esasperando (e non erano ancora comparsi i leoni da tastiera, ndr), incupendo, come intriso dal dubbio che ormai sia tutto inutile".

Pesco ancora dal mio archivio un esilerante "Sette giorni di cattivi pensieri", datato genericamente "1989", dal titolo "Vietato ai minori".
Uno spasso. cito testualmente:

"Il contenuto di questo pezzo può turbare la sensibilità di qualcuno. Se ne consiglia la visione ai soli lettori adulti. Si parte da due brevi notizie uscite su "Gazzetta" e "Corriere" di lunedì. Il succo è questo: c'è una signora milanese di Arona (sembra l'inizio di un limerick) che va a Roma a vedere il Milan. E alloggia nell'albergo del Milan. Con le ci sono le figlie (27 e 19 anni). In minigonna. Nella hall. L'occhio di Arrigo Sacchi (allora allenatore del Milan, per chi non lo sapesse, ndr) registra allarmato. "Possono turbare i giocatori". Ne parla con Adriano Galliani: faccia qualcosa, inviti queste donne a non frequentare i luoghi. In un albergo sopra via Veneto, si presume ci siano dozzine di donne e anche qualche minigonna. Invece di rispondere "vada a parlarci lei, mister", Galliani prova a delegare il supertifoso parmigiano Pietro Bernazzoli detto Gheddafi, ma alla fine l'ingrato compito lo prende Silvano Ramaccioni. Per quanto possa essere diplomatico, resta un discorsetto d'ostracismo. La signora piange (sbagliato), s'offende (giusto)...Affascinanti queste piccole storie. Se il Milan è turbato da una minigonna, è meglio che il prossimo ritiro lo faccia in mezzo ai chador. E se Arrigo Sacchi (voto 1) fa questo genere di pubblicità ai tecnici dell'ultima ondata, viva Oronzo Pugliese".

Gianni Brera e Gianni Mura
Chiudo con due battute sul ciclismo. Un giorno Mura chiese a Marco Pantani: "Perchè vai così forte in salita? E Pantadattilo, soprannominato così proprio da lui, rispose: "Per abbreviare la mia agonia". Che fa il paio con "saranno poco romantiche le gambe, ma nel ciclismo contano".
Che formidabili racconti ci hai regalato, caro Gianni, dal Tour de France!

Caro Gianni Mura, come chiudevi i tuoi obituary, ti sia lieve la terra. Non ti dimenticherò.

venerdì 6 marzo 2020

Mio nonno Carlo Tagliabue entra nel Giardino dei Giusti, una storia da raccontare

Carlo Tagliabue
Oggi è il giorno dei Giusti. Si festeggiano i Giusti, coloro che hanno aiutato gli ebrei durante la loro vita. Secondo Gariwo, i Giusti, in ogni parte del mondo, vengono scelti dopo attente ricerche storiche che dimostrino l'opera di salvataggio di vite umane in tutti i genocidi e l'aver difeso la dignità umana durante i totalitarismi.

La scelta di destinare uno spazio ai Giusti del Monte Stella (la montagnetta di San Siro, così la chiamano i milanesi, costruita con le macerie della seconda guerra mondiale) nel Giardino Virtuale discende dalla impossibilità di dedicare un albero a tutti i Giusti di cui pervengono le segnalazioni, sia per mancanza di spazio, sia per la tematica nuova e diversa che ogni anno viene affrontata.

Con l’inserimento nel Giardino Virtuale l’Associazione ha voluto sopperire a questo limite oggettivo, per rendere omaggio a quanti hanno onorato la propria qualità di esseri umani in nome di tutti gli uomini di coscienza e buona volontà.

I nuovi Giusti scelti per il 2020 saranno onorati in occasione della prossima Giornata dei Giusti - 6 marzo.

Mio nonno, Carlo Tagliabue (1888-1961), è uno di questi. Sarebbe stato premiato (il premio sarebbe stato ritirato da mia madre Giancarla, primogenita) il prossimo 10 marzo a Palazzo Marino se questo maledetto Coronavirus non avesse bloccato ogni tipo di manifestazione. Dal 7 dicembre 2017 la Giornata dei Giusti è solennità civile in Italia: ogni anno il 6 marzo celebriamo l’esempio dei Giusti del passato e del presente per diffondere i valori della responsabilità, della tolleranza, della solidarietà.

«A maggior ragione in un momento complesso come quello attuale – commenta il presidente del Consiglio comunale di Milano Lamberto Bertolé -, l’esempio di chi ha dedicato la propria vita agli ideali di giustizia, non violenza e amore verso ciò che siamo e il mondo nel quale viviamo deve guidarci nelle scelte che compiamo ogni giorno. Solidarietà e rispetto, ci ricordano i Giusti, sono fondamentali per affrontare il presente e pensare al futuro».

Carlo Tagliabue è stato per anni (dal 1923 al 1946, dopo aver scalato con merito i gradi della carriera amministrativa) direttore della Pia Casa degli Incurabili ("e degli schifosi", secondo la dicitura al momento della fondazione) di Abbiategrasso - in provincia di Milano - oggi facente parte dell'Azienda dei Servizi alla Persona Golgi Redaelli (Camillo Golgi, 1843-1923è il primo scienziato italiano ad aver preso il Premio Nobel nel 1906).
Chi lo ha conosciuto, ne ha sempre denotato forti tratti di umanità. Credeva nel ruolo del lavoro, che conferisce dignità alle persone. Una delle sue massime era: "Se uno non si sente utile, si lascia morire". Durante la sua gestione, diede impulso a una serie di attività, dalla produzione di stuzzicadenti all'innovativa piscicoltura, che prevedeva di cibare le carpe con gli insetti presenti nelle risaie, e cucinare poi le carpe per gli ospiti della Pia Casa, quando la penuria di cibo durante la guerra di faceva sentire. Così facendo, la Pia Casa raggiunse la totale indipendenza economica (Carlo era ragioniere e guardava sempre ai numeri, io faccio altrettanto, saraà questione di dna!).

