Lunedì scorso Fincantieri ha annunciato la chiusura degli impianti di Genova e Napoli, con conseguente tagli di 2.511 dipendenti. Ed è successo il finimondo. Come al solito ci si focalizza sul posto di lavoro e non sulla tutela del lavoratore. Di gran lunga meglio tutelare il lavoratore. Ma parlare di riforme in Italia è impossibile. Il Ministro Sacconi sostiene che non ci sia nulla da cambiare. Beato lui.
I fatti. La crisi internazionale ma soprattutto la concorrenza asiatica hanno avuto un forte impatto sul business di Fincantieri, la cantieristica navale sia per il trasporto merci che passeggeri (shipping). Come ha lucidamente scritto Gros-Pietro sul Sole 24 Ore , “Il primato mondiale di Fincantieri nelle navi da crociera si è basato su un affinamento delle tecniche manageriali che ha consentito una rigorosa programmazione dei tempi di consegna, elemento competitivo determinante in questo mercato. Ma si è avvalso anche di una filiera esterna al cantiere vero e proprio che ha trovato nella struttura produttiva italiana l’ambiente ideale”.
Ma è dagli anni ‘70 che la produzione di navi mercantili ha cominciato a spostarsi verso Oriente, prima in Giappone, poi in Corea negli anni ’80 e poi in Cina. L’Europa ha cercato di difendere le imprese europee concedendo contributi pubblici ai cantieri navali europei in modo decrescente (fino al 30% del prezzo di una nave) fino al 2000, poi ha chiuso i rubinetti. Quindi si è imposta la libera concorrenza – finally.
Oggi Cina e Corea hanno conquistato il 72% delle quote di mercato.
Il presidente di Fincantieri Corrado Antonini sintetizza così il quadro della situazione: “Oggi la capacità produttiva dei cantieri navali è doppia rispetto al previsto sviluppo della domanda di commesse. Per questo occorre un riequilibrio perchè sulla scena si trova lo stesso numero di player del periodo pre-crisi”.
Dal momento che il quadro era noto, il management di Fincantieri fin dal 2004 ha cercato di creare le condizioni per la quotazione di Fincantieri, così da poter raccogliere le risorse finanziarie sul mercato, necessarie per affrontare la competizione internazionale e dare all'azienda una migliore struttura finanziaria. Ma i sindacati, la FIOM in testa, si sono opposti, con una miopia allucinante.
Quindi Fincantieri deve affrontare gli agguerriti coreani e cinesi con una gamba sola, perchè il sindacato è contro la quotazione in borsa. Siamo andati sul web a cercare qualche titolo di giornale. Eccone qualcuno.
“Quotazione Fincantieri, i sindacati contro Prodi” (novembre 2007). Nel libro bianco sulla cantieristica sul sito http://www.fiom.cgil.it/ se ne leggono di tutti i colori: “Piano industriale debole, progetto “cartolarizzazione”....
Nell'appello all'allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, i lavoratori ribadirono: «Noi le chiediamo di non dare corso al progetto di privatizzazione e di quotazione in Borsa di Fincantieri. Lo facciamo oggi perché non vorremmo trovarci domani a protestare inutilmente contro le delocalizzazioni, gli smembramenti, i tagli all'occupazione, le chiusure che abbiamo subìto in tante altre aziende. Non faccia fare a Fincantieri la stessa fine di Telecom o di Alitalia. Noi costruiamo navi. Siamo operai, impiegati, tecnici, ingegneri e gli invisibili delle ditte di appalto senza diritti e senza tutele. Insieme siamo una delle più importanti industrie manifatturiere del nostro Paese. Siamo la Fincantieri e lavoriamo in 13 unità produttive situate in 7 regioni diverse. Quindici anni fa ci dissero che la cantieristica non aveva futuro. Ci ribellammo e riuscimmo a difendere i cantieri e il nostro lavoro. Abbiamo avuto ragione noi. Noi vogliamo che la Fincantieri non affondi. Costruiamo belle navi. Lasciateci continuare”.
