martedì 26 giugno 2018

Da Cavour a Donald Trump: dazi doganali e nazionalismo non portano da nessuna parte

Viviamo tempi di chiusura, di diffidenza verso gli altri Paesi, verso lo straniero. La crisi partita nel 2008 ha colpito il ceto medio nei Paesi sviluppati, che non riesce a festeggiare (ne avrebbe motivo) l'uscita di miliardi di persone - grazie alla globalizzazione - dalla miseria.
In queste condizioni ha buon gioco chi propone dazi doganali, chiusura delle frontiere, nazionalismi che credevamo morti e sepolti. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato, dopo la sua elezione, una battaglia per ridurre il deficit commerciale americano, pari nel 2017 a 566 miliardi di dollari.  In surplus con gli States ovviamente la Cina, e a seguire Giappone, UE e Messico. Se il motto di Trump è "America first", e al contempo l'America ha deciso di servirsi della Cina a livello manifatturiero, riesce difficile pensare che le cose possano cambiare.
L'ultima iniziativa statunitense prevede dazi su acciaio (25%) e alluminio (10%) provenienti dalla UE. Oggi Trump ha accusato Harley Davidson di delocalizzare in Europa e danneggiare gli Stati Uniti. "The Donald" cerca di plagiare il suo elettorato, i blue collar: insiste nel vole disegnare la geografia produttiva. Vorrebbe che le auto tedesche vendute sul suolo americano siano prodotte negli States.
Il rischio di escalation non è banale. Non dimentichiamo che la crisi degli anni '30 nacque per i protezionismi reciproci. Oggi il mondo rischia un calo nell'interscambio commerciale, che si rifletterebbe necessariamente sul Pil. Il clima di incertezza aumenta proprio quando la congiuntura europea sembrava aver preso forza.

Per un Paese esportatore come l'Italia che nel 2017 ha conseguito un avanzo commerciale (esportazioni-importazioni) pari a 47,5 miliardi di euro, proporre uno stop ai trattati di libero scambio - come ha recentemente paventato il ministro dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio in relazione al Ceta, accordo tra Canada e Unione Europea - è una follia.

Ha fatto bene Alessandro De Nicola su Repubblica a ricordare al ministro le parole di Carlo Cattaneo contro il nazionalismo economico pubblicate oltre 150 anni fa sulla rivista "Il Politecnico": "Non si fabbrica un'auna di Merletti a Malines, che Bergamo non tessa nello stesso tempo un'auna di cotone, Aleppo una di mussolina. Una verga di ferro esce dalla miniere di Upland, e nello stesso istante Brescia estrae un fucile dalla fornace, Birmingham un'ancora marina, Bristol una pioggia di fili metallici. Così ogni uomo risponde all'altro uomo: ogni colpo di martello ha la sua riscossa lontana".

Camillo Benso Conte di Cavour la pensava come Cattaneo e infatti, uomo di cultura europea, ribadì la sua linea di apertura dei mercati come stimolo all'innovazione industriale. Sono i settori aperti alla concorrenza che ottengono i maggiori incrementi nella produttività. Cavour aprì a una politica commerciale che respingeva il protezionismo dei passati ducati e regni italiani: doveva vincere il libero scambio attraverso una graduale riduzione delle tariffe, che conduce a una maggiore specializzazione delle imprese, che aumentano la loro competitività in mercati non più solo domestici.
Cavour scrive: "Quale era la cagione che metteva nel 1850 i nostri industriali in una condizione di inferiorità rispetto ai fabbricanti esteri, e specialmente ai fabbricanti inglesi? Non era il difetto di intelligenza...non era il difetto di forza motrice...ma era la ristrettezza del mercato"(cfr. Patrizio Bianchi, Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2017, p. 17).

