Per superare la crisi
economica, in Europa si sono seguite – con colpevole ritardo – le politiche
monetarie accomodanti degli Stati Uniti e del Giappone. Le politiche di
acquisto di titoli di Stato e corporate da parte della BCE – le cosiddette
politiche non convenzionali – sono arrivate tardi. Da qui la differente risposta
degli Stati Uniti e dell’Europa alla decelerazione economica seguita al crash
di Lehman Brothers del settembre 2008.
I bilanci delle banche
centrali si sono allargati a dismisura per consentire il corretto funzionamento
del meccanismo di trasmissione di politica monetaria. I tassi a lunga – quelli a
cui guardano gli imprenditori per le decisioni di investimento - sono scesi ai
minimi storici. In Europa i tassi a breve (determinati dalle banche centrali, e
non dal mercato) rimangono negativi. Tutti coloro i quali hanno mutui a tasso
variabile (indicizzati all’Euribor) hanno di che festeggiare, visto che ogni
mese la rata del mutuo scende per la parte relativa agli oneri sul debito
residuo.
Se negli Stati Uniti la
Federal Reserve ha iniziato a rialzare gradualmente i tassi di interesse – il
prossimo rialzo di 0,25% è previsto per il 14 giugno – la BCE nicchia e
aspetta. In un recente intervento Mario Draghi ha ribadito che, prima di
procedere a dichiarare la fine delle politiche di Quantitative Easing (QE, ossia
di acquisto di titoli sul mercato secondario da parte della BCE), è necessario
che la ripresa ciclica si rafforzi e non sia a macchia di leopardo. Mentre i
tedeschi invocano il tapering – ossia la riduzione degli acquisti, da taper che
significa ridurre, sopire, scemare – i Paesi mediterranei invocano la
continuazione delle politiche accomodanti.
Alla conferenza stampa
dell’8 giugno Draghi ha evidenziato come le attese di una rialzo
dell’inflazione sono ancora miti (i salari non salgono!). L’inflazione non c’è,
ed è sotto l’obiettivo della BCE pari all’1,9%. Draghi ha quindi invitato i
“falchi” (coloro che spingono per la fine delle politiche ultraespansive) a
pazientare, sottolineando che gli indicatori economici non indicano ancora una
ripresa nella UE corale, ampia e irreversibile.
Ogni mese la BCE acquista
60 miliardi di titoli, ridotti rispetto alla prima fase che ne prevedeva 80 al
mese. Le attese sono forti per una riduzione degli acquisti negli ultimi tre
mesi del 2017 per poi portare gli acquisti a zero entro la fine del 2018.
I giornali italiani
soffiano sul fuoco e sono ripartiti a parlare insistentemente dello spread
BTP-BUND, ossia della differenza di rendimento tra il titolo a 10 anni italiano
e quello tedesco. Lo spread è sempre stato sfavorevole, nel senso che gli
investitori hanno sempre chiesto un premio al rischio per detenere attività
emesse dal Tesoro italiano. Non tutti ricordano che nel dicembre 1998 – quando
il Ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi – lo spread BTP divenne per un
giorno negativo. Ah, quanto ci manca la saggezza di Ciampi, che viaggiava
sempre con lo spread aggiornato nel taschino della giacca! La credibilità
conta. Eccome. Più siamo credibili come Paese, meno paghiamo il costo del
debito.
E’ sommamente inutile
prendersela con gli investitori internazionali, definiti la “maleficaspeculazione”. Gli investitori fanno il loro mestiere. Prezzano il rischio.
Fino a che la spesa corrente crescerà senza fine – a dispetto dei dimissionari
commissari alla spending review – noi saremmo costretti a emettere debito. Ogni
anno il Tesoro organizza aste per oltre 300 miliardi di euro. Cari sovranisti,
con che faccia ci lamentiamo dello spread se dobbiamo sempre fare affidamento
sui creditori? Solo quando avremo la forza di invertire il trend e conseguire
un forte surplus primario, potremo vedere scendere il rapporto debito/pil.
Nelle ultime Considerazioni finali del governatore
della Banca d’Italia Ignazio Visco si legge: “Con un tasso di crescita annuo
intorno all’1%, l’inflazione al 2, un saldo primario (ossia al netto degli
interessi) in avanzo del 4% del PIL, consentirebbe di ridurre il rapporto tra
debito e PIL al di sotto del 100% in circa 10 anni”. Visto che l’avanzo
primario è nell’intorno dell’1%, servono 3 punti di PIL, circa 50 miliardi.
Gradualmente, ma in modo incisivo, visto che “restano ampi spazi di
razionalizzazione nell’allocazione delle risorse pubbliche”.
Notizie rassicuranti
vengono intanto dagli Stati Uniti, dove i gestori di capitali sui mercati
obbligazionari non credono alla ripresa trumpiana. Infatti l’indicatore
principe – il rendimento del Treasury bond decennale – segna il minimo
dell’anno nell’intorno del 2,14% (contro il 2,60% di gennaio). Significa che ci
sono delle forze strutturali – demografia in primis, oltre alla intollerabile
concentrazione del reddito e della ricchezza che porta i billionaire a
risparmiare, invece che consumare – che pressano i rendimenti al ribasso. E’
probabile che anche in Europa assisteremo per anni a tassi di interesse sotto
la media storica per un lungo periodo di tempo. Per cui anche l’Italia,
indebitato cronico, ne beneficierà. Ne approfitteremo o ancora una volta
butteremo al vento il risparmio di interessi sul debito in regalie, bonus
cultura e amenità varie?
Pubblicato anche su "La voce metropolitana", www.lavocemetropolitana.it
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