Prodi – in qualità di economista di imprese industriali – si limitava a sensibilizzare i lavoratori sul prossimo consolidamento del settore, che avrebbe visto vincente il mondo asiatico – competitivo e largamente sussidiato dallo Stato - a meno che Fincantieri si fosse quotata e avesse ottenuto dal mercato le risorse per effettuare investimenti - acquisizione di alcuni concorrenti, partnership, joint venture. Invece il gruppo cantieristico norvegese Aker Yards, diretto concorrente, è stato acquisito dal gruppo coreano Stx Shipbuilding, quotato, che ha potuto scambiare carta quotata come contropartita.
Prima di chiudere, una nota. L’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono ha di recente affermato che a Monfalcone vi sono "soglie di assenteismo superiore al 16%, con un totale di ore lavorate annue intorno alle 1.400 procapite; in pratica - aggiunge - è come se si lavorasse per nove mesi all'anno, a fronte di una retribuzione di 13 mensilità". I sindacati non hanno nulla da dire. I sindacati difendono i lavoratori o i fannuloni?
Faccio mie le considerazioni di Gros-Pietro : “Non c’è speranza di successo se si pretende che l’azienda si faccia carico di tutte le inefficienze ambientali; che rinunci alla flessibilità del lavoro di cui godono i concorrenti europei, in un mercato che la richiede; che subisca forme di assenteismo imprevedibili e incontrollabili; che rinunci, come le è stato imposto quando ce n'era la possibilità, a trovare sul mercato capitali privati”.
Quando ho visto gli operai protestare contro i tagli annunciati da Fincantieri, mi è venuto da dire: “Ma andate a protestare sotto la sede della FIOM! E’ lì che dovete andare!”
lunedì 30 maggio 2011
mercoledì 25 maggio 2011
Los Indignados: il futuro non è più quello di una volta
E’ notizia degli ultimi giorni. Migliaia di giovani indignados hanno occupato la Puerta del Sol di Madrid e le piazze di altre città spagnole alla vigilia delle elezioni amministrative e regionali. Hanno sfidato il divieto di manifestare pre-elettorale. “Non siamo antisistema. E’ il sistema che è contro di noi”, urlano in migliaia.
La “generazione perduta” spagnola cerca di ribellarsi a una disoccupazione giovanile superiore al 40% e a un’economia stagnante (quest’anno il Pil della Spagna dovrebbe crescere solo dello 0,8%, largamente insufficiente per ridurre la disoccupazione).
Tutto è iniziato il 15 maggio quando centinaia di giovani – ispirandosi alla rivolta egiziana di Piazza Tahrir – hanno iniziato a manifestare contro la precarietà. Nasce quindi il Movimento 15-M, che chiede una democrazia partecipativa e la fine del bipartitismo, considerato l’origine della casta politica.
Lo scrittore Javier Cercas dà il proprio plauso: “Per la prima volta dalla Guerra Civile in Spagna c’è una generazione che non ha prospettive di migliorare la propria vita...Sono giovani che non hanno alcuna prospettiva di diventare adulti. Hanno studiato, si sono laureati, hanno viaggiato, sono preparati, ma non hanno alcuna chance”.
Il Corriere della Sera ha raccolto alcune testimonianze interessanti. Alberto, 24 anni, tecnico del suono: “Nessuno ti dà un’opportunità. Mi sento oppresso e ingannato”. Claudia, 20 anni. “A vent’anni non abbiamo futuro, abbiamo l’acqua alla gola. Le mie prospettive per i prossimi giorni e anni sono sempre le stesse: dipendere economicamente dai miei genitori”. Un altro indignado ha un cartello in mano che dice: “Siamo stati figli delle comodità ma non saremo padri del conformismo”. Oppure “Offresi schiavo per 700 euro al mese”. “Siamo la generazione più preparata e la meno valorizzata”.
