lunedì 30 settembre 2019

L’esempio di Silvio Novembre, una vita per la cultura del rispetto delle regole

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Silvio Novembre
Siccome la memoria è l’arma dei deboli contro i forti, è un dovere civico oggi ricordare Silvio Novembre, scomparso l’altra notte a Milano. Maresciallo della Guardia di finanza, fu tra i principali collaboratori di Giorgio Ambrosoli durante la liquidazione della Banca Privata Italiana del banchiere-bancarottiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di colui che è stato definito da Corrado Stajano “Un eroe borghese”.
Nel corso delle ricerche storiche sulla figura di Paolo Baffi, ogni qualvolta avessi bisogno di confrontarmi, Novembre, generosissimo e dalla memoria prodigiosa, mi invitava a casa sua, dove stavo a sentirlo per ore, prendendo paginate di appunti. Il suo motto è sempre stato: “Più è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo”. A inizio dicembre 2014, nell’occasione dell’ennesimo incontro, il maresciallo mi disse: “Se Ambrosoli non si fosse opposto a Michele Sindona, Ferdinando Ventriglia sarebbe diventato governatore della Banca d’Italia, al posto di Paolo Baffi”. La storia non si fa con i “se”, ma la nomina di Baffi – il “governatore della Vigilanza” secondo Donato Masciandaro – a Via Nazionale è stata determinante – in positivo – per la storia italiana.
Secondo i giornali dell’epoca, Ventriglia organizzò una cena per festeggiare in anteprima la sua prossima nomina a governatore. L’imprimatur di Guido Carli – che forse manifestò la sua preferenza per bruciarlo – lo fece smaniare. Quando, grazie a Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, venne nominato Baffi, Carli disse: “Se ne accorgeranno”. Come dire, questi non conoscono la forza e l’intransigenza di Baffi. Purtroppo anni dopo – quando fu costretto a dimettersi per accuse poi rivelatisi senza fondamento alcuno (un “coacervo affaristico-politico-giudiziario”, con la regia di Giulio Andreotti) Baffi scrisse mestamente: “In realtà sono io che me ne sono dovuto accorgere”.

