lunedì 16 aprile 2012

Federico Caffé è fuggito 25 anni fa ma le sue idee rimangono attualissime. Maestro passionale, non piaceva ai baroni che hanno distrutto l'università italiana

Sono ormai passati 25 anni dalla notte tra il 14 e il 15 aprile 1987, alba in cui il grande economista Federico Caffé scomparve nel nulla.

Leggiamo insieme un passo di Ermanno Rea in L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffé scomparso e mai più ritrovato, splendida testimonianza della vita austera da studioso di Federico Caffé: “Uscì di casa in punta di piedi per non svegliare il fratello e una fuga priva di testimoni, protetta dalle tenebre, si dissolse nel nulla. Aveva settantatre anni. Era professore fuori ruolo di Politica Economica e finanziaria alla Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Roma. Godeva di un grande prestigio intellettuale ed esercitava notevole fascino, soprattutto sugli studenti. Benché, fisicamente, lasciasse molto a desiderare. Piccolo di statura. Anzi piccolissimo”.

Il passaggio che piace in assoluto di più a mio figlio Chicco – vedasi post Mio padre, i miei figli, il desiderio di sapere e la forza della lettura - è questo: “Caffé pianificò la fuga preordinandone ogni movimento fino al più banale: come oltrepassare la porta di casa senza svegliare il fratello; quali abiti indossare, quali oggetti lasciare e quali portare con sé...Infine arrivò il momento di agire. A un’ora imprecisata, compresa tra l’una e le cinque del mattino, smise di pensare. Indossò i pantaloni grigi che aveva portato sino a poche ore prima, una giacca, una camicia, un impermeabile e, dopo aver disposto una serie di oggetti sul tavolino accanto al letto – l’orologio, gli occhiali, le chiavi, il passaporto, il libretto degli assegni – raggiunse in punta di piedi la porta di casa. Aprì con meticolosa lentezza la serratura evitando di fare anche il più piccolo timore. Poi si richiuse la porta alle spalle con la stessa cautela.
Appena al di là del portone si sentì investito da un flusso di acqua fredda: era fatta. Qualunque decisione fosse in procinto di attuare, non poté non percepirla come qualcosa d’irrevocabile”.

Federico Caffé
La sua scomparsa non fu certo un raptus ma una fuga premeditata a seguito di un tracollo emotivo sommato a crisi depressive. In una lettera al suo allievo Daniele Archibugi, Caffè scrisse: “L’interruzione del filo diretto con gli studenti, malgrado la preparazione spirituale, si è dimostrata molto più dura del previsto”.

Corrado Stajano ha scritto: “E’ un rompicapo angoscioso la vita e la sparizione di Caffé, un italiano serio che non aveva nulla in comune con l’Italia slabbrata, approssimativa dio quegli anni ‘80”.

Archibugi su Repubblica di qualche giorno fa ha scritto: “Dopo un quarto di secolo, possiamo solo constatare che, qualsiasi sia stato il destino del nostro maestro, è stato quello che lui si è scelto. La sua vicenda non sarebbe ancora un mistero se nelle ore successive alla sua scomparsa non avesse dimostrato di avere le doti professionali di un agente segreto assai più che quelle di un austero docente. Anche la sua ultima pagina l'ha scritta senza farsi aiutare da nessuno”.

Il Prof. Valentino disse: “Per tutta la vita Caffé ha fatto il pendolare tra la propria casa e l’Università senza mai concedersi passeggiate o gite, senza mai indulgere a curiosità turistiche di alcun genere”....La sua casa era l’Università. Arrivava al mattino alle otto e mezza e ne usciva dopo dodici ore filate (dopo aver spento le luci personalmente, che tempi!, ndr). A chi lo punzecchiava per il suo attaccamento al lavoro rispondeva: “Lo faccio per difendere il mio reddito reale. Se invece di starmene qui a studiare e a lavorare me ne andassi in giro a bighellonare chissà quanti soldi spenderei. Il lavoro per me è una forma di risparmio”.

La sua vita privata era l’economia, erano i suoi studenti. Li indicava dicendo: “Eccoli là i libri che non ho scritto”.