Michele Serra scrive sulla sua amabile Amaca – must read del mattino: “Siamo seduti da anni sopra una polveriera sociale e facciamo finta di niente. Ai figli diamo soli (parecchi) ma ci siamo dimenticati quella impagabile liberazione che fu, per ognuno di noi, il primo stipendio: tanto emozionante quanto il primo amore”.
I giovani italiani sono pronti a reagire o sono al calduccio coccolati e ormai assopiti dallo sguardo troppo indulgente e dalla paghetta (o pagona) dei genitori? Io consiglio loro di farsi coraggio leggendo Barack Obama, non uno qualsiasi, il quale qualche giorno fa riferendosi ai Paesi della costa mediorientale ha detto: “Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi, ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l’America democratica deve appoggiarli”.
Un altro interessante spunto viene da Luigi Zingales, che dalla pagine del Sole 24 Ore invita i giovani italiani a speak out e stand out quando le cose non vanno per il verso giusto: “Non sorprendentemente, in un ricerca pubblicata di recente, Guido Tabellini trova una correlazione tra valori insegnati e crescita economica. Le regioni d'Europa in cui il principio di obbedienza all'autorità è uno dei primi valori insegnati crescono meno. È giunto il momento che anche in Italia si insegni il diritto-dovere di stand up ai don Rodrigo”.
Basta rassegnarsi al peggio!
Chiudo citando il grande sindacalista Giuseppe di Vittorio, che al termine dei suoi comizi diceva: “La storia è come un treno, anzi un carro che è mezzo affondato nel fango e non ce la fa più ad andare avanti. E’ il treno del progresso, per tutti. Ma adesso ci siamo noi che lo spingiamo, con le nostre lotte. Più lo spingiamo, più il treno va avanti. E alla fine arriva dove noi vogliamo”.
La “generazione perduta” spagnola cerca di ribellarsi a una disoccupazione giovanile superiore al 40% e a un’economia stagnante (quest’anno il Pil della Spagna dovrebbe crescere solo dello 0,8%, largamente insufficiente per ridurre la disoccupazione).
Tutto è iniziato il 15 maggio quando centinaia di giovani – ispirandosi alla rivolta egiziana di Piazza Tahrir – hanno iniziato a manifestare contro la precarietà. Nasce quindi il Movimento 15-M, che chiede una democrazia partecipativa e la fine del bipartitismo, considerato l’origine della casta politica.
Lo scrittore Javier Cercas dà il proprio plauso: “Per la prima volta dalla Guerra Civile in Spagna c’è una generazione che non ha prospettive di migliorare la propria vita...Sono giovani che non hanno alcuna prospettiva di diventare adulti. Hanno studiato, si sono laureati, hanno viaggiato, sono preparati, ma non hanno alcuna chance”.
Il Corriere della Sera ha raccolto alcune testimonianze interessanti. Alberto, 24 anni, tecnico del suono: “Nessuno ti dà un’opportunità. Mi sento oppresso e ingannato”. Claudia, 20 anni. “A vent’anni non abbiamo futuro, abbiamo l’acqua alla gola. Le mie prospettive per i prossimi giorni e anni sono sempre le stesse: dipendere economicamente dai miei genitori”. Un altro indignado ha un cartello in mano che dice: “Siamo stati figli delle comodità ma non saremo padri del conformismo”. Oppure “Offresi schiavo per 700 euro al mese”. “Siamo la generazione più preparata e la meno valorizzata”.
Michele Serra scrive sulla sua amabile Amaca – must read del mattino: “Siamo seduti da anni sopra una polveriera sociale e facciamo finta di niente. Ai figli diamo soli (parecchi) ma ci siamo dimenticati quella impagabile liberazione che fu, per ognuno di noi, il primo stipendio: tanto emozionante quanto il primo amore”.
I giovani italiani sono pronti a reagire o sono al calduccio coccolati e ormai assopiti dallo sguardo troppo indulgente e dalla paghetta (o pagona) dei genitori? Io consiglio loro di farsi coraggio leggendo Barack Obama, non uno qualsiasi, il quale qualche giorno fa riferendosi ai Paesi della costa mediorientale ha detto: “Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi, ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l’America democratica deve appoggiarli”.