Pia Casa degli Incurabili
Carlo Tagliabue, nonostante la sua iniziale adesione al fascismo, nell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, quando vide gli orribili delitti del nazifascismo, divenne un ribelle e sfidò la polizia con suo grave rischio personale, nascondendo nel reparto femminile della struttura una trentina di donne ebree, che sottrasse così alla persecuzione nazifascista. Per confonderle con le pazienti, diede loro la divisa degli ospiti della Pia Casa; le nascose, e le nutrì, vigilando attentamente sulla loro incolumità. 

Solo lui, il cappellano don Filippo Carminati, un paio di suore, e il medico conoscevano il rifugio delle donne ebree alla Pia Casa e ogni tanto andavano a trovarle per riferire loro le notizie che venivano trasmesse dalle radio straniere, cercando d'infondere così nei loro animi fiducia e speranza.
Secondo le testimonianze raccolte, era a conoscenza della cosa anche don Ambrogio Palestra (che in seguito testimoniò la vicenda), zio dello storico di Abbiategrasso Mario Comincini.
Io non ho mai conosciuto mio nonno, se non dai racconti di mia madre e mia zia Milly, che lo hanno descritto come integerrimo e con una dedizione totale al lavoro. Alla sera, dopo cena, tornava alla Pia Casa per completare le cose non ancora realizzate. Spesso le figlie lo andavano a chiamare, sospinte dalla madre, che non lo vedeva mai arrivare.
Sorrido, a distanza di anni perchè mi sovvien quello che sosteneva Carlo Azeglio Ciampi: "La scrivania alla sera deve essere lasciata vuota", così che il giorno dopo si possa ripartire di gran lena.
Caro nonno Carlo, sono proud of you; possiamo dire che Carlo Azeglio abbia imparato da te. 
Ti sia lieve la terra, caro Carlo.

P.S.: oggi alle 14.30 sulla pagina facebook di Gariwo (la Foresta dei Giusti),
Qui l'articolo su Corriere Milano 
Qui la pagina dedicata a Carlo Tagliabue dall'Istituto Geriatrico Golgi
P.S/2: un particolare ringraziamento va a Marco Bascapè, dirigente del Servizio Archivio e Beni Culturali, ​ASP Golgi-Redaelli, e al suo team, senza i quali la storia di Carlo Tagliabue non sarebbe emersa.

giovedì 6 febbraio 2020

Guido Roberto Vitale, finanziere ante litteram

Guido Roberto Vitale

Quando l’Italia del maestro Manzi leggeva la Gazzetta dello sport per familiarizzare con la lingua italiana, Guido Roberto Vitale leggeva il Financial Times. Laureato brillantemente in economia – senza lode perchè il barone di turno scoprì di non essere citato nella tesi sulle operazioni di mercato aperto della Federal Reserve – all’Università di Torino, Vitale partì per Londra e New York (specializzato alla Columbia university), per poi lavorare a Mediobanca. Possiamo dire che abbia portato il merchant banking in Italia, attraverso Euromobiliare, da lui fondata nel 1973.

Guido Roberto Vitale, scomparso giusto un anno fa, era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso (si dimise appena Michele Sindona comprò la Centrale Finanziaria, nonostante il finanziere siciliano gli offrì un assegno in bianco), fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente, la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Nei tempi dell’«uno vale uno», un extraterrestre. Credeva nei giovani, veramente, li spronava in continuazione. Ne serbo testimonianza diretta. Un vero talent scout. Ha allevato da maestro di vita una generazione di persone, alle quali raccomandava il rispetto rigoroso delle regole, degli investitori, del mercato.

L’italiano ama gli arabeschi, Vitale preferiva la linea retta della franchezza. Le idee dovevano emergere, così come la verità, senza mezze misure. Un giorno, vedendomi indeciso se pubblicare o no un testo forse troppo incisivo, mi disse: «Si farà qualche nemico in più, ma è il prezzo che si paga per essere liberi e intellettualmente onesti».
Luigi Einaudi allo scrittoio
Le sue riflessioni, mai banali, erano concreti inviti a lavorare per cambiare le cose. Quando eravamo in dirittura d’arrivo per il volume L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”, una mattina di buon’ora mi chiamò – lui aveva già letto tutti i quotidiani, amava in modo viscerale la carta stampata – per dirmi: «Dottor Piccone, la citazione di Einaudi sul “silenzio degli industriali” vale il libro (ripubblicò anni fa Le lezioni di politica sociale). Adesso chiamo Claudio Cerasa del “Foglio” per chiedergli di pubblicare integralmente quel testo». Gli risposi: «Dottor Vitale, ho appena riletto l’intervento di Einaudi in occasione del suo insediamento al Quirinale nel 1948». E gli citai il passaggio chiave, dove l’economista liberale invitava a puntare, con il consueto stile asciutto e puntuale, sull’«eguaglianza delle condizioni di partenza». Non potevo che rallegrarlo, vista la sua netta contrarietà alla «nefasta preferenza dell’egualitarismo che malauguratamente permea la nostra società».

Quando Vitale fondò la Vitale e Associati (2001), decise di pubblicare ogni due anni un volume da regalare ai clienti, con l’obiettivo di far dibattere le classi dirigenti, secondo lui tra i maggiori responsabili del declino italiano. La cultura, per lui, aveva un valore imprescindibile. E doveva legarsi a un piano d’azione successivo. Sono diversi i libri pubblicati negli anni. Uno edito nel 2008 ricordava il pensiero economico di Luigi Sturzo, formidabile intellettuale e politico, tra i primi a combattere contro lo statalismo: «Di bestie enormi della democrazia ne ho individuate proprio tre: lo statalismo – la partitocrazia – l’abuso di denaro pubblico; il primo va contro la libertà, la seconda contro l’eguaglianza, il terzo contro la giustizia».

Nel volume del 2015 di Sergio Romano Breve storia del debito da Bismarck a Merkel, nell’introduzione di Fabrizio Saccomanni si deprecava l’atteggiamento schizofrenico di far crescere il deficit pubblico con le politiche keynesiane (“all’italiana”, che come diceva Marcello De Cecco favoriscono i soliti noti), e al contempo dichiarare di voler ridurre il debito. Se il debito pubblico è la somma dei deficit del passato, non si capisce come possa essere ridotto aumentando la spesa pubblica corrente. Non a caso il compianto civil servant in nota vergava così: «Il nesso tra debito e deficit era ben chiaro al signor Micawber, personaggio di David Copperfield di Dickens, il quale, imprigionato dai debiti nel carcere di Marshalsea a Londra, predicava una sua filosofia economico-morale: ».

