venerdì 28 settembre 2012

L'ignoranza del passato e il desiderio di sapere: 29 settembre 1978. Lo scandalo Italcasse, Andreotti, Rovelli, Caltagirone. E la pulizia compiuta da Paolo Baffi

Giulio Andreotti e Licio Gelli (P2)
In Italia i programmi scolastici sono rimasti alla riforma Gentile. Siamo i più grandi esperti del mondo di Egizi e Assiro Babilonesi, abbiamo letto il capitolo del Manzoni sulla monaca di Monza 45 volte ma non sappiamo nulla del '900.
Sembra che i professori abbiamo preso alla lettera lo storico Eric Hobsbawm: siccome il 900 è un "secolo breve", allora arriviamo se va bene fino alla prima guerra mondiale.

Quando a lezione in università parlo di vicende di fine '900, vedo dei volti attoniti, facce da triglia,meraviglia sommata a ignoranza crassa.

Allora colmiamo qualche lacuna.

Domani, 29 settembre, a distanza di 34 anni, cade l’anniversario della morte a Lugano - dove si era rifugiato per sfuggire agli arresti - del politico e banchiere democristiano Giuseppe Arcaini, direttore dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio italiane, comunemente denominato Italcasse.

L’Italcasse aveva la funzione di investire la liquidità in eccesso raccolta dal sistema della Casse di risparmio sparse sul territorio.

Arcaini fu costretto a dimettersi nel 1977, dopo vent’anni di direzione, perchè coinvolto nello “scandalo Italcasse”, accusato di peculato e di interesse privato per una serie di fondi neri e di mutui concessi a imprenditori amici e a partiti di governo, in particolare alla Democrazia Cristiana e alla corrente politica di Andreotti.

Aldo Moro prigioniero delle BR
Come fa notare lo storico Miguel Gotor - nel suo splendido Il Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011) – “Con la vicenda Italcasse si entra, quindici anni prima di Tangentopoli, dentro le dinamiche di funzionamento del sistema di potere nazionale, vale a dire l’intreccio endemico tra politica e mondo imprenditoriale, dimensione privata e funzione pubblica, cricca e libero mercato”.

La copertina di “Op” diretto dal giornalista Mino Pecorelli del 14 ottobre 1977 titolava: “Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?”, pubblicando all’interno l’elenco completo di una serie di assegni incassati, secondo Pecorelli, da Andreotti, in cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, tra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società Nuova Flaminia facendo capo a Domenico Balducci, organico alla banda della Magliana e al mafioso Pippo Calò.

L'omicidio di Mino Pecorelli (Op)
Nel numero di “Op” del 17 ottobre 1978, Pecorelli – poi assassinato il 20 marzo 1979 – scrisse: “Morto il grande elemosiniere Arcaini, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo” e ventilava ll’ipotesi che Arcaini avesse lasciato “in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?”.

Proprio Moro nei manoscritti autografi - scritti durante la prigionia - rivelò come la nomina a direttore generale dell’Italcasse del successore di Arcaini fosse un evento inquietante perchè la scelta sarebbe stata delegata da Andreotti al sodale Gaetano Caltagirone, cosicché questi avrebbe potuto sistemare agevolmente la propria posizione debitoria, scegliendo un nuovo direttore dell’Italcasse a lui favorevole.

Il gruppo Caltagirone allora aveva un’esposizione verso Italcasse di circa 209 miliardi di lire e il Gruppo Sir di Nino Rovelli per 218 miliardi (cifre elevatissime per allora).

Così Aldo Moro: “E lo sconcio dell’Italcasse? E le banche lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. E’ un intreccio intollerabile nel quale si deve operare con la scure”.

E’ da tenere a mente che quattro giorni dopo l’assassinio di Mino Pecorelli, il 24 marzo 1979 avvenne l’attacco clamoroso alla Banca d’Italia che si concretizzò con l’arresto di Mario Sarcinelli, responsabile del Servizio Vigilanza, e l'incriminazione e il ritiro del passaporto al Governatore Paolo Baffi

Come ho scritto, una delle cause della messa in stato d’accusa dei massimi vertici di Banca d’Italia è stata aver fatto sciogliere il cda dell’Italcasse, cioè del più importante istituto di credito dominato dal potere democristiano.