Un altro interessante spunto viene da Luigi Zingales, che dalla pagine del Sole 24 Ore invita i giovani italiani a speak out e stand out quando le cose non vanno per il verso giusto: “Non sorprendentemente, in un ricerca pubblicata di recente, Guido Tabellini trova una correlazione tra valori insegnati e crescita economica. Le regioni d'Europa in cui il principio di obbedienza all'autorità è uno dei primi valori insegnati crescono meno. È giunto il momento che anche in Italia si insegni il diritto-dovere di stand up ai don Rodrigo”.
Basta rassegnarsi al peggio!
Chiudo citando il grande sindacalista Giuseppe di Vittorio, che al termine dei suoi comizi diceva: “La storia è come un treno, anzi un carro che è mezzo affondato nel fango e non ce la fa più ad andare avanti. E’ il treno del progresso, per tutti. Ma adesso ci siamo noi che lo spingiamo, con le nostre lotte. Più lo spingiamo, più il treno va avanti. E alla fine arriva dove noi vogliamo”.
lunedì 23 maggio 2011
Omaggio a Giovanni Falcone, magistrato
Il 23 maggio del 1992 una carica di cinque quintali di tritolo - posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina - pose fine alla vita di un valorosissimo magistrato, Giovanni Falcone, giudice istruttore e procuratore della Repubblica aggiunto a Palermo e successivamente direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazie e Giustizia. Nell'attentato persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo e diversi uomini della scorta.
Falcone è stato l’unico magistrato che si sia occupato in modo continuo e con impegno assoluto di Cosa Nostra. Ha spiegato ampiamente perchè la mafia italiana costituisca un mondo logico, razionale, funzionale e implacabile: “Cosa Nostra è un’organizzazione, il cui regolamento, per essere rispettato e applicato, necessita di meccanismi effettivi di sanzioni. Dal momento che all’interno dello Stato-mafia non esistono né tribunali né forze dell’ordine, è indispensabile che ciascuno dei suoi “cittadini” sappia che il castigo è inevitabile. Chi viola le regole sa che pagherà con le vita”.
Siccome ho il vizio della memoria, sono andato nella mia libreria e ho ripreso in mano Cose di cosa nostra (Rizzoli, 1991), l’intervista che la giornalista francese Marcelle Padovani fece a Falcone 20 anni fa.
Come avviene per i Maestri, le parole di Falcone non hanno perso nulla a distanza di tempo. Ci parlano come fossero di oggi.
Cerchiamo di trarne un profilo: “Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium...Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno”. Quando parla del padre, Falcone ne sottolinea la grande austerità: “Si vantava di non aver mai messo piede in un bar in tutta la vita”.
A fronte di una mole di processi di mafia azzerati dalla Cassazione, Falcone introdusse un metodo perchè “senza un metodo non si capisce niente”. L'architrave di Falcone era: “Segui il denaro”: “Se hanno venduto droga in America del nord, nelle banche siciliane saranno rimaste tracce delle operazioni realizzate. Così hanno avuto inizio le prime indagini bancarie (processo Spatola, 1979). Accumulare dati, informazioni, fatti fino a quando la testa ti scoppia, permette di valutate razionalmente e serenamente gli elementi necessari a sostenere una accusa. Il resto sono chiacchiere, ipotesi di lavoro, supposizioni, semplici divagazioni”.
Il pubblico ministero milanese Ilda Boccassini – che si trasferì da Milano a Caltanissetta per scoprire gli assassini di Giovanni Falcone – segue lo stesso metodo: follow the money. E i risultati si vedono.
Falcone dava fastidio e creava invidie. Un alto magistrato disse a Rocco Chinnici: “Seppelliscilo sotto una montagna di piccoli processi, almeno ci lascerà in pace”. I meritevoli in Italia hanno vita dura, vedi post.
La stessa Boccassini anni fa così si espresse: "Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento.[...] Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito".