Nel novembre 2017 Vitale decise di affidarmi il compito di scrivere un volume sul capitalismo italiano. Ogni settimana ci vedevamo per confrontarci e scrivere l’indice insieme. Non ha mai voluto sindacare il mio pensiero. Ma nei numerosi nostri incontri, il confronto era serrato. C’era sempre da imparare. Senza contare che Vitale mi stimolò con la presenza di un discussant di pregio, Francesco Giavazzi, che poi ha scritto la prefazione al volume che, con una felice intuizione di Vitale stesso, uscì col titolo L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti.

Un giorno Vitale mi invita a pranzo e, appena seduto, mi fissa negli occhi e mi dice: «Dottor Piccone, ho letto con attenzione l’ultimo capitolo e non mi sono piaciute le ultime righe». Preoccupato, prendo le bozze e chiedo spiegazioni. Leggiamo insieme un passaggio di Tommaso Padoa-Schioppa che invitava tutte le classi sociali ad impegnarsi per invertire le aspettative, per uscire dall’invidia, dal rancore e dalla nostalgia. TPS scriveva sul Corriere della Sera: «Si ritornerà alla crescita solo se all’ansia della rincorsa, che ci ha sospinto per anni, subentrerà, quale spirito animatore, una ambizione nazionale. Desiderio di eccellere come Paese, fiducia nelle sue forze, sguardo lungo». Vitale si concentra sul termine desiderio e mi dà una lezione di vita: «Piccone, il desiderio è insufficiente, non basta. Se gli americani avessero desiderato andare sulla Luna, non ci sarebbero andati. Occorre un impegno deciso, il commitment, a cui va affiancata la responsabilità delle classi dirigenti che devono scegliere le persone giuste per gli obiettivi fissati, stendere un budget coerente e trovare le risorse».

Alessandro Galante Garrone definiva quelli che considerava i suoi maestri «i miei maggiori». Vitale è stato sicuramente uno di essi. Milano e l’Italia perdono con lui un ulteriore punto di riferimento. Dopo Umberto Eco, Umberto Veronesi, Inge Feltrinelli e altri nostri «maggiori», ci troviamo ancora più orfani senza Vitale. Quando se ne vanno i migliori, siamo indotti a pensare che non ci siano eredi all’altezza. Allora impegniamoci con la passione civile dell’Italia migliore, dell’«altra Italia», quella laica sognata da Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Carlo Azeglio Ciampi e Guido Roberto Vitale, che nell’ultima telefonata mi disse: «Lasciamo lavorare le intelligenze».

P. S.: Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio e su Econopoly (blog del Sole 24 ore) in data 6 febbraio 2020.

lunedì 27 gennaio 2020

L'Emilia Romagna respinge Salvini e azzera i Cinque Stelle

Gli sconfitti Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni
La vittoria del Partito Democratico alle elezioni regionali - in verità ha vinto il candidato Stefano Bonaccini, vero front-men, tosto come pochi - necessità di risposte.

Come poteva una delle regioni più ricche d'Europa, con la sanità tra le migliori al modo, con gli asili nido invidiati dovunque, bocciare l'amministrazione uscente - secondo i principali parametri - capace e seria, per dare il potere a una compagine che fa dell'odio e del disprezzo per l'avversario una caratteristica distintiva?

Avrebbero potuto contare due variabili, la paura - fomentata - dell'immigrazione e la sicurezza, due sfere di competenze che non spettano a coloro che governano le regioni. Come ha scritto Piero Ignazi su Repubblica, "proprio perché sazia e appagata, questa regione è, non da ora, alla ricerca di qualcosa di diverso, del brivido della novità, e persino dell'indicibile".

Sarebbe stato comunque inspiegabile come possa un'area economica che basa il proprio tenore di vita sull'apertura al commercio, sulle esportazioni fitte in tutto il mondo - dalle pesche alle apparecchiature medicali, dagli attrezzi da palestra di Technogym ai motori, dalla Ferrari ai tortellini - votare a favore di forze politiche che invocano il nazionalismo, "prima gli italiani", il "sovranismo" becero che non porta da nessuna parte.

Luigi Einaudi sul sovranismo ha scritto pagine bellissime. Nel 1945 scrisse: «lo Stato sovrano che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico e falso. Anche le guerre diventeranno più rare, finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo dello Stato sovrano».

Gli italiani ogni tanto, si fanno affascinare da persone di modesta qualità, che li portano nell'abisso. Così, tanto per dire, dopo la dichiarazione di guerra di Benito Mussolini a Francia e Germania del 10 giugno 1940, furono in molti a dover partire con le scarpe di cartone per la guerra. E quanti furono gli alpini a tornare dalla Russia? Ce lo dovremmo ricordare, ma quanti hanno letto "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern?

giovedì 9 gennaio 2020

La storia di Adriano Olivetti dovrebbe essere meno edulcorata


Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi
L'apertura degli archivi di Mediobanca - intitolati a Vincenzo Maranghi - consente agli storici di tornare su alcune vicende economiche di grande rilievo. Una di queste è legata al salvataggio dell'Olivetti, negli anni Sessanta.
Fondata da Camillo Olivetti all'inizio del '900, l'Olivetti ebbe il suo periodo di splendore con Adriano Olivetti negli anni Cinquanta.
Come è noto Adriano Olivetti morì in treno verso Losanna - probabilmente per chiedere ulteriori finanziamenti alle banche svizzere - il 27 febbraio 1960.

Come ha scritto il presidente di Mediobanca Renato Pagliaro, la documentazione è davvero eccezionale: "Tutte le riunioni con la clientela venivano verbalizzate e fatte circolare...da notare che sempre il documento di lavoro già conteneva i punti chiave delle questioni affrontate, concrete ipotesi di soluzione, i pro e i contro, le impressioni e spesso un giudizio sugli interlocutori. Questo era reso possibile da un approccio che rimane piuttosto unico in un'Italia generalmente timorosa e spesso ipocrita...Lo stile della casa era,e resta, quello di rappresentare alla clientela, senza remore, il nostro schietto punto di vista professionale, spesso non aderente alle attese della stessa, cui di contro chiediamo una dialettica altrettanto sincera".