Francois Mitterand
Come disse in un memorabile intervento al Parlamento europeo di Strasburgo Francois Mitterand nel 1995, "il nazionalismo è guerra": Bisogna vincere i propri pregiudizi, quello che vi domando è quasi impossibile, poiché bisogna superare la nostra storia. Se non riusciremo a superarla bisogna sapere che una regola si imporrà, signore e signori: il nazionalismo è la guerra. La guerra non è solamente il nostro passato, può anche essere il nostro futuro. E siamo noi, siete voi deputati che siete ormai i guardiani della nostra pace, della nostra sicurezza, del nostro futuro".

lunedì 18 giugno 2018

Un tempo si stava meglio? Giammai. Si stava malissimo

La mia formidabile insegnante di lettere consigliava sempre di diffidare da coloro che ci dipingono il passato come dorato. La nostalgia per i bei tempi andati non ha senso. Un tempo si stava molto peggio di oggi.
Un volume recente del filosofo francese Michel Serres (classe 1930) - Contro i bei tempi andati (Bollati Boringhieri, 2018) - mette in luce quanto siamo fortunati a vivere i tempi di oggi.
Mettiamo in fila qualche fatto:
- l'incremento verticale della speranza di vita;
- settant'anni di pace in Europa, cosa mai accaduta (la calma della pace spinge all'oblio);
- il virus della poliomielite è scomparso (sebbene i no-vax spingono per un suo ritorno); Serres scrive: "Non c'era sanità pubblica, i poveri soffrivano senza cure, i ricchi non se la passavano molto meglio; ...siccome non esistevano né analgesici, né antinfiammatori, bisognava sopportare il dolore; si cavavano i denti senza anestesia. Ho conosciuto due o tre generazioni di sdentati che si nutrivano solo di brodini".
- una volta si pisciava dove si poteva, il livello di igiene era infimo, diventò una pratica generalizzata solo molto dopo gli anni cinquanta. "Chi si lavava i denti mattina e sera?", scrive Serres. La maggioranza degli edifici non disponeva né di acqua corrente né di doccia. Negli anni trenta la rivista "Elle" si lanciò con clamore a raccomandare alla donne di cambiarsi le mutande tutte le mattine. Molti erano scandalizzati, la maggioranza trovava impossibile quella bella pretesa;
- siccome la terra è bassa, chi lavorava la terra (la maggioranza della popolazione) soffriva di mal di schiena. La sera di tornava a casa stremati. Adesso siamo costretti a fare jogging, per supplire all'assenza di sforzo fisico.
- la sicurezza alimentare. Serres ricorda che in famiglia avevano la sciolta almeno sei volte l'anno: "quando eravamo in collegio, la pasta brulicava di vermi. Ah, la biodiversità";
- i letti erano freddi. Senza riscaldamento, le camere restavano gelide per tutto l'inverno. "Infilarsi tra le lenzuola umide e fredde rasentava l'eroismo";
- la sessualità? Non se ne poteva parlare. In nessun modo. Tabù. La sifilide e le altre malattie veneree imperversavano e uccidevano una percentuale significativa della popolazione, senza possibilità di guarire;
- se oggi siamo sopraffatti dal presentismo, dall'immediatezza, dalle comunicazioni intense e dinamiche (ci irritiamo verso chi non risponde subito su whatsapp), un tempo non si faceva che aspettare, consumati dalla pazienza. L'immediatezza dell'appagamento non viene valorizzata a sufficienza.
Serres, membro dell'Académie Francaise, già docente di Storia della scienza a Stanford University,
chiude così le sue agili e intense riflessioni:
"Care Pollicine, cari Pollicini, non ditelo ai vecchi come me, è molto meglio oggi: la pace, la longevità, la pace, gli antidolorifici, la pace, il welfare, la pace, la sorveglianza alimentare, la pace, l'igiene e le cure palliative, la pace, i viaggi, la pace, le comunicazioni condivise, la pace, la vecchia tumescenza delle istituzioni dinosauro...".

Quando incontrate qualcuno che esclama "Un tempo si stava meglio", allontanatevi subito, non sa proprio come era terribile il passato. E di questi tempi, dove uno vale uno e l'ignoranza sembra vincere sull'incompetenza, leggere Michel Serres è una boccata di aria buona di montagna.