Cosa significa mafia e lotta alla mafia? Sentiamo Falcone: “Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela che vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell’illegalità e che, appena di sente veramente contestata e in difficoltà, reagisce come può, abbassando la schiena. La mafia è l’organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare, rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme....Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una priovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, gente intimidita e ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
La mafia non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri.
La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa”.
Abbiamo scritto settimana scorsa sulla nefasta cultura italiana dell’emergenza. Sentiamo cosa dice Falcone: “Con quali strumenti affrontiamo oggi la mafia? In un modo tipicamente italiano, attraverso una proliferazione incontrollata di leggi ispirate alla logica dell’emergenza....Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati.
Professionalità significa adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora”. Parole sante.
Chiudo con Giovanni Falcone, che non volle dei figli per non lasciarli orfani: “Si muore generalmente perchè si è soli o perchè si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perchè non si dispone delle necessarie alleanze, perchè si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Caro Giovanni Falcone, ti sia lieve la terra.
Falcone è stato l’unico magistrato che si sia occupato in modo continuo e con impegno assoluto di Cosa Nostra. Ha spiegato ampiamente perchè la mafia italiana costituisca un mondo logico, razionale, funzionale e implacabile: “Cosa Nostra è un’organizzazione, il cui regolamento, per essere rispettato e applicato, necessita di meccanismi effettivi di sanzioni. Dal momento che all’interno dello Stato-mafia non esistono né tribunali né forze dell’ordine, è indispensabile che ciascuno dei suoi “cittadini” sappia che il castigo è inevitabile. Chi viola le regole sa che pagherà con le vita”.
Siccome ho il vizio della memoria, sono andato nella mia libreria e ho ripreso in mano Cose di cosa nostra (Rizzoli, 1991), l’intervista che la giornalista francese Marcelle Padovani fece a Falcone 20 anni fa.
Come avviene per i Maestri, le parole di Falcone non hanno perso nulla a distanza di tempo. Ci parlano come fossero di oggi.
Cerchiamo di trarne un profilo: “Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium...Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno”. Quando parla del padre, Falcone ne sottolinea la grande austerità: “Si vantava di non aver mai messo piede in un bar in tutta la vita”.
A fronte di una mole di processi di mafia azzerati dalla Cassazione, Falcone introdusse un metodo perchè “senza un metodo non si capisce niente”. L'architrave di Falcone era: “Segui il denaro”: “Se hanno venduto droga in America del nord, nelle banche siciliane saranno rimaste tracce delle operazioni realizzate. Così hanno avuto inizio le prime indagini bancarie (processo Spatola, 1979). Accumulare dati, informazioni, fatti fino a quando la testa ti scoppia, permette di valutate razionalmente e serenamente gli elementi necessari a sostenere una accusa. Il resto sono chiacchiere, ipotesi di lavoro, supposizioni, semplici divagazioni”.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino |
Falcone dava fastidio e creava invidie. Un alto magistrato disse a Rocco Chinnici: “Seppelliscilo sotto una montagna di piccoli processi, almeno ci lascerà in pace”. I meritevoli in Italia hanno vita dura, vedi post.
La stessa Boccassini anni fa così si espresse: "Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento.[...] Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito".
Cosa significa mafia e lotta alla mafia? Sentiamo Falcone: “Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela che vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell’illegalità e che, appena di sente veramente contestata e in difficoltà, reagisce come può, abbassando la schiena. La mafia è l’organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare, rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme....Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una priovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, gente intimidita e ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
La mafia non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri.
La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa”.
Abbiamo scritto settimana scorsa sulla nefasta cultura italiana dell’emergenza. Sentiamo cosa dice Falcone: “Con quali strumenti affrontiamo oggi la mafia? In un modo tipicamente italiano, attraverso una proliferazione incontrollata di leggi ispirate alla logica dell’emergenza....Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati.