Adriano Olivetti
Il punto decisivo era che Adriano Olivetti aveva solo il 10% delle azioni e quindi era sotto costante condizionamento degli altri membri della famiglia, I quali avevano messo in pegno tutte le azioni presso le grandi banche svizzere. "Eravamo in presenza di un'insufficienza del capitale azionario della Olivetti e una grande dispersione dell'azionariato nel nucleo familiare della famiglia e degli eredi Olivetti" (Giorgio La Malfa, cit.).
L'ingresso nel settore elettronico (avvenuto nel 1951) e l'acquisto disgraziato dell'Underwood (che costerà in perdite negli anni successive circa 100 miliardi di lire dell'epoca, una cifra colossale) posero l'Olivetti in serissima difficoltà
Nel 1963 la situazione precipita e diventa chiaro come l'Olivetti da sola non ce la può fare. Roberto Olivetti convince i familiari ad affidare a Bruno Visentini, allora vicepresidente dell'IRI, la questione. Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Comit, suggerisce di affidare a Mediobanca (governata allora da Enrico Cuccia) lo studio della situazione e delle possibili soluzioni.
Mediobanca procede a un accertamento scrupoloso delle condizioni dell'Olivetti (tragiche)

In un verbale dell'Archivio si legge di un colloquio in Banca dell'8 febbraio 1964. Roberto Olivetti fa presente la sua preoccupazione per la fissazione di un prezzo troppo basso per l'aumento di capitale.  "Dichiara che i familiari sembrano non rendersi conto di tutto ciò". E qui viene il bello. La franchezza, la verità, la forza delle argomentazioni, della logica, dei numeri. Prende la parola Enrico Cuccia che dice: "Non è Mediobanca che è andata a cercare l'Olivetti ma viceversa e che se I signori Olivetti intendono fare a meno di Mediobanca, la cosa ci lascia completamente indifferenti".
#Chapeau

sabato 16 novembre 2019

Omaggio a Mario Cotelli, un grande uomo di sport

Mario Cotelli
Alla fine dei febbrili anni Ottanta l'Italia tutta rimase affascinata dalle gesta sugli sci di Alberto Tomba, atleta formidabile, che da San Lazzaro di Savena in provincia di Bologna - non proprio una località montana - riuscì a conquistare vittorie in slalom speciale e gigante, fino a vincere la Coppa del Mondo.
Ricordo che erano in molti, compreso me, a smettere di sciare e guardare la seconda manche, dove Alberto spesso compiva miracolosi recuperi. I commentatori erano - su Telemontecarlo - Bruno Gattai - avvocato di fama, e Mario Cotelli. Erano racconti concitati ed emozionanti. La lucidità di Cotelli mi affascinò fin da subito e volli approfondire la sua figura. Non vedevo l'ora di leggere i suoi commenti sul Corriere della Sera.
Ricordo come fosse ieri il soprannome "Alberto a quattro ruote motrici", che Cotelli diede a Tomba, capace con l'incredibile forza muscolare di frantumare ogni record.
Essendo nato nel 1970 non ero a conoscenza delle imprese di Cotelli, giovanissimo (si fece crescere i baffi - come più tardi fece lo "zio" Bergomi - per dimostrare una maggiore età) direttore tecnico della "Valanga Azzurra" di Gustavo Thoeni, Piero Gros e Paolo De Chiesa dal 1969 al 1978.

Proprio qualche giorno fa, purtroppo, Mario Cotelli si è spento per sempre. Nato a Tirano in Valtellina nel 1943, ha fin da subito grande capacità di guida, di leadership. De Chiesa racconta: "Lo ascoltavi, magari non eri d'accordo, ma alla fine facevi quello che diceva lui". Memorabili le litigate con i suoi uomini. I regolamenti di conti verbali. Ma Cotelli era un eccellente gestore di campioni.
Nei suoi nove anni da d.t. l'Italia conquistò 5 Coppe del Mondo assolute (4 con Thoeni, 1 con Gros), e 12 medaglie tra Mondiali e Giochi, dominando le discipline tecniche e lanciando anche discesisti come Herbert Plank.
Leonardo David
Con l'irrompere di Ingemar Stenmark a metà degli anni Settanta, Cotelli capì che la pacchia era finita. Lo svedese sarebbe diventato imbattibile. Forse ce l'avrebbe fatta Leonardo David, grande promessa dello sci italiano, campione sfortunato, ridotto in stato vegetativo in un letto tra Gressoney e Innsbruck, dopo una brutta caduta nelle prove di discesa libera di Cortina (poi fece l'ultima gara a Lake Placid il 3 marzo 1979, dove all'arrivo crollò tra le braccia di Piero Gros per non risvegliarsi più).
David avrebbe potuto essere il trait d'union tra la Valanga Azzurra e Tomba. Mario Cotelli citava spesso il povero Leo. E gli veniva un groppo in gola.

E' riuscito, vincendo moltissimo, a trasformare gli slalom in un fenomeno televisivo di massa. Lo sci è diventato con lui un argomento di discussione, da bar. E ancora negli anni Novanta, con Tomba sugli scudi, sentire le sue telecronache era come ascoltare la coppia Rino Tommasi e Gianni Clerici.
Una volta lasciata la Valanga Azzurra, Cotelli ha continuato a dare molto allo sport italiano, in qualità di commentatore, giornalista, organizzatore, manager, pioniere del marketing sportivo.