C’è un passaggio nel libro di Rea suggestivo e toccante. Quando Caffé fece gli esami di maturità – ragioneria – il commissario d’esame chiese “In quale città hai deciso di frequentare l’università?”. E Caffé rispose: “Non credo che andrò all’Università. Ho bisogno di lavorare”. Al che il commissario convocò alla stazione di Pescara i genitori di Caffé (di modeste origini), ai quali disse: “Caschi il mondo ma il suo ragazzo deve continuare a studiare”. La madre allora mise in vendita un piccolo lotto di terreno e Caffé partì per Roma.

In Banca d’Italia era stimatissimo. “C’era praticamente nato in Banca d’Italia. Vi aveva incontrato Luigi Einaudi e Donato Menichella, che aveva inciso sulla sua “formazione professionale” e gli aveva fornito “indimenticabili lezioni di umanità, di scrupolo, di rigore morale”. Vi aveva incontrato Guido Carli e Paolo Baffi, di cui era diventato amico affettuoso.... Erano fatti della stessa pasta, Baffi e Caffé. Uomini integerrimi. Studiosi senza altri interessi che quelli per la propria scienza”.

I cronisti ricordano la furia di Caffé quando il Governatore Baffi fu incriminato e la testimonianza portata in suo favore in Tribunale davanti ai magistrati - inqualificabili -  Infelisi e Alibrandi.

Pierluigi Ciocca, una vita in Banca d’Italia - ricorda: “La figura del consulente è sempre stata molto importante in Banca d’Italia. Svolgeva una funzione di riscontro critico oltre che di proposta, d’impostazione e di ricerca. In questo ruolo Caffè era ascoltatissimo”.

In questi giorni ho rimesso a posto alcune carte e ne ho ricavato alcune considerazioni, che condivido con voi lettori.

La più bella cosa è stata scritta da Daniele Archibugi, qualche giorno fa: “Quando la notizia divenne di pubblico dominio, giunsero numerosissimi allievi per aiutarci nelle ricerche. Spesso non ci conoscevamo, ma bastava uno sguardo per capire che appartenevamo alla medesima confraternita. Agli studenti degli ultimi anni si accompagnavano quelli dei decenni anteriori, e ognuno di loro chiedeva che cosa potesse fare di utile. Non era facile trovare una risposta perché neppure la polizia aveva fornito una casistica. Nell'organizzare le squadre che battevano la città palmo a palmo, chiedevo spesso qualche informazione sugli anni in cui lo avevano frequentato all'università. Mi sentivo ripetere sempre la stessa frase: «È stato il periodo più bello della mia vita». Ma lui, Federico Caffè, lo avrà mai saputo?”.

Un altro passo suggestivo è stato scritto da Guido Rey, allievo di Caffè e successivamente presidente dell’ISTAT in occasione dell’intitolazione a Caffé della Facoltà di Economia: “A questi giovani F. Caffè ha dedicato tutta intera la sua vita e a loro volta i giovani lo amavano per la lucidità espositiva, la veemenza nella condanna delle ingiustizie, la profonda dottrina, la vasta cultura e la prosa preziosa e al tempo stesso essenziale. Ai giovani delle ultime generazioni ha saputo trasmettere il suo sdegno all'idea “che un'intera generazione di giovani debba considerare di essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale”. Tra l’altro, quest’ultimo passaggio è di un’attualità sconvolgente.

Federico Caffé
In un momento in cui il welfare state italiano ha regalato troppo a troppi e non è più possibile continuare con una spesa pubblica che soffoca lo sviluppo, ripropongo il riformismo rigoroso di Caffé (amava alla stesso tempo Einaudi e Andreatta) che condannava “lo sfruttamento politico degli emarginati; la pressione dei furbi rispetto ai veri bisognosi nell'avvalersi delle varie prestazioni assistenziali, le ripercussioni dannose a carico del bilancio dello Stato dell’inclinazione lassista a voler dare tutto a tutti”.

Caffè si definiva così: “Un professore non è un conferenziere, non parla occasionalmente a degli sconosciuti che con tutta probabilità non rivedrà più. Un professore dialoga con gli studenti dei quali conosce spesso tutto o quasi tutto: problemi e speranze, capacità e lacune, ansie e incertezze. Li assiste nei loro bisogni. Li segue lungo una strada che può finire il giorno dell'esame ma che può anche andare avanti fino a quello della laurea e oltre”.