Capaci, il luogo dell'agguato |
Chiudo con Giovanni Falcone, che non volle dei figli per non lasciarli orfani: “Si muore generalmente perchè si è soli o perchè si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perchè non si dispone delle necessarie alleanze, perchè si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Caro Giovanni Falcone, ti sia lieve la terra.
mercoledì 18 maggio 2011
La Germania cresce e l'Italia è ferma. Non sappiamo distinguere tra emergenza ed importanza
Nell’ultima settimana abbiamo scoperto che il PIL della locomotiva tedesca viaggia verso una crescita tendenziale di 4,9% contro l’esiguo 1% dell’Italia.
Il Sole 24 Ore indica i fattori competitivi tedeschi: alta produttività, ricerca, export che vale il 50% del Pil, infrastrutture. Tutto giusto. Ma alla base c’è una sana concezione del lungo termine e della fondamentale analisi delle priorità e della distinzione tra importanza e emergenza. Tra importanza e urgenza. I tedeschi si focalizzano sulla prima, noi sempre e solo sulle emergenze.
Sono passato domenica a salutare mia madre, in compagnia dei miei figli. Mentre il risotto – specialità di mia madre, lombarda doc - era in preparazione, sono passato in libreria alla ricerca di un libro. E con grande soddisfazione, l’ho trovato.
Si tratta di un mio mito personale, Gioele Dix, comico che ho iniziato ad apprezzare quando ero ragazzo seguendo il Maurizio Costanzo Show.
Sto parlando del Manuale del vero automobilista (M.M. Edizioni, 1991), che mi permette di affrontare la distinzione fondamentale tra importanza ed emergenza.
Dix: “In Italia le LUCI DI EMERGENZA vengono usate in qualunque caso emerga: un’idea, uno spunto, un impegno, una necessità inderogabile (per esempio, comperare le paste per i bambini). Gli eventuali ingorghi creati dall’improvvisa sosta lasciano indifferente l’automobilista in emergenza. L’accensione delle apposite luci è considerata, infatti, una forma ineccepibile di autocertificazione.
Ben diverso è l’uso che delle LUCI DI EMERGENZA fanno gli automobilisti in Germania, paese nel quale, non a caso, esse sono state concepite ed adottate per prime. E’ il concetto stesso di emergenza ad essere profondamente differente in quel PAESE”.
Gioele Dix prosegue nella sua ironia citando un fantomatico famoso automobilista tedesco, che ha raccolto le sue memorie di vita alla guida della propria Mercedes:
”Mi trovavo nella Foresta Nera, era notte fonda e la mia macchina proprio non ne voleva saperne di ripartire...mi resi conto che una tormenta di neve del genere non l’avevo mai vista e tutti quei lupi affamati che circondavano l’automobile proprio non mi mettevano tranquillo...intravidi, là avanti, un gran numero di TIR: capii subito che stavano per cominciare la solita gara “del chilometro lanciato a fari spenti” proprio nella mia direzione...giusto in quel momento, comparvero un centinaio di neonazisti armati ed era chairo che mi avrebbero fatto fuori....fu allora che decisi di accendere le luci di emergenza”.
Chiudiamo con una riflessione della scienziata della politica alla Columbia University Nadia Urbinati – La continua emergenza, Repubblica 28.11.10 – scrive: “Ma la logica dell´emergenza è che, se tale deve essere, non può passare mai. L´emergenza è come fermare l´orologio: impedire che dall´emergenza si snodi l´evoluzione del caso e diventi un problema da risolvere. Emergenza permanente significa anche notizia spettacolare dell´evento, solo dell´evento”.
Il Sole 24 Ore indica i fattori competitivi tedeschi: alta produttività, ricerca, export che vale il 50% del Pil, infrastrutture. Tutto giusto. Ma alla base c’è una sana concezione del lungo termine e della fondamentale analisi delle priorità e della distinzione tra importanza e emergenza. Tra importanza e urgenza. I tedeschi si focalizzano sulla prima, noi sempre e solo sulle emergenze.