Caro Mario Cotelli, la terra ti sia lieve.

martedì 5 novembre 2019

Parole in libertà: da Falcone e Borsellino morti in una disgrazia, a Napolitano "boia", a bambino di 10 anni "negro di merda"

Nel nostro beneamato Paese stiamo assistendo a un degrado linguistico che evoca un odio, un imbruttimento, una rabbia collettiva.
Solo nella giornata di oggi ho letto sui giornali nazionali che:

1. Al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) la figura di riferimento per le 160 crisi industriali è Giorgio Sorial, un ex deputato M5S di 36 anni non rieletto ma noto per aver definite "boia" il presidente Giorgio Napolitano;
2. Antonello Nicosia, portaborse, componente del comitato nazionale dei radicali italiani, mentre in pubblico si batteva contro i mafiosi, di fatto era legato al boss Matteo Messina Denaro. In una intercettazione dice: "Dobbiamo cambiare nome all'aeroporto di Palermo. Perchè deve essere intitolato ai due magistrati (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ndr). Non è detto siano vittime".
Tale dichiarazione fa pandan con quella della madre del mafioso pentito Giovanni Brusca, che riferendosi alla strage di Capaci, disse: "Si ricorda, quando ci fu la disgrazia..:".
Come sostiene la moglie del caposcorta assassinato con Falcone, Tina Montinaro, "Attenti ai Mafiosi e ai messaggi che mandano dalle celle".
3. Giocano i "pulcini". Una madre grida "Negro di merda"a un bimbo di 10 anni. Dopo gli insulti a Mario Balotelli domenica, il clima è da "liberi tutti". Ha ragione Maurizio Crosetti su Repubblica: "Vogliamo i delinquenti fuori dagli stadi, solo questo. I neonazisti, gli 'ndranghetisti ricattatori, i marci. Succederà". E le mamme (e padri) sceme e ignoranti.

Come abbiamo fatto a finire così male? Occorre reagire, altrimenti la convivenza civile va a farsi benedire.

lunedì 30 settembre 2019

L’esempio di Silvio Novembre, una vita per la cultura del rispetto delle regole

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Silvio Novembre
Siccome la memoria è l’arma dei deboli contro i forti, è un dovere civico oggi ricordare Silvio Novembre, scomparso l’altra notte a Milano. Maresciallo della Guardia di finanza, fu tra i principali collaboratori di Giorgio Ambrosoli durante la liquidazione della Banca Privata Italiana del banchiere-bancarottiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di colui che è stato definito da Corrado Stajano “Un eroe borghese”.
Nel corso delle ricerche storiche sulla figura di Paolo Baffi, ogni qualvolta avessi bisogno di confrontarmi, Novembre, generosissimo e dalla memoria prodigiosa, mi invitava a casa sua, dove stavo a sentirlo per ore, prendendo paginate di appunti. Il suo motto è sempre stato: “Più è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo”. A inizio dicembre 2014, nell’occasione dell’ennesimo incontro, il maresciallo mi disse: “Se Ambrosoli non si fosse opposto a Michele Sindona, Ferdinando Ventriglia sarebbe diventato governatore della Banca d’Italia, al posto di Paolo Baffi”. La storia non si fa con i “se”, ma la nomina di Baffi – il “governatore della Vigilanza” secondo Donato Masciandaro – a Via Nazionale è stata determinante – in positivo – per la storia italiana.
Secondo i giornali dell’epoca, Ventriglia organizzò una cena per festeggiare in anteprima la sua prossima nomina a governatore. L’imprimatur di Guido Carli – che forse manifestò la sua preferenza per bruciarlo – lo fece smaniare. Quando, grazie a Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, venne nominato Baffi, Carli disse: “Se ne accorgeranno”. Come dire, questi non conoscono la forza e l’intransigenza di Baffi. Purtroppo anni dopo – quando fu costretto a dimettersi per accuse poi rivelatisi senza fondamento alcuno (un “coacervo affaristico-politico-giudiziario”, con la regia di Giulio Andreotti) Baffi scrisse mestamente: “In realtà sono io che me ne sono dovuto accorgere”.