L’economista d'impresa - nostro sempiterno riferimento - Marco Vitale scrive: “Quando nel 1975 Carli lascia la Banca d’Italia, ed alla sua guida subentra Baffi, la linea della Banca d’Italia cambia. Recupera la sua volontà di guida del potere bancario, sia sul fronte della gestione della moneta, che sul fronte della Vigilanza sulle aziende di credito e sulla corretta amministrazione delle stesse. In un certo senso, ritornando a fare severamente il proprio mestiere, la Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli accetta il rischio di essere considerata, per usare la terminologia di Carli, “sovversiva” ed è per questo che va punita....Il nuovo corso della Banca d’Italia dava fastidio”.

Se il sistema bancario non è più governato dai partiti, lo si deve anche a Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, grandissimi civil servant.

P.S.: si raccomanda la lettura di Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, Einaudi, 2002

martedì 25 settembre 2012

Il disastro dell'università pubblica italiana nel ricordo di Franco Modigliani

L'università pubblica italiana è da rifondare. Il focus dei professori non sono gli studenti, ma loro stessi, la loro carriera, i loro interessi. I Rettori sono votati dai professori stessi per cui il conflitto di interesse è enorme. La prima riforma da fare da parte del Governo sarebbe di abolire la CRUI, La Conferenza dei Rettori, organo che serve a perpetuare l'inerzia italiana, dove il prof. non c'è mai, dove la qualità della didattica non rileva, dove la valutazione dei prof. non conta, dove il Rettore presta le aule dell'Università per la festa di nozze della figlia, vedasi l'incredibile vicenda che ha per protagonista il Rettore Frati della Sapienza di Roma.

Allora, visto che oggi 25 settembre ricorre l'anniversario della morte, ricordiamo le riflessioni sull'università italiana di Franco Modigliani, costretto a fuggire negli Stati Uniti per le leggi razziali.

9 anni fa, il 25 settembre 2003 moriva l’economista Franco Modigliani – Premio Nobel per l’economia nel 1985. La sua vita è stata raccontata in modo suggestivo da Paolo Peluffo – biografo di Carlo A. Ciampi - in Avventure di un economista (Laterza, 1999).

Modigliani nelle sue memorie racconta degli episodi della sua vita che trovo veramente significativi.

Arrivato negli States mi fu subito evidente come il sistema universitario fosse più umano ed efficiente rispetto alla insopportabile impersonalità delle università italiane: pochi baroni che insegnavano a masse di studenti sconosciuti, attorniati da piccole folle di petulanti e servili assistenti. Il cameratismo e l’amicizia che spesso nascono tra professori e studenti è una delle caratteristiche dell’insegnamento superiore degli Stati Uniti e una delle ragioni del suo indubbio successo”.

Nel 1955 tornai in Italia come lettore. La mia impressione negativa fu fortissima. Avevo scordato quanto profonde fossero le differenze fra il sistema di educazione universitario negli Stati Uniti e in Italia. Il sistema italiano era una struttura a tre caste, in cui i pochi, e per la maggior parte anziani professori, occupavano la casta superiore, immediatamente inferiore a Dio, mentre un gruppo consistente di speranzosi e servili assistenti rappresentava la seconda casta, lo strato intermedio, e gli studenti, dei quali nessuno si occupava, costituiscono la base della piramide”. Ci chiediamo se sia cambiato qualcosa dal 1955 ad oggi.

Il Rettore dell’Università di Roma mi definì, mentre ero già full professor, un “giovine promettente”. Modigliani racconta anche un altro episodio emblematico. In occasione di un convegno di economisti a Washington, il professor Corrado Gini (famosissimo statistico, inventore dell’indice di Gini sulla concentrazione del reddito e della ricchezza, ndr) – tirò fuori l’orologio dal taschino e chiese a Modigliani: “Senta, ieri mi si è rotto l’orologio, me lo potrebbe far accomodare, per cortesia, e poi me lo fa recapitare in albergo?”. Modigliani rispose che la richiesta avrebbe dovuto farla al garzone della portineria dell’albergo. “Così si saggiava di che pasta eri fatto. Quanto eri in grado di subire pur di accattivarti la benevolenza del capo. Questa è una delle origini profonde della crisi italiana. Perchè una classe dirigente che è stata selezionata in base alla sua capacità di subire umiliazioni, di non avere amor proprio, è quella che non è in grado di guidare l’Italia”.