Sono passato domenica a salutare mia madre, in compagnia dei miei figli. Mentre il risotto – specialità di mia madre, lombarda doc - era in preparazione, sono passato in libreria alla ricerca di un libro. E con grande soddisfazione, l’ho trovato.
Si tratta di un mio mito personale, Gioele Dix, comico che ho iniziato ad apprezzare quando ero ragazzo seguendo il Maurizio Costanzo Show.
Sto parlando del Manuale del vero automobilista (M.M. Edizioni, 1991), che mi permette di affrontare la distinzione fondamentale tra importanza ed emergenza.
Dix: “In Italia le LUCI DI EMERGENZA vengono usate in qualunque caso emerga: un’idea, uno spunto, un impegno, una necessità inderogabile (per esempio, comperare le paste per i bambini). Gli eventuali ingorghi creati dall’improvvisa sosta lasciano indifferente l’automobilista in emergenza. L’accensione delle apposite luci è considerata, infatti, una forma ineccepibile di autocertificazione.
Ben diverso è l’uso che delle LUCI DI EMERGENZA fanno gli automobilisti in Germania, paese nel quale, non a caso, esse sono state concepite ed adottate per prime. E’ il concetto stesso di emergenza ad essere profondamente differente in quel PAESE”.
Gioele Dix prosegue nella sua ironia citando un fantomatico famoso automobilista tedesco, che ha raccolto le sue memorie di vita alla guida della propria Mercedes:
”Mi trovavo nella Foresta Nera, era notte fonda e la mia macchina proprio non ne voleva saperne di ripartire...mi resi conto che una tormenta di neve del genere non l’avevo mai vista e tutti quei lupi affamati che circondavano l’automobile proprio non mi mettevano tranquillo...intravidi, là avanti, un gran numero di TIR: capii subito che stavano per cominciare la solita gara “del chilometro lanciato a fari spenti” proprio nella mia direzione...giusto in quel momento, comparvero un centinaio di neonazisti armati ed era chairo che mi avrebbero fatto fuori....fu allora che decisi di accendere le luci di emergenza”.
Nadia Urbinati |
lunedì 16 maggio 2011
L’America festeggia la vittoria delle regole: condannato per insider trading un gestore truffaldino di un hedge fund. Viva la cultura della vergogna. Noi ce la sognamo!
Il gestore Raj Rajaratnam |
Per la cronaca il gestore originario dello Sri-Lanka - che ha accumulato nel tempo (ha 53 anni, il fondo Galleon esiste dal 1996) una ricchezza personale superiore al miliardo di dollari (per cui la cauzione di 100 milioni di $ gli fa un baffo) – rischia fino a 19 anni e mezzo di carcere (sentenza il prossimo 29 luglio).
Festeggiare una condanna per insider trading è ragionevole, perchè è così che si difende la reputazione di un mercato finanziario e della sua fairness. Riportiamo le parole del procuratore di Manhattan che ha istruito il caso, Mr Preet Bharara: “The message today is clear – there are rules and there are laws, and they apply to everyone, no matter who you are, or how much money you have. Unlawful insider trading should be offensive to everyone who believes in, and relies on, the market. It cheats the ordinary investor.… We will continue to pursue and prosecute those who believe they are both above the law and too smart to get caught”. Bisognerebbe scolpirlo a caratteri cubitali fuori da ogni Tribunale italiano! Da noi valgono le regole di Orwell nella Fattoria degli animali. Tutti sono uguali ma c’è qualcuno più uguale degli altri.
La condanna del gestore è stata possibile grazie al forte utilizzo delle intercettazioni telefoniche, che hanno costituito l’elemento decisivo. Il WSJ ha scritto: “It was the first insider-trading prosecution to use methods that had been mainly reserved for organized-crime, drug and terrorism cases”.
Sono state ascoltate dai giudici 45 conversazioni registrate - incontrovertibili - tra le quali ne segnaliamo una dello scaltro Rajaratnam: “You must defer to you on IBM. And Akamai too. But with AMD (Advanced MacroDevices, ndr), bring it on, baby”