Nel dicembre 2014 Novembre fu insignito dell’Ambrogino d’oro su proposta dell’allora sindaco di Milano Giuliano Pisapia, con queste motivazioni: “Maresciallo della Guardia di Finanza, ha indagato per conto della Procura della Repubblica di Milano sul fallimento della Banca Privata Italiana. Con abnegazione ed altissima competenza tecnica, ha collaborato con il commissario liquidatore, avv. Giorgio Ambrosoli, standogli vicino ben oltre gli stretti obblighi di servizio (con la moglie ammalata per un tumore, Novembre faceva da scorta nella notte all’avvocato Ambrosoli, ndr). Ha contribuito poi, con i commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, alla tutela degli interessi collettivi. Fondatore del circolo Società Civile, ha diffuso in città e nelle scuole il valore della legalità, dell’integrità e della lotta alla corruzione. Milano onora in Silvio Novembre un esempio di servizio generoso e instancabile alle istituzioni”.
È utile ricordare che Sindona, che si opponeva con tutte le forze al team guidato da Ambrosoli, cercò in tutti i modi di far trasferire Silvio Novembre. Il 4 novembre 1977, sull’agenda di Rodolfo Guzzi, avvocato di Sindona, c’è una piccola annotazione: “Riunione con Licio Gelli. Sostituzione di Novembre”. Solo l’intervento dei giudici Guido Viola e Ovidio Urbisci presso il Comando Generale, sventa il trasferimento di Novembre sul Monte Bianco.
Ha ragione Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, nel dire che “perdiamo un esempio altissimo di cittadino, che ha saputo esercitare la propria responsabilità di privato e di uomo delle istituzioni con profondo amore per l’Italia. Il suo impegno è andato ben oltre le vicende della Banca di Sindona: quando lasciò la Guardia di finanza mise la sua esperienza e competenza a disposizione dei commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, avendo in quella occasione la possibilità anche di insegnare il suo metodo di lavoro ai tanti giovani collaboratori dei commissari”.
Silvio Novembre si è impegnato per anni nelle scuole e negli incontri per diffondere la cultura del rispetto delle regole e della ricerca della verità. Era una persona umile, non amava la ribalta. Ogni volta mi diceva con candore: “Io ho fatto solo il mio dovere”.
Se torniamo al terribile 1979, l’anno dell’omicidio Ambrosoli e dell’attacco alla Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli, vale la pena riprendere in mano il carteggio tra il governatore e Giorgio Bocca.
Il 17 luglio 1979 Giorgio Bocca firma in prima pagina un editoriale da incorniciare, dal titolo “Due cadaveri molto ingombranti: Ambrosoli e Varisco, drammi ignorati dall’Italia dell’indifferenza”.
 Questo l’attacco fulminante di Bocca: “Per capire quest’Italia che seppellisce in fretta i suoi cadaveri ingombranti e che, nella calura estiva finge di non vedere i suoi fantasmi, conviene osservare alcune fotografie. In una c’è la famiglia Ambrosoli che arriva alla basilica di san Vittore, a Milano, per il funerale di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato morto ammazzato perché sapeva troppe cose di don Michele Sindona e dei suoi amici altolocati. La signora Anna Lorenza non piange, avanza tenendo per mano i figli, Filippo di dieci anni e Umberto di otto anche essi a ciglio asciutto; due amici di famiglia o parenti camminano ai lati come in un affettuoso servizio e anche sui loro visi si legge questa pacata ma ferma testimonianza: ci siamo ancora, in questo paese c’è ancora gente che non si lascia intimidire dai cialtroni e dai Mafiosi, che non recita il suo dolore, che difende una buona educazione senza la quale non si può essere classe dirigente”.
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Annalori e i figli al funerale di Giorgio Ambrosoli
Bocca prosegue: “In un’altra fotografia, sempre ai funerali di Giorgio Ambrosoli, si vede Paolo Baffi, il governatore della Banca d’Italia, il solo gran commesso dello Stato, la sola autorità, il solo uomo di potere che abbia capito che con Giorgio Ambrosoli non si seppelliva un professionista qualsiasi, vittima di un disgraziato incidente, ma uno dei non molti che cercano di salvare l’essenziale di una civile convivenza; e non sembra casuale che Paolo Baffi, l’unico a capire, a sentire che bisognava esserci al funerale di Ambrosoli, sia a sua volta sottoposto ai ricatti e ai messaggi di una giustizia che vede le pagliuzze e non i tronchi”.
Questa la testimonianza orale – trascritta dal sottoscritto – di Silvio Novembre che conferma ciò che scrive Bocca: «Nel breve percorso a piedi verso il cimitero, Baffi mi disse: “Come è diverso morire a Roma. Qui siamo in pochi e non è presente alcun rappresentante delle istituzioni. La settimana scorsa sono stato a un funerale a Roma e le autorità c’erano tutte con le loro auto blu”».
A stretto giro di posta – 23 luglio 1979 (Archivio Storico della Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario) – Baffi risponde a Bocca: “Caro dottor Bocca, l’attacco contro la Banca d’Italia e la mia persona è stato così massiccio e spietato, ha usato in alcuni organi di stampa argomenti così fraudolenti, abietti e malvagi, che solo quattro e più decenni di lavoro onesto e di profonda reciproca conoscenza con i massimi dirigenti delle altre banche centrali hanno potuto farmi scudo contro colpi che avrebbero diversamente ferito l’immagine della Banca e mia. Ma anche così essendo, il Suo articolo sulla Repubblica mi ha aiutato, venendo a conferma dell’opinione che i miei colleghi all’estero si erano formati su questo maledetto affaire. (…) Le sono grato e Le presento gli auguri più fervidi per le battaglie che Ella conduce al fine di avvicinare l’Italia al modello di una convivenza civile”.
La domanda da porci oggi è se l’Italia ha raggiunto un livello decente di civile convivenza e viene da rispondere “no”.
L’ultima volta che ci siamo visti, nell’osservare alla parete del salotto l’onorificenza di “Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”, Novembre, con gli occhi lucidi, mi ha mostrato una sua foto con Carlo Azeglio Ciampi e mi ha detto: “Io nutro per Ciampi una stima incommensurabile. Non so quante volte ci siamo visti, sia per Sindona che per il Banco Ambrosiano. Sono state per me le soddisfazioni di una vita”.
L’ho ringraziato ancora per l’esempio che ha dato a tutti gli italiani, l’ho abbracciato con forza e lui pure, con tutta la sua possente stazza. Ma come Primo Carnera, Novembre era buono come il pane.
Ti sia lieve la terra, caro Silvio Novembre.

Pubblicato il 29 settembre su Econopoly, blog del Sole 24 Ore

mercoledì 18 settembre 2019

La parabola di Matteo Salvini, accecato dalla tracotanza


Il leader della Lega Matteo Salvini – evocando le parole di Benito Mussolini del 1922 – nel mezzo dell'estate, accecato dalla tracotanza, ha chiesto “pieni poteri” agli italiani, stufo dei “no” del Movimento 5 Stelle, delle pastoie della politica, dimenticandosi che la democrazia ha delle regole, che siamo in una repubblica parlamentare, che esiste un Presidente della Repubblica che non lavora sotto dettatura, un sistema democratico di contropoteri, di “check & balance”, che rendono il nostro sistema immune a un’altra dittatura.

La stampa deve funzionare da quarto potere, svolgere il compito determinante di far comprendere all’opinione pubblica le questioni che contano. L’economista Paolo Sylos Labini, invitava sempre a discernere, ad andare in profondità, stabilendo la corretta gerarchia dell’ordine delle priorità.
Una volta caduto il governo giallo-verde (Conte I) ci chiediamo cosa avrebbe potuto farne Salvini dei “pieni poteri” a livello di politica economica. Avrebbe certamente mantenuto come consiglieri due anti-Euro come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, pericolosi assai soprattutto per il contribuente il quale ha pagato con lo spread maggiori costi sul debito pubblico. Quali alleanze avrebbe costruito in Europa? Avrebbe ascoltato gli industriali del Nord che sono competitivi a livello mondiale o coloro – piccoli imprenditori - che auspicano ancora il binomio svalutazione & deficit pubblico?  

Fortunatamente il nuovo governo giallo-rosso ha ricominciato a dialogare con l’Europa, nell’ottica di rappresentare un’Italia come forza europea. I nostri mercati di esportazione sono Germania, Francia e Inghilterra. Non Ungheria e Polonia. Come Paese fondatore della Ue, come abbiamo potuto porci sempre all’attacco delle istituzioni europee? Quando la sola regione Sicilia ha più dipendenti di tutta l’Unione Europea, Salvini appena ha potuto ha sostenuto che tutta la colpa della mancata crescita economica italiana sta negli “odiosi euroburocrati” che non ci consentono di sforare i parametri di Maastricht.
La verità – che fa male – come cantava Caterina Caselli, è un’altra: il motore della nostra economia è inceppato da venticinque anni: criminalità, sistema pubblico inefficiente, nanismo della imprese, familismo amorale hanno bloccato la crescita, che non può riaversi con prebende e sussidi concessi in deficit. La ricetta del reddito di cittadinanza è stata fallimentare perché ha alimentato l’idea che stare in panciolle ha più senso (e reddito) che lavorare.  