In relazione al rapporto con gli studenti, Modigliani ricorda: “Negli Stati Uniti professori e studenti hanno sempre ragionato insieme, mangiato insieme, vissuto negli stessi luoghi. Ricordo il silenzio assoluto degli studenti mentre facevo lezione a Roma. A un certo punto mi spazientii e dissi loro: “Ma insomma, non avete proprio niente da criticare delle cose che sto dicendo?”. Spesso dico ai miei studenti: “Fate domande, cercate di capire veramente le cose. Io non ho delle verità rivelate, pongo delle domande, ma non ho delle risposte certe; l’economia non è una scienza esatta”.

Anch'io nel mio piccolo spesso durante le prime lezioni ho un pubblico intimidito, non abituato a fare domande, piegato mentalmente dalla nefasta gerarchia per cui al prof. è meglio non chiedere sennò si arrabbia. Invece lo studente ha il sacrosanto diritto di chiedere e di ottenere risposte esaurienti. E' finito il tempo dei baroni.
Spesso lo studente non pretende perchè il costo della retta universitaria è irrisorio. Il costo vero è a carico della fiscalità generale, per cui - visto chi frequenta l'università - si tratta di un sussidio dalle classi operaie-impiegatizie alle classi agiate. Il welfare all'incontrario.

Carlo A. Ciampi
Come Carlo Azeglio Ciampi che saltò la quinta elementare e la terza liceo - Franco Modigliani saltò una classe; decise di saltare la terza liceo in un periodo in cui la licenza liceale era durissima. “Lavorammo come bestie”, racconta. E quell’anticipo fu decisivo perchè gli consentì di laurearsi nel 1939 prima di partire per gli Stati Uniti, fuggendo dall’Europa nazi-fascista. “Arrivammo negli USA il 28 agosto 1939, tre giorni prima che Hitler invadesse la Polonia e scoppiasse la guerra”.

Il fantastico giornalista di punta del Corriere Gian Antonio Stella – Modigliani: non fate i furbi, in una intervista del 20 aprile 1998 – scrisse: “Pochi italiani, forse, amano l’Italia come l’ama Franco Modigliani. Un rapporto struggente, malinconico, forte come sanno essere struggenti, malinconici solo gli amori contrastati. Cresciuti sul dolore, il tradimento, la diffidenza, la riconciliazione, la serenità ritrovata, la delusione”.

Caro Franco Modigliani, ti sia lieve la terra.

venerdì 21 settembre 2012

Nell'Italia immobile e contro i giovani, un esempio nobile: il giudice Livatino


Rosario Livatino
Il 21 settembre 1990 il giovane magistrato Rosario Livatino, 38 anni, sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento, viene ammazzato dalla mafia. Il 21 settembre di 22 anni fa, mentre percorre senza scorta la SS 640 Agrigento-Caltanissetta a bordo della sua Ford Fiesta rossa, sicari mafiosi speronano l'auto, lo inseguono mentre cerca di scappare, per poi finirlo spietatamente.

Grazie a un testimone - Pietro Nava, milanese di Sesto San Giovanni, costretto a vivere blindato in una località segreta - gli esecutori del delitto furono condannati, vedasi articolo del Corriere della Sera.

E' opportuno ricordare quanto disse il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga - esempio massimo della gerontocrazia italiana - riguardo a Livatino: "Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perchè ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga".

Dopo questa sbalorditiva affermazione, il giudice Livatino verrà ricordato come il giudice ragazzino, titolo del pregevole libro di Nando Dalla Chiesa.

I dati OCSE presentati sono incontrovertibili. In Italia, un giovane che non abbia un genitore almeno diplomato ha il 10% delle possibilità di laurearsi, contro il 35% della Francia e oltre il 40% della Gran Bretagna. Circa il 70% dei ragazzi che hanno i migliori risultati provengono da famiglie agiate. In Italia il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% dei laureati in giurisprudenza è figlio di laureati in giurisprudenza.

Lo scrittore Gianni Biondillo spassosamente racconta: “Proprio quell’estate del 1984 lessi un’intervista a Vittorio Gregotti su un quotidiano nazionale. Il giornalista chiese un consiglio da dare ai giovani che si accingevano ad iscriversi ad architettura. Gregotti rispose, lapidario: “Consiglio loro di scegliersi genitori ricchi”.

Sebastiano Vassalli , nel suo romanzo “Marco e Mattio”, ambientato nel Veneto nel 1775, scrive: “Suo padre, Marco Lovat, era lo scarpèr cioè il calzolaio di Casal, e il destino del figlio primogenito era quello di fare lo scarpèr, anche se avrebbe preferito continuare a studiare per diventare dottore: la vita, a Zoldo, non permetteva quel genere di cambiamenti e chi nasceva oste doveva fare l’oste, chi nasceva scarpèr doveva fare lo scarpèr; altre alternative non c’erano!”. Ogni tanto sembra che in questo Paese siamo rimasti a fine ‘700.