Nel dicembre 2014 Novembre fu insignito dell’Ambrogino d’oro su proposta dell’allora sindaco di Milano Giuliano Pisapia, con queste motivazioni: “Maresciallo della Guardia di Finanza, ha indagato per conto della Procura della Repubblica di Milano sul fallimento della Banca Privata Italiana. Con abnegazione ed altissima competenza tecnica, ha collaborato con il commissario liquidatore, avv. Giorgio Ambrosoli, standogli vicino ben oltre gli stretti obblighi di servizio (con la moglie ammalata per un tumore, Novembre faceva da scorta nella notte all’avvocato Ambrosoli, ndr). Ha contribuito poi, con i commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, alla tutela degli interessi collettivi. Fondatore del circolo Società Civile, ha diffuso in città e nelle scuole il valore della legalità, dell’integrità e della lotta alla corruzione. Milano onora in Silvio Novembre un esempio di servizio generoso e instancabile alle istituzioni”.
È utile ricordare che Sindona, che si opponeva con tutte le forze al team guidato da Ambrosoli, cercò in tutti i modi di far trasferire Silvio Novembre. Il 4 novembre 1977, sull’agenda di Rodolfo Guzzi, avvocato di Sindona, c’è una piccola annotazione: “Riunione con Licio Gelli. Sostituzione di Novembre”. Solo l’intervento dei giudici Guido Viola e Ovidio Urbisci presso il Comando Generale, sventa il trasferimento di Novembre sul Monte Bianco.
Ha ragione Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, nel dire che “perdiamo un esempio altissimo di cittadino, che ha saputo esercitare la propria responsabilità di privato e di uomo delle istituzioni con profondo amore per l’Italia. Il suo impegno è andato ben oltre le vicende della Banca di Sindona: quando lasciò la Guardia di finanza mise la sua esperienza e competenza a disposizione dei commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, avendo in quella occasione la possibilità anche di insegnare il suo metodo di lavoro ai tanti giovani collaboratori dei commissari”.
Silvio Novembre si è impegnato per anni nelle scuole e negli incontri per diffondere la cultura del rispetto delle regole e della ricerca della verità. Era una persona umile, non amava la ribalta. Ogni volta mi diceva con candore: “Io ho fatto solo il mio dovere”.
Se torniamo al terribile 1979, l’anno dell’omicidio Ambrosoli e dell’attacco alla Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli, vale la pena riprendere in mano il carteggio tra il governatore e Giorgio Bocca.
Il 17 luglio 1979 Giorgio Bocca firma in prima pagina un editoriale da incorniciare, dal titolo “Due cadaveri molto ingombranti: Ambrosoli e Varisco, drammi ignorati dall’Italia dell’indifferenza”.
 Questo l’attacco fulminante di Bocca: “Per capire quest’Italia che seppellisce in fretta i suoi cadaveri ingombranti e che, nella calura estiva finge di non vedere i suoi fantasmi, conviene osservare alcune fotografie. In una c’è la famiglia Ambrosoli che arriva alla basilica di san Vittore, a Milano, per il funerale di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato morto ammazzato perché sapeva troppe cose di don Michele Sindona e dei suoi amici altolocati. La signora Anna Lorenza non piange, avanza tenendo per mano i figli, Filippo di dieci anni e Umberto di otto anche essi a ciglio asciutto; due amici di famiglia o parenti camminano ai lati come in un affettuoso servizio e anche sui loro visi si legge questa pacata ma ferma testimonianza: ci siamo ancora, in questo paese c’è ancora gente che non si lascia intimidire dai cialtroni e dai Mafiosi, che non recita il suo dolore, che difende una buona educazione senza la quale non si può essere classe dirigente”.
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Annalori e i figli al funerale di Giorgio Ambrosoli
Bocca prosegue: “In un’altra fotografia, sempre ai funerali di Giorgio Ambrosoli, si vede Paolo Baffi, il governatore della Banca d’Italia, il solo gran commesso dello Stato, la sola autorità, il solo uomo di potere che abbia capito che con Giorgio Ambrosoli non si seppelliva un professionista qualsiasi, vittima di un disgraziato incidente, ma uno dei non molti che cercano di salvare l’essenziale di una civile convivenza; e non sembra casuale che Paolo Baffi, l’unico a capire, a sentire che bisognava esserci al funerale di Ambrosoli, sia a sua volta sottoposto ai ricatti e ai messaggi di una giustizia che vede le pagliuzze e non i tronchi”.
Questa la testimonianza orale – trascritta dal sottoscritto – di Silvio Novembre che conferma ciò che scrive Bocca: «Nel breve percorso a piedi verso il cimitero, Baffi mi disse: “Come è diverso morire a Roma. Qui siamo in pochi e non è presente alcun rappresentante delle istituzioni. La settimana scorsa sono stato a un funerale a Roma e le autorità c’erano tutte con le loro auto blu”».
A stretto giro di posta – 23 luglio 1979 (Archivio Storico della Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario) – Baffi risponde a Bocca: “Caro dottor Bocca, l’attacco contro la Banca d’Italia e la mia persona è stato così massiccio e spietato, ha usato in alcuni organi di stampa argomenti così fraudolenti, abietti e malvagi, che solo quattro e più decenni di lavoro onesto e di profonda reciproca conoscenza con i massimi dirigenti delle altre banche centrali hanno potuto farmi scudo contro colpi che avrebbero diversamente ferito l’immagine della Banca e mia. Ma anche così essendo, il Suo articolo sulla Repubblica mi ha aiutato, venendo a conferma dell’opinione che i miei colleghi all’estero si erano formati su questo maledetto affaire. (…) Le sono grato e Le presento gli auguri più fervidi per le battaglie che Ella conduce al fine di avvicinare l’Italia al modello di una convivenza civile”.
La domanda da porci oggi è se l’Italia ha raggiunto un livello decente di civile convivenza e viene da rispondere “no”.
L’ultima volta che ci siamo visti, nell’osservare alla parete del salotto l’onorificenza di “Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”, Novembre, con gli occhi lucidi, mi ha mostrato una sua foto con Carlo Azeglio Ciampi e mi ha detto: “Io nutro per Ciampi una stima incommensurabile. Non so quante volte ci siamo visti, sia per Sindona che per il Banco Ambrosiano. Sono state per me le soddisfazioni di una vita”.
L’ho ringraziato ancora per l’esempio che ha dato a tutti gli italiani, l’ho abbracciato con forza e lui pure, con tutta la sua possente stazza. Ma come Primo Carnera, Novembre era buono come il pane.
Ti sia lieve la terra, caro Silvio Novembre.

