Federico Fubini e Beniamino A. Piccone |
La via di Fuga è il titolo del bel libro di Fubini, che prima di appassionarsi di economia, ha studiato il mondo greco, in particolare Tucidide e Platone (come Carlo Azeglio Ciampi, laureato in lettere classiche alla Normale di Pisa).
Il viaggio di Fubini è un viaggio nel tempo, dove le vicende della sua famiglia – con al centro il prozio Renzo Fubini – si intersecano con la crisi greca, e - con la tecnica del flash-back cara al mondo cinematografico – la crisi mondiale degli anni ’30. Scrive correttamente Fubini nei ringraziamenti che “davvero una famiglia a volte non è solo un luogo, ma un viaggio nel tempo”.
Fubini è andato alla ricerca di documenti che illuminassero la storia di Renzo, che si conclude purtroppo tragicamente ad Auschwitz nel 1944. Ha
cercato anche negli archivi della Rockfeller Foundation, trovando dei docs interessanti. In particolare
una lettera di Renzo Fubini al suo professore Luigi Einaudi, a cui chiede aiuto
per espatriare (ebreo) con una borsa di studio della fondazione Rockfeller. La
lettera è del 29 gennaio 1939, senza aggiungere il periodo
dell’era fascista.
Nel 1937
l’allora governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini scrive al giovane
Paolo Baffi invitandolo ad andare a studiare a Londra come è organizzato il Servizio
Studi della Bank of England e, al
contrario di Renzo Fubini, scrive, dopo la data “XV”: sono passati 15 anni dal
1922, inizio dell’era fascista. In un’altra lettera di Azzolini presso l’ASBI,
si può leggere il timbro VINCERE. Che tempi bui.
Quando Renzo
Fubini lavorava ormai da 4 anni a Trieste, nel 1937, sono gli anni del post
“quota 90”, quando Mussolini causò (nel 1926) con una politica del cambio
fallace – rivalutazione eccessiva verso la sterlina e il dollaro – una forte
deflazione. Fubini scrive: “Prima di
entrare in guerra, l’Italia era già esausta”, “le vendite di prodotti alimentari tra il 1935 e il 1938 sono scese del
28%”.
Benito Mussolini |
Noi condurremo con la più strenua
decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto
il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo
sangue. Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da
quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la
catastrofe economica del fallimento della lira. […] La nostra lira, che
rappresenta il simbolo della Nazione, il segno della nostra ricchezza, il
frutto delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle
nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa.
Il 21
dicembre 1927 il cambio venne fissato a 92,46 rispetto alla sterlina,
corrispondente a quota 19 rispetto al dollaro. Rivalutare da 150 a 90 lire per
sterlina fu un’esagerazione che portò all’apprezzamento del cambio «reale» del
30 per cento tra il 1925 e il 1935. Come scriverà Pierluigi Ciocca, «gli
industriali chiesero compensazioni per la decurtazione della competitività e di
profitti subìta. Le compensazioni vennero concesse, con tanta larghezza da
spegnere lo stimolo alla ricerca dell’efficienza e dell’innovazione da parte
delle imprese.
I
profitti “facili” contribuirono a far scendere a zero il contributo del
progresso tecnico alla crescita del PIL nel periodo fascista».
Negli
anni successivi, di fronte alla svalutazione della sterlina nel settembre 1931,
l’Italia mantenne fermo l’aggancio all’oro, determinando un ulteriore
apprezzamento del cambio e un inasprimento della deflazione.
Da qui «un’ondata
di fallimenti». Baffi spiega come si possa commettere un errore esiziale se,
pur scegliendo il regime di cambio corretto, si sbaglia il livello del
cambio. Con formidabile sintesi così conclude: «Mussolini aveva nella
rivalutazione della lira una buona causa, che trovava consensi: con ampiezza di
mezzi, la coltivò oltre il punto nel quale cessava di essere tale».
Lo
vediamo anche oggi che in Italia, in una situazione di deflazione, la discesa
dei prezzi rende ancora maggiore il peso del debito, che continua a crescere
con gli interessi.
Guido Carli |
“Il Piccolo di Trieste in quei mesi è pieno di teorie del complotto della finanza internazionale che ostacola l’ascesa dell’Italia”, scrive Fubini. Su questo punto valgono le parole di Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975 che in un passaggio di Cinquant’anni di vita italiana scrive parole memorabili: “Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascistica, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero interi pezzi della ricchezza nazionale...La tesi che denuncia piani destabilizzanti, orditi da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha il diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui Titoli della Repubblica o su quelli di altri Stati”.
“Exit, voice or loyalty” (1970) di Albert Hirshman è una delle chiavi di lettura del volume. Hirschmann spiega con chiarezza come le persone reagiscono al degrado di un’impresa, di
un’organizzazione o di un paese cui appartengono.
Se lo abbandoni
(exit, come Piero Gobetti, che fugge
a Parigi, dove morirà in seguito a pestaggi violenti di squadre fasciste), il
tuo mondo può fartela pagare a caro prezzo. Il restare leali (loyalty), costringe a negare a se stessi
problemi evidenti, voltandosi dall’altra parte per non vederli, pur di non
ammettere che la fedeltà è stata un errore.
Una quarta via
d’uscita a o variante della loyalty è
il rifiuto della realtà. “E prima o poi finisce in disfatta”. La negazione
della realtà, il denial, verrà
replicato in Grecia nel 2011-2012. “Erano i mesi (p. 52) in cui la Grecia
cercava di risvegliarsi dall’illusione di poter comprare il progresso con
debiti che poi sarebbe bastato rimuovere dai dati. Con l’ingresso nell’euro gli
aumenti di stipendio dei dipendenti pubblici erano stati di circa il 250 per
cento in dieci anni, il doppio rispetto all’Italia o alla Francia, e il loro
numero era anche raddoppiato. La gente si era abituata a veder migliorare il
proprio tenore di vita ogni anno senza per questo dover lavorare di più. I
politici acqusitavano popolarità fra i cittadini con il denaro dei cittadini
stessi, o dei loro figli che avrebbero dovuto pagarne i debiti, nascondendo
loro il prezzo fin quando era stato possibile. Nessuno si poneva domande
sull’origine di quella prosperità, almeno non in pubblico”.
Alla fine di
agosto del 1938, Hirschmann lascia Trieste – sua sorella Ursula sposa Eugenio
Colorni, uno dei leader dell’antifascismo, poi assassinato poco prima della
fine della guerra - per tornare a Parigi, per poi partire per gli Stati Uniti
(1941). Per la cronaca, Ursula poi sposerà Altiero Spinelli da cui avrà tre
figli, tra cui Barbara Spinelli, politologa di vaglia, oggi parlamentare
europeo nella lista Tsipras.
Questi miei sono solo degli spunti. Se volete approndire, leggete il libro di Federico Fubini. Ne vale la pena.
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