Non è banale ricordare che la nonna di Barack Obama viveva in una capanna in Kenya. E la nota casa di consulenza McKinsey vieta a figli dei partners la possibilità di richiedere un colloquio per essere poi assunti.

Antonio Schizzerotto - professore esperto di disparità inter/intragenerazionali - sottolinea come le persone nate tra la prima metà degli Anni 60 e la fine degli Anni '70 costituiscono le prime due generazioni di italiani che non sono riuscite, come invece era sempre accaduto nel corso del Novecento, a migliorare le proprie aspettative di vita rispetto a quelle dei rispettivi genitori.

Chiudo con la visione del giudice espressa dal mite Rosario Livatino - tratta dalla relazione "Il ruolo del giudice nella società che cambia" (7.4.1984):
« Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo. Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato ».

P.S.: si consiglia la lettura di:
- Il commovente "Il giudice ragazzino", Nando Dalla Chiesa, Einaudi, 1992
- L'avventura di un uomo tranquillo, Pietro Calderoni, Rizzoli, 1995
- "Vite ineguali", Antonio Schizzerotto, Il Mulino, 2002
- www.enniodifrancesco.it

mercoledì 19 settembre 2012

A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti: Paolo Baffi

Il 20 settembre non è solo l'anniversario di Porta Pia e la fine dello Stato Pontificio - 1870 - ma anche il giorno in cui Paolo Baffi si dimise da Governatore della Banca d’Italia, carica che ricopriva dall'agosto 1975. Le dimissioni di Baffi furono accolte dal Consiglio Superiore "con effetto a partire dalle ore 24 del 7 ottobre 1979". Cogliamo quindi l’occasione per ricordare una persona modello, un meraviglioso civil servant.

Proveniente da una famiglia con pochi mezzi economici - il padre Giovanni emigrò in Argentina, “donde rientrò qualche tempo dopo per difetto di fortuna” - la madre vedova all’età di 22 anni allevò il figlio Paolo fino alla laurea (raggiunta nel 1932 anche grazie a una borsa di studio) lavorando come sarta.

Allievo di Giorgio Mortara all’Università Bocconi, nel 1936 - anno in cui fu approvata la Legge Bancaria che attribuiva a Bankitalia nuove funzioni di vigilanza - entra in Banca d’Italia.

Nel dopoguerra Baffi contribuì a disegnare la “linea Einaudi” di riequilibrio monetario. Fu l’anima intellettuale ma anche l’organizzatore e la guida del Servizio Studi.

Dal 1960 al 1975, quando le crescenti difficoltà dell’economia chiamarono la politica monetaria a compiti nuovi, Baffi - in qualità di direttore generale - operò per adeguare gli strumenti e la struttura interna della Banca, per elevare il livello professionale del personale.

Nel 1975, nominato Governatore, all’inizio di quello che avrebbe ricordato come “il mio quinquennio di fuoco”, si dispiegarono gli effetti recessivi dei rincaro dei prezzi petroliferi: per la prima volta dal dopoguerra il reddito nazionale diminuì. Baffi era preoccupato che la restrizione monetaria provocasse effetti rovinosi sull’economia.

Il cuore della sua analisi è enunciato nelle sue prime Considerazioni finali - lette il 31 maggio 1976: "Dall’inosservanza, nella politica di bilancio e in quella retributiva, di regole compatibili con la stabilità monetaria, derivano due conseguenze. La prima, che la capacità del sistema creditizio di operare come meccanismo di allocazione delle risorse è menomata; la seconda, che l’autorità è indotta a tentare di ristabilire quella compatibilità mediante interventi di carattere amministrativo”.

Baffi contribuì a guidare l’economia verso il riequilibrio dei conti con l’estero e il ripristino del merito di credito. Ciampi ricorda: “Nei consessi internazionali, il Suo prestigio aiutò a ristabilire un clima di fiducia; accrebbe la disposizione della comunità internazionale a sostenere lo sforzo dell’Italia verso condizioni economiche e finanziarie più ordinate”. Il contenimento dell’inflazione e il riequilibrio dei conti con l’estero permisero di non mancare, nel 1978-79, l’appuntamento con il Sistema Monetario Europeo - in cui entrammo con la banda larga del 6%. Storiche furono le negoziazioni di Baffi con il Governatore della Bundesbank Emminger.