Ecco cosa ho imparato leggendo di Caffé. Quando insegno e faccio domande agli studenti, li stimolo in tutti i modi, cerco di accendere in loro il fuocherello di cui parlò Seneca.

Ezio Tarantelli
Cerco di seguire l’ottimo esempio di Caffè - maieuta di eccezionale levatura che ha avuto come allievi Ezio Tarantelli , Mario Draghi , Pierluigi Ciocca, Guido Rey, Bruno Amoroso, Ignazio Visco , Daniele Archibugi e tanti altri.

Risulto un professore diverso dal solito, perché mi interesso agli studenti, non mi accontento di dar loro un semplice voto all’esame, ma cerco di capire attraverso il dialogo quali sono i loro obiettivi e le loro aspirazioni. Tento di approfondire la conoscenza, capire quali sono i punti di partenza, i loro bisogni e le loro necessità. Questo perché ritengo che il compito di un Maestro sia quello di continuare ad alzare l’asticella dei suoi studenti migliori, di spingerli al massimo, ma per farlo deve capire a che altezza riescono già a saltare. Parlando con loro cerco di capire se reagiscono agli stimoli, cosa stanno imparando, se c’è materia grigia su cui poter lavorare. E cerco sempre di proporre ai miei migliori studenti obiettivi adeguati: per sviluppare i loro talenti non possono restare a Bergamo tutta la vita, devono ampliare i loro orizzonti. Solo che mi rendo conto che, se nessuno dice loro che meriterebbero qualcosa di più, anche gli studenti più promettenti rimarrebbero intrappolati, quando le migliori università del mondo stanno aspettando proprio loro.

Ed è davvero gratificante vedere qualche sparuto studente che ti ascolta, va in profondità come suggerisce Ciampi, approfondisce, non si accontenta delle slides di 30 anni fa del solito barone e ti martella via mail con richieste continue di chiarimenti e spiegazioni.

Queste sono soddisfazioni.

Federico Caffè, la terra ti sia lieve.

P.S.: per approfondimenti consiglio la lettura di:

Ermanno Rea, L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè, scomparso e mai più ritrovato, Einaudi, 1992
Bruno Amoroso, La stanza rossa, Città Aperta Edizioni, 2004
Federico Caffè, La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, 1990

1 commento:

  1. Si dovrebbe imparare da tutta vita di Federico Caffè, non solo dalla sua fine. Il lavoro del docente è uno dei più importanti dell'intera società, perché permette al "sapere" di passare da una generazione all'altra, arricchendosi e modificandosi ma senza perdere l'essenza, ossia la conoscenza.
    Proprio per questo un docente dovrebbe essere attento agli allievi, non accontentarsi di riempirli di nozioni come un vaso, ma di coltivarli, migliorarli, come una pianta; questo è possibile solo facendoli sentire parte di qualcosa, dando loro la giusta importanza e smussare i gradini della gerarchia, senza però confondere i ruoli.

    Tutto si può racchiudere nelle parole mdi Caffè: "Un professore non è un conferenziere, non parla occasionalmente a degli sconosciuti che con tutta probabilità non rivedrà più. Un professore dialoga con gli studenti dei quali conosce spesso tutto o quasi tutto: problemi e speranze, capacità e lacune, ansie e incertezze. Li assiste nei loro bisogni. Li segue lungo una strada che può finire il giorno dell'esame ma che può anche andare avanti fino a quello della laurea e oltre”. Sta tutto nel come si guardano gli studenti e nel tipo di importanza che gli si da loro.

    Come sono rari i docenti che capiscono tutto questo, sono anche rari gli studenti che si mettono a disposizione, che accettano di seguire qualcuno, di lanciarsi in nuove situazioni, che sono disposti ad imparare di più, per il piacere di sapere cose nuove e non solo per avere crediti formativi.
    Ognuno deve cercare di elevarsi un po', capire che solo attraverso la collaborazione e mettersi in disposizione si può migliorare davvero. Se non si sa come, basta pensare a caffè.

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