venerdì 12 maggio 2017

Attenzione ai CEO Napoleone: vogliono fare tutto da soli e portano le imprese al disastro

Un volume a cura di Mario Minoja - uscito grazie alla collaborazione del Comitato scientifico dell’Istituto per i valori di impresa (ISVI)Il buon governo. Insegnamenti dalle storie di imprese, istituzioni e realtà locali (Egea, 2016) invita a riflettere sulle interazioni tra valori e atteggiamenti e strategie di successo. Come scrive nella presentazione l’imprenditrice (INAZ) Linda Gilli sono decisivi i valori di integrità, innovazione, ricerca e apprendimento continui; gli atteggiamenti di curiosità, resilienza, fiducia nel futuro. Altrimenti non si va da nessuna parte.

Con il solito stile sferzante e documentato, Marco Vitale invita a imparare dalle storie di insuccesso. Troppo spesso di parla di imprese che funzionano. Riprendendo uno studio approfondito (del 2003) di Sydney FilkensteinWhy smart executives fail and what you can learn from their mistakes”- Perchè gli amministratori delegati falliscono e cosa si può imparare dai loro errori -, l’economista d’impresa bresciano sviluppa le sette cattive abitudini dei CEO che provocano grandi disastri aziendali.

Napoleone Bonaparte
Come si riconosce un Chief executive officer di tale fattura?

1.      Vedono loro stessi come dominatori e non reagiscono ai cambiamenti; è il classico errore della hubris, non ci si pone mai la domanda “dove stiamo sbagliando, da dove vengono i nuovi rischi?”. La loro sicurezza, o meglio sicumera, non li porta mai a dubitare della validità delle azioni. Avendo solo certezze, la direzione non prevede correzioni di rotta. I suggerimenti esterni non vengono ascoltati. 

2.      Si identificano in modo completo con l’azienda; non ci sono confini tra i loro interessi personali e quelli dell’organizzazione; è un pensiero frutto della concezione proprietaria. Il “fasso tutto mi” spesso degenera e crea servilismo. Non essendo ascoltati, i collaboratori evitano di utilizzare a dovere il senso critic.

3.      Sembrano avere tutte le risposte, in modo rapido e impulsivo; è pur vero che il mondo oggi viaggia a cinquecento all’ora, ma la strategia non si improvvisa, devono esserci studio e riflessione. La condivisione è necessaria. Carlo Azeglio Ciampi ricorda come l’atto volitivo, il decidere, sia quanto mai importante, visto che non decidere è decidere. Ma prima di scegliere Ciampi riuniva i collaboratori e li invitava ad affrontare il problema e a proprre soluzioni.

4.      Eliminano tutti coloro che possono ostacolare i loro sforzi; è notizia di pochi giorni fa che il CEO di Barclays Bank Jes Staley stava tramando e ostacolando un dipendente whistleblower che ha denunciato i suoi comportamenti scorretti; colui che “soffia nel fischietto” deve essere tutelato, non ostacolato. La governance della società deve prevedere meccanismi operativi tali da proteggere chi denuncia irregolarità aziendali. Se non ci fossero stati i “whistleblower”, gli scandali di Lehman Brothers ed Enron non sarebbero emersi.

5.      Sono dei portavoce instancabili dell’azienda; ma bisogna saper parlare sui fatti, non sulle favole, altrimenti è propaganda becera. La comunicazione non deve essere fine a se stessa. Se c’è incoerenza tra ciò che è e ciò che si comunica, il cliente perde fiducia nei confronti dell’impresa e del suo gruppo dirigente.

6.      Affrontano ostacoli spaventosi come impedimenti passeggeri; a furia di considerare i problemi strutturali come congiunturali, si perde di vista la forza dell’errore, che deve indurre correzioni di rotta.

7.      Riapplicano strategie e tattiche che hanno avuto successo in passato. Ma il mondo cambia in continuazione. Non è detto che la replica sia fruttuosa. Il contesto di riferimento è vitale. Pensiamo alla Coca Cola. Con il movimento guidato dall’ex sindaco di New York Mike Bloomberg contro le bibite gasate, non è più possibile vendere bibite zuccherate come un tempo. E’ necessario rivedere tutta la campagna pubblicitaria, aderendo alle tendenze salutiste imperanti.

Filkenstein osserva con amarezza: “Ancor più clamoroso, ciascuna di queste abitudini rappresenta una qualità che è largamente ammirata nel mondo degli affari odierno: in quanto società non solo tolleriamo le qualità che rendono i leader clamorosamente fallimentari, le incoraggiamo”.

Se non si ricorda - come fa Vitale - che il management è una disciplina antica, si compie un’involuzione verso un tecnicismo esasperato e poverissimo di contenuti. Si ha paura di schierarsi, di increspare troppo le acque. Nelle parole vivide di un alto dirigente di una grande banca italiana, si rischia la “mckinseyzzazione” dell’economia imprenditoriale.

Non mitizziamo l’homo oeconomicus. Le imprese sono come le famiglie, si può litigare, non intendersi più. Vitale invita a uscire da una visione astratta e ingenua dell’impresa come luogo di perfetta razionalità: “Le imprese sono organizzazioni sociali con tutte le debolezze, le incertezze, gli egoismi e le infamità delle società umane, dove degli uomini normali, nel bene e nel male, cercano, spesso non riuscendovi, di trovare un punto di equilibrio tra gli obiettivi sociali e la, spesso sfrenata, avidità di chi li guida”. Se faremo così, i fallimenti aziendali ci appariranno meno sorprendenti.

1 commento:

  1. Mi permetto di segnalare anche "Leader, giullari e impostori" di Manfred Kets de Vries che insegna psicologia sociale alla Harvard University of Business Administration.
    Comunque è curioso che ci si debba sempre riferire a letteratura anglosassone. Con difficoltà si possono ricostruire esempi in ambito nazionale. Eppure ci sono casi anche tra "virtuose" e premiate imprese italiane. Sempre per fini di apprendimento se ne dovrebbe costruire una lista. Purtroppo da sempre l'italica gente è più propensa a celebrare successi anche con l'impiego ad arte di sagome di cartone. Luigi

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