Il 1979 è un anno terribile. Il 29 gennaio a Milano viene assassinato dai terroristi di Prima Linea il giudice Emilio Alessandrini. Il 20 marzo Michele Sindona viene incriminato dalla magistratura americana per la bancarotta della Franklin National Bank. Sempre il 20 marzo viene assassinato a Roma Mino Pecorelli, direttore dell’Agenzia “OP”, specialista in scandali, depistaggi, in combutta con i servizi segreti. Il 24 marzo Ugo La Malfa - che si rifiutò di convocare il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio al fine di bloccare l’aumento di capitale di Finambro di Sindona - viene colpito da un ictus. Morirà due giorni dopo.

Il 24 marzo si presentano in Banca d’Italia i carabinieri e arrestano Mario Sarcinelli, responsabile della Vigilanza e sequestrano il passaporto a Baffi (non lo arrestano solo per limiti di età). A Baffi fu impedito di andare a Basilea ai consueti consessi mensili dei banchieri centrali europei presso la Banca dei Regolamenti Internazionali, dove rappresentava l’Italia con notevole prestigio. Vengono accusati di interessi privati in atti d’ufficio e di favoreggiamento personale.

Carlo Azeglio Ciampi
La verità - si saprà anni dopo - è che la P2 - su pressione della Democrazia Cristiana e dei soggetti economici vicini agli esponenti democristiani (Sindona, Caltagirone, Calvi, Italcasse) organizzò una manovra d’attacco alla Banca d’Italia servendosi di due suoi magistrati amici: il giudice Alibrandi e l’inqualificabile giudice istruttore Infelisi, che si permise di trattare in modo violento e ostile Baffi durante l‘interrogatorio.
Alibrandi allevò “meravigliosamente” il figlio, il quale - eversore di destra e membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) verrà ucciso anni dopo in uno scontro a fuoco con la polizia.

Le principali colpe dei due?

1) aver fatto sciogliere il cda dell’Italcasse, cioè del più importante istituto di credito dominato dal potere DC;

2) aver ordinato un’ispezione presso il Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi;

3) l’opposizione ferrea ai piani di salvataggio delle banche di Sindona, di cui era commissario liquidatore l'avv. Giorgio Ambrosoli.

Naturalmente Baffi e Sarcinelli vennero scagionati anni dopo per l’assoluta insussistenza delle accuse.

I migliori economisti italiani - Caffè, Andreatta, Spaventa, Savona, Monti, Tarantelli, Reviglio e altri - il 2 aprile 1979 firmano una dichiarazione a favore di Baffi e Sarcinelli e contro l’ignobile attacco.

L'ineffabile Giulio Andreotti
L’ineffabile Andreotti scrive nel suo diario: “Per reagire contro l’arresto di Sarcinelli e l’avviso a Baffi un gruppo di professori firma una dichiarazione-manifesto. Temo che non giovi a trovare una rapida via d’uscita”.

Marco Vitale commenta: “Ho sempre sostenuto che la nomina di Paolo Baffi a Governatore della Banca d’Italia è stata l’unica riforma di struttura degli anni Settanta. Non è dunque un caso che Baffi e Sarcinelli siano trattati come malfattori. Così come non è un caso che tutta l’Italia seria ha subito compreso il significato politico dell’episodio e dice a Baffi e Sarcinelli: resistete….In realtà questa Banca d’Italia seria dava fastidio e meritava una lezione”.

Ma Baffi, dolente figura di uomo di Stato ancorato ai principi della corretta amministrazione, non rimarginò mai più quella sua ferita. Nelle Considerazioni finali del 1979 Baffi scrisse: “Ai detrattori della Banca, auguro che nel morso della coscienza trovino riscatto dal male che hanno compiuto alimentando una campagna di stampa intessuta di argomenti falsi o tendenziosi e mossa da qualche oscuro disegno”. Ma nelle memorie - Cronaca breve di una vicenda giudiziaria - consegnate a Massimo Riva e pubblicate su Panorama l’11 febbraio 1990 - Baffi commentò: “Queste parole piuttosto pacate non danno certo misura dell’amarezza e dello sdegno che io provavo in quei giorni: ma se vi avessi dato sfogo, forse mi sarei procurato nuove incriminazioni".

Tommaso Padoa-Schioppa
Padoa-Schioppa aggiunge: “Proprio quell'urto - che veniva da un uomo schivo, all’antica, profondamente rispettoso dell’autorità dello Stato e del primato della politica - è il servizio che Baffi ha reso all’Italia”.

Ma non vogliamo ridurre la figura di Baffi a questo episodio. Siamo d’accordo con Ciampi: “La dignità di cui Paolo Baffi diede esempio ne ha innalzato la figura; ma farebbe torto all’elevatezza delle Sue doti, alla vastità e molteplicità della sua opera, chi incentrasse su quella dolorosa vicenda la Sua memoria”.

Ecco l’autorevole giudizio di tre Governatori della Banca d‘Italia - tratte dai miei amati ritagli del mio archivio cartaceo.

Mario Draghi: “Per oltre mezzo secolo la vita della Banca d’Italia è stata segnata dall’opera e dal pensiero di Paolo Baffi. Da quando entrò giovanissimo in Banca d’Italia sino agli ultimi anni come Governatore onorario, con il suo esempio contribuì a plasmare questa istituzione con la serietà e il rigore”.

Carlo Azeglio Ciampi: “La sua sola presenza scoraggiava ogni superficialità; innalzava la soglia della valutazione morale e professionale degli uomini; contribuiva a dare un senso sicuro al mandato e alle azioni di chi è chiamato a responsabilità pubbliche…La sua opera fu decisiva, sin dal Suo ingresso nel nostro Istituto, nell’affermare un metodo di lavoro: quello che nel rigore dell’analisi e nell’indipendenza del giudizio vede innanzitutto un dovere, uno dei modi attraverso i quali si estrinseca la funzione della Banca, al servizio della collettività”.

Luigi Einaudi
Luigi Einaudi: “Di Paolo Baffi dirò solo che la stima che di lui hanno gli studiosi di cose economiche è siffatta che reputarono l’anno scorso degno di essere eletto, lui estraneo alla carriera universitaria, socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei”.

Quando i tempi sono tristi, come ci ricorda Ugo Foscolo nei Sepolcri - bisogna guardare in alto alla ricerca di esempi positivi "l'urne de' forti". Nel cielo degli onesti e dei competenti è presente di diritto Paolo Baffi, nato a Broni (PV) il 5 agosto 1911 e morto a Roma il 4 agosto 1989.

giovedì 13 settembre 2012

Sono ormai 4 anni che Lehman è fallita. E' stato giusto non salvarla

Nella ultima sessione di laurea a cui ho assistito, una studentessa ingenua e ignorante - nel senso che ignora i fatti - ha sostenuto che il calo di prezzo delle azioni di Lehman Brothers nell'estate 2008 era dovuto alla mancanza di volontà - da parte della Federal Reserve e del Ministero del Tesoro americano - di procedere al salvataggio.

Cara studentessa, l'azione Lehman è scesa nei pressi dello zero perchè il patrimonio netto era negativo.
Per capire come possa essere stato possibile, è necessario chiarire cosa è la leva finanziaria, ossia il rapporto tra il patrimonio netto di vigilanza e le attività ponderate per il rischio.

La causa determinante risiede nell'elevata leva finanziaria permessa dalle autorità di vigilanza - in primis dalle regole stabilite dal Comitato di Basilea presso la Banca dei Regolamenti Internazionali - che consente alle banche - commerciali e non - di sostenere dei rischi che si rivelano poi insostenibili.

Ben Bernanke
Siccome il business di una banca è a leva per definizione - i requisiti patrimoniali di vigilanza sono una percentuale piccola a piacere rispetto agli attivi della banca - una perdita di valore delle attività in portafoglio può creare una voragine nei conti e se non intervengono gli azionisti, la banca chiude.
Come ha sostenuto il chairman della Federal Reserve Ben Bernanke nella sua testimonianza il 2 settembre 2010 alla Financial Crisis Inquiry Commission, Lehman non poteva essere salvata: “I regret not being straightforward there (precedent Testimony, 2008, ndr) because clearly it has supported the mistaken impression that in fact we could have done something”.

Richard Fuld, CEO di Lehman
Richard Fuld - CEO di Lehman Brothers - è stato un pessimo manager, arrogante, grande distruttore di valore. Per un manager che ha guadagnato in dieci anni 457 milioni di $, l’idea di essere salvati dalla Fed è un chiaro esempio di incompetenza crassa.
I manager faso tuto mi, i CEO che si guardano allo specchio e si credono Napoleone, i CEO delle banche che pongono a rischio l'intero capitale di vigilanza a beneficio asimmetrico dei loro bonus non ci piacciono per niente.