Fabrizio Saccomanni - una vita in Banca d’Italia come civil servant fino alla direzione generale (non divenne Governatore solo per il veto di Silvio Berlusconi), scomparso quest'estate, uno dei tanti costruttori dell’Italia europea - era ben consapevole dell’importanza dei rapporti internazionali e criticava l’irresponsabile strategia della “sedia vuota” (come quella seguita dal generale Charles De Gaulle negli anni sessanta per sabotare le funzioni del Consiglio europeo ). E’ invece stata la linea scelta dai due ex vice-premier, che non hanno mai partecipato ai vertici europei, come quelli sulle politiche migratorie previste dal trattato di Dublino e al contempo hanno biasimato l’Europa in modo autolesionistico senza cercare alleanze e compromessi.
W l'unione europea, pensata nel 1940 da Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi in esilio fascista a Ventotene.

lunedì 8 luglio 2019

Decreto “Crescita”? Un caso di manipolazione del linguaggio

Come ha scritto Gianrico Carofiglio nella “Manomissione delle parole”, il linguaggio può essere manipolatorio. Nella politica italiana succede molto spesso. Il cosiddetto decreto “Crescita” assomiglia al decreto “dignità”, che nella relazione accompagnatoria scritta dall’Inps prevedeva un calo dell’occupazione, alias mancato rinnovo dei lavoratori a tempo determinato.

Nel caso del decreto approvato pochi giorni fa il rischio è il medesimo, ossia vedere una diminuzione del già basso livello di sviluppo economico. Se il governo giallo-verde ansia è riuscito a cancellare quel poco di crescita che c’era, come possiamo pensare che un decreto pieno di mance e assistenzialismo possa dare una svolta all’anemia economica che ci circonda?

Vediamo in dettaglio cosa è stato approvato in Senato.

1.      Viene rientrodotto il superammortamento per le imprese. Era stato detto dal ministro Luigi Di Maio che tutto quello fatto Matteo Renzi fosse da buttare. Ora, fortunatamente, c’è una revisione e si torna a guardare con favore agli investimenti privati, che dipendono dalla fiducia (costantemente in calo dalle elezioni del marzo 2018).

2.      Vengono tagliate le tariffe Inail dal 2023. Poca roba sul tavolo.

3.      Sono stati introdotti ecoincentivi per tutte le moto e microcar.

4.      Il Ministero dell’Economia è autorizzato ad entrare come azionista nella nuova Alitalia. Il prestito di 900 milioni sarà ben difficile vederlo restituito. Come possiamo pensare di creare sviluppo se vengono messi denari pubblici nella fornace Alitalia, che più vola e più perde?

5.      Nessun passo indietro sulla responsabilità penale per eventuali reati ambientali relativi alla bonifica e al rilancio dell’Ilva di Taranto. Il governo non ha previsto l’immunità totale nonostante il duro scontro tra Arcelor Mittal e il Mise.

6.      Previsti 3 milioni di euro per Radio Radicale (ottima cosa, vista la capacità archivistica) e  norme per favorire le aggregazioni bancarie al Sud, con particolare attenzione alla Banca Popolare di Bari.

7.      Le grandi imprese con più di mille dipendenti potranno licenziare i lavoratori più anziani offrendo loro in cambio “uno scivolo” di 5 anni, per chi ha maturato il diritto alla pensione di vecchiaia. Se si incentivano le persone ad andare in pensione, come si può pensare di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro?

8.      E’ stata introdotta una norma per `salvare´ i fornitori di Mercatone Uno, caso classico di incapacità degli imprenditori di competere in uno scenario dominato dalla disintermediazione.

9.      Ancora una volta il Comune di Roma viene aiutato dal contribuente. Infatti parte del  debito storico della Capitale passerà a carico dello Stato. E’ così, aiutando i peggiori amministratori comunali italiani, che si vuole creare un clima favorevole alla crescita? E i Comuni sobri e buoni pagatori, con i conti in ordine, cosa devono pensare? Quale esempio nefasto viene dato? Il presidente Sandro Pertini soleva dire: “I giovani non hanno bisogno di prediche, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà”. Eccoci serviti.


Se il governo voleva dimostrare alla Commissione Europea di essere sulla retta via, di creare le condizioni favorevoli per le imprese, di fornire un terreno favorevole al ritorno della fiducia, possiamo dire che siamo ben lontani dall’obiettivo.

Siamo ormai in estate con il caldo che ci attanaglia. Avremmo bisogno di una folata di fresco, di idee innovative, di pensiero vigoroso. Ha vinto la retorica e il pensiero debole.
(Pubblicato sulla "Gazzetta del Mezzogiorno" il 2 luglio 2019).