Pubblicato il 29 settembre su Econopoly, blog del Sole 24 Ore

mercoledì 18 settembre 2019

La parabola di Matteo Salvini, accecato dalla tracotanza


Il leader della Lega Matteo Salvini – evocando le parole di Benito Mussolini del 1922 – nel mezzo dell'estate, accecato dalla tracotanza, ha chiesto “pieni poteri” agli italiani, stufo dei “no” del Movimento 5 Stelle, delle pastoie della politica, dimenticandosi che la democrazia ha delle regole, che siamo in una repubblica parlamentare, che esiste un Presidente della Repubblica che non lavora sotto dettatura, un sistema democratico di contropoteri, di “check & balance”, che rendono il nostro sistema immune a un’altra dittatura.

La stampa deve funzionare da quarto potere, svolgere il compito determinante di far comprendere all’opinione pubblica le questioni che contano. L’economista Paolo Sylos Labini, invitava sempre a discernere, ad andare in profondità, stabilendo la corretta gerarchia dell’ordine delle priorità.
Una volta caduto il governo giallo-verde (Conte I) ci chiediamo cosa avrebbe potuto farne Salvini dei “pieni poteri” a livello di politica economica. Avrebbe certamente mantenuto come consiglieri due anti-Euro come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, pericolosi assai soprattutto per il contribuente il quale ha pagato con lo spread maggiori costi sul debito pubblico. Quali alleanze avrebbe costruito in Europa? Avrebbe ascoltato gli industriali del Nord che sono competitivi a livello mondiale o coloro – piccoli imprenditori - che auspicano ancora il binomio svalutazione & deficit pubblico?  

Fortunatamente il nuovo governo giallo-rosso ha ricominciato a dialogare con l’Europa, nell’ottica di rappresentare un’Italia come forza europea. I nostri mercati di esportazione sono Germania, Francia e Inghilterra. Non Ungheria e Polonia. Come Paese fondatore della Ue, come abbiamo potuto porci sempre all’attacco delle istituzioni europee? Quando la sola regione Sicilia ha più dipendenti di tutta l’Unione Europea, Salvini appena ha potuto ha sostenuto che tutta la colpa della mancata crescita economica italiana sta negli “odiosi euroburocrati” che non ci consentono di sforare i parametri di Maastricht.
La verità – che fa male – come cantava Caterina Caselli, è un’altra: il motore della nostra economia è inceppato da venticinque anni: criminalità, sistema pubblico inefficiente, nanismo della imprese, familismo amorale hanno bloccato la crescita, che non può riaversi con prebende e sussidi concessi in deficit. La ricetta del reddito di cittadinanza è stata fallimentare perché ha alimentato l’idea che stare in panciolle ha più senso (e reddito) che lavorare.  

Fabrizio Saccomanni - una vita in Banca d’Italia come civil servant fino alla direzione generale (non divenne Governatore solo per il veto di Silvio Berlusconi), scomparso quest'estate, uno dei tanti costruttori dell’Italia europea - era ben consapevole dell’importanza dei rapporti internazionali e criticava l’irresponsabile strategia della “sedia vuota” (come quella seguita dal generale Charles De Gaulle negli anni sessanta per sabotare le funzioni del Consiglio europeo ). E’ invece stata la linea scelta dai due ex vice-premier, che non hanno mai partecipato ai vertici europei, come quelli sulle politiche migratorie previste dal trattato di Dublino e al contempo hanno biasimato l’Europa in modo autolesionistico senza cercare alleanze e compromessi.
W l'unione europea, pensata nel 1940 da Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi in esilio fascista a Ventotene.