Fuld ha dichiarato più volte che “There was no capital hole at Lehman”. Questo è nettamente in contrasto con le evidenze dei revisori che hanno dimostrato - carta canta, documenti alla mano - come Lehman taroccava sistematicamente i conti trimestrali attraverso repo (pronti contro termine) con controparti fuori bilancio – da cui il noto shadow banking system, su cui enormi responsabilità gravano sulle autorità di vigilanza.

Siamo d'accordo con coloro che contrastano il Too Big To Fail (TBTF), ossia l'invulnerabilità e il salvataggio obbligato delle banche. Come ha sostenuto Nassim Taleb “Nulla dovrebbe mai diventare troppo grande per fallire. Quel che è fragile dovrebbe rompersi presto, finchè è ancora piccolo” (Il Sole 24 Ore, 31.8.10).

Ma quel che ci preme sottolineare è che l’impresa è una equazione complessa. Non c’è solo il management e gli azionisti. Non c’è solo la proprietà. Ci sono il lavoro, i talenti, la conoscenza accumulata, il territorio, l’ambiente. E come ci ricorda Marco Vitale il mandato professionale del management non è quello di produrre, comunque, valore per gli azionisti; è quello di produrre valore aggiunto per l’impresa. Chi guida l’impresa deve, invece, assicurare la sana sopravvivenza della stessa nel tempo.

Bisogna avere il coraggio di dire che molti dei grandi CEO che ci hanno portato alla crisi non sono manager, ma pirati, e che molti di loro sono semplici palloni gonfiati, abili nel furto con destrezza e forti solo del loro smisurato cinismo, e dell’uso spregiudicato della violenza. Come i mafiosi” (M. Vitale, Passaggio al futuro, EGEA, 2010, p.96).

Shareholder value maximization is dead”, Financial Times, 16th March 2009

martedì 11 settembre 2012

September 11: Siamo tutti americani

Nell'ottobre scorso io e mia moglie siamo partiti per New York - vedi post Appunti da Bryant Park - città contagiosa, meravigliosa, che ti fa venire voglia di vivere.

Avevamo con saggezza - ogni giorno migliaia di persone in fila ordinata si recano a Ground Zero - prenotato il pass per visitare il 9/11 Memorial . E' un'esperienza che consiglio a tutti.

I nomi di tutti i caduti sono scolpiti sul marmo nero. Il silenzio regna assoluto. Si sente solo lo scorrere dell'acqua delle due fontane che ricordano le Torri Gemelle.

Stamane ho ricevuto una mail dal direttore del 9/11 Memorial, Joe Daniel, che scrive:

"Dear Friend, Today, we honor the thousands of innocent men, women, and children who were taken from us too soon eleven years ago. Here at the 9/11 Memorial in New York City, we will read their names aloud. We will stand together in silence at six moments, marking when the Twin Towers were struck, the buildings fell, the Pentagon was attacked, and Flight 93 crashed in a Pennsylvania field. Together, we will remember the devastating loss and reflect on the preciousness of life.


Memorial 9/11
How you choose to observe the 9/11 anniversary is personal. Whether through quiet reflection or prayer, acts of service, or sharing a message of remembrance through social media, please join me in memorializing those who were killed and the sacrifices made on this day eleven years ago.

Despite the unimaginable tragedy of 9/11 itself, this day is also about the spirit of unity that came in the aftermath. It showed us that the best of humanity can overcome the worst hate. It gave us hope for the future".

E' questo il bello degli americani. Trovano sempre la forza di ripartire.

Come titolarono Le Monde e Il Corriere della Sera all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle, oggi, a 11 anni dall'11 settembre 2001, Siamo tutti americani.

L'11 settembre ha alterato in modo irreversibile il tradizionale rapporto tra potenza e sicurezza, sul piano psicologico e morale prima ancora che su quello materiale. E' stata ferita l'intimità della nazione americana.

Claudio Magris ha scritto: "L'11 settembre ha costretto a percepire concretamente, fisicamente, che la distruzione può colpire le nostre case, la nostra vita quotidiana; ha sgretolato ogni sicurezza. Ha trasformato il meccanismo della guerra, questa madre di tutte le cose, che ci sforziamo sinora invano di disinnescare e che rinasce in sempre nuove forme".