martedì 28 maggio 2019

Omaggio a Vittorio Zucconi, giornalista formidabile

Quando ho iniziato a leggere i giornali avevo 14 anni. Uno dei primi giornalisti a catturare la mia attenzione era Vittorio Zucconi, affabulatore di qualità. Sempre arguto, soave, ti teneva attaccato alla pagina. Ti prendeva per mano e ti portava fino in fondo.
Ora, a distanza di 35 anni, mi tocca salutarlo e ringraziarlo per le volte in cui mi ha fatto riflettere, pensare e anche tanto ridere. Mi ricordo in uno dei suoi tanti libri il racconto di quando suo padre Guglielmo gli regalò per i 18 anni un cucchiaino d'argento, con un bigliettino d'auguri che recitava così: "Nella vita dovrai mangiare così tanta merda, che almeno il cucchiaio sia d'argento".
Un maestro per tanti, anche alla radio, dove era divertentissimo e capace di non prendersi mai sul serio. Sono migliaia i lettori di Repubblica ad aver mandato messaggi di cordoglio. L'ex direttore Ezio Mauro ha scritto un coccodrillo memorabile ricordando con quale velocità era in grado di scrivere un pezzo anche in condizioni difficilissime.
Un lettore, Massimo Marnetto, ha scritto a Corrado Augias: "Vittorio Zucconi parlava dritto, con lealtà e spessore. Aveva tanto mondo nella sua storia. Parlava dei grandi, ma faceva passare nelle sue parole anche l'umore della gente. Nei dibattiti ribatteva con parole abrasive, spesso ironiche, mai arrogante. Se ne va così, con un flash d'agenzia, in una domenica piovosa".
Augias ha risposto da par suo: "Zucconi era un giornalista totale nel doppio senso dell'espressione: notizie da trovare, racconto da offrire al lettore. Mi ha sempre affascinato e un po' invidiato la sua abilità narrativa".
A chi gli chiedeva come fare per fare bene il mestiere del giornalista, Zucconi rispondeva: "Devi portare il lettore con te alla prima riga. Se vai in guerra, devi mettergli l'elmetto, se c'è un omicidio, deve vedere il cadavere, se vai al mare, deve avere il costume, e se vai in strada, devi fargli respirare l'odore dell'asfalto".
Il senatore leghista Simone Pillon (bigotto all'inverosimile, autore di un progetto di legge sul diritto di famiglia che ci riporterebbe al Medioevo), che era stato criticato su Radio Capital da Vittorio Zucconi, con un tatto da miserabile, è riuscito a insultare Zucco da morto. Bene ha fatto Michele Serra a replicare: "Pillon pensi all'anima sua".

Caro Vittorio, se molti compreso me, amano i giornali in modo viscerale, è anche merito tuo. Un caldo abbraccio e ti sia lieve la terra.

domenica 3 marzo 2019

L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti

Prima di morire improvvisamente, Guido Roberto Vitale, finanziere-mecenate, mi ha fatto un ultimo regalo. Ha convinto il direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini a ripubblicare il mio volume edito originariamente per Vitale & Co. Il titolo - "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" e il testo sono rimasti gli stessi, non è stata cambiata una virgola. Il titolo è stato scelto dopo numerosi tentativi andati a vuoto dallo stesso Vitale. Fa il verso, al contrario al volume di anni fa di Napoleone Colajanni: "Il capitalismo senza capitale".
Un cambiamento c'è. E' la dedica speciale che ho scritto, che parte così: "Guido Roberto Vitale era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso, fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Nei tempi "dell'uno vale uno", un extraterrestre".
Un anno di lavoro, con due supervisor, lo stesso Vitale e Francesco Giavazzi, formidabile discussant. Serbo il ricordo di un pranzo a tre, dove sono uscito un po' scorato dopo le critiche incisive ricevute sul testo in bozza. Avercene di opinioni franche che non fanno che migliorare l'elaborato.
Giavazzi, a lavoro finito, mi ha fatto i complimenti per il risultato raggiunto e ha deciso di scrivere la prefazione, che si chiude così: "Ricordino i nostri ottimi imprenditori il monito di Luigi Einaudi che il 6 agosto 1924 scriveva sul "Corriere della Sera": "Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, partiti politici pur aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita la voce dei combattenti. Soltanto i capitani d'industria tacciono".

Il capitolo più importante del volume è intitolato "Che fine ha fatto il capitalismo italiano?". Argomento a più non posso e concludo: "Da questa lunga analisi è emersa l’incapacità della grande impresa privata italiana a trovare la via del proprio sviluppo.  Ha cercato di arroccarsi attorno a Mediobanca, che l’ha aiutata. Forse troppo. «Ho dovuto fare le nozze con i fichi secchi», ha risposto Cuccia a Colajanni.

Esaurito il ruolo dell’IRI, è mancata clamorosamente la grande impresa privata, che è stata foriera, più volte nella storia italiana, di molte illusioni. L’industria italiana non ha mai fatto da sé. Due personaggi, ben prima di Cuccia, l’hanno tenuta in piedi: Bonaldo Stringher e Alberto Beneduce. Il capitalismo privato si è dimostrato inadatto alle sfide del suo tempo. Sono emersi i vecchi limiti: un capitalismo senza capitali, la scarsa attitudine a rischiare, la tentazione ad adagiarsi sull’investimento dello Stato, tirato per la giacca per sopperire a tutte le manchevolezze del Paese.

Invece di stimolare la classe politica a creare le condizioni favorevoli per fare impresa, a creare quel clima generale favorevole allo sviluppo, i grandi imprenditori hanno chiesto aiuti, sussidi, pensando al proprio “particulare”, spingendo l’Italia verso un modello di «capitalismo assistenziale».

In questo contesto, l’economia italiana ha assistito alla crescita del “quarto capitalismo”, imprese in grado di essere competitive sui mercati internazionali, così capaci di combinare al meglio i fattori di produzione da ricavare margini elevati sul fatturato. In tal modo, le esigenze di finanziamento sono limitate al capitale circolante netto, mentre gli investimenti vengono realizzati con il capitale proprio, indice di sostenibilità finanziaria. Quando la famiglia proprietaria dell’impresa riesce a uscire dal familismo e far valere i principi della professionalità e del merito è quasi imbattibile. I saldi positivi della bilancia commerciale parlano da soli. Becattini aveva visto giusto. Il futuro dell’Italia è nei distretti e nelle medie imprese, che non necessariamente devono diventare grandi. Se il nanismo del sistema produttivo italiano è un vincolo al rafforzamento della competitività internazionale, come hanno sostenuto Becattini e Coltorti, non esiste una dimensione ottimale di impresa. 

Rimane il fatto che il nostro capitalismo imprenditoriale è sì trainato dalle imprese internazionalizzate ma è privo di global companies. Questo modello, con le sue debolezze, che Aldo Bonomi ha definito capitalismo intermedio, conserva un vantaggio competitivo: è fondamentalmente espressione di «grandi imprese artigiane ipertecnologiche».

Che dire di altro? Spero di avervi incuriosito. Da martedì 5 marzo il mio volume "L'Italia: molti capitali, pochi capitalisti" si può comprare in abbinamento col Sole 24 Ore (+9,90 euro). Da metà aprile il volume sarà disponibile anche nelle librerie. Buona lettura. Aspetto poi i vostri commenti. Grazie.