Non dimenticheremo.

lunedì 3 settembre 2012

Ritratto del Generale Dalla Chiesa a 30 anni dall'assassinio a Palermo

Ho un ricordo nitido. Era il 4 settembre 1982. Entro in cucina, sento dei singhiozzi. Vedo mia madre piangere. Le dico: “Mamma, perchè piangi?”. E lei: “Hanno ucciso il Generale Dalla Chiesa”. E la foto della prima pagina di Repubblica con la A112 bianca crivellata di colpi e il Generale proteso per proteggere sua moglie Emmanuela rimase per sempre nel mio archivio mentale.

Il grandissimo Gianni Brera disse: “Dalla Chiesa era così intelligente che per fargli un degno piropo' non mancavo mai di esprimergli la mia meraviglia: come aveva potuto fare tanta carriera in Italia con un cervello così fino?”.

Cosa è cambiato dal 1982? Quando Marco Vitale nel suo Passaggio al futuro (EGEA, 2010) dice saggiamente che noi non dobbiamo fare riforme – inconcludenti – ma risolvere problemi, la prima piaga biblica che invita ad affrontare è il peso abnorme della malavita organizzata.

Le cifre fanno impressione: l’insieme della attività illegali in Italia ammonterebbe a 419 miliardi di euro l’anno, secondo le stime più accreditate. Nessun Paese ha, nel suo tessuto sociale ed economico, una presenza di tale spessore della malavita organizzata. 13 dei quasi 17 milioni di italiani che vivono in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia convivono con le mafie. Parliamo del 22% della popolazione italiana, non quisquilie.

E aggiungiamo che la corruzione diffusa rappresenta l’humus ideale per la malavita organizzata.

Il giudice Davigo ironicamente ha affermato che se la “cricca” degli appalti della Protezione Civile – per intenderci Anemone, Verdini, Bertolaso, Carboni - si fa pagare con assegni circolari (e non con il consueto contante) poi incassati nella banca allora guidata – ora con pesanti motivazioni commissariata dalla Banca d’Italia – da Verdini, significa che la convinzione di impunità regna serena.

Un sano sviluppo economico non è compatibile con un alto e diffuso livello di corruzione e di malavita. La mafia è arretratezza, non sviluppo.

Il giudice Gian Carlo Caselli ha ricordato: “Dalla Chiesa ha occupato gran parte dei suoi 100 giorni come Prefetto di Palermo a parlare ai ragazzi delle scuole, agli operai dei cantieri navali, alla cittadinanza. Perchè sapeva che l’antimafia “delle manette” deve intrecciarsi con l’antimafia “dei diritti”. Altrimenti non si risolve nulla”.
Caselli ieri ha definito Dalla Chiesa "un servitore dello Stato fino al'estremo sacrificio".

Nell’intervista – testamento spirituale - a Giorgio Bocca pochi giorni prima di essere ucciso, il Generale Dalla Chiesa disse: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”.

Paolo Baffi
Nella mia ricerca storica sulla figura di Paolo Baffi - tra qualche mese dovrebbe uscire un mio saggio introduttivo al volume curato da me e Sandro Gerbi - ho trovato una significativa analisi di Marco Vitale, che in una Relazione del 1989 scrive: "Il potere è connaturato all'uomo; non esiste attività umana senza potere, e che non esiste potere senza responsabilità. La scelta è piuttosto tra i fini per i quali esercitare il piccolo o grande potere  che ci viene assegnato, tra potere responsabile e potere irresponsabile. Non dobbiamo fuggire il potere, anzi addestrarci a gestirlo, nelle grandi e nelle piccole cose, con responsabilità e per finalità positive. Paolo Baffi, il Generale Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli: questi uomini, semplicemente facendo fino il fondo il loro dovere professionale, esercitavano un potere. Ed è una grande fortuna, che, anche nei momenti più neri, vi siano uomini che non fuggono davanti alla necessità di esercitare, con responsabilità e per con l'accettazione consapevole dei rischi connessi, il loro potere".

Mi piace ricordare il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con un estratto di un suo intervento del 1° maggio 1982: “Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere nè ai prevaricatori, nè ai prepotenti, nè ai disonesti. Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma è anche un verbo. Ebbene, io l'ho colto e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni o almeno quelle che così estemporaneamente mi vengono in mente: poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l'interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che è fatta, è fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro, del lavoro di tanti”.

Caro Generale, ti sia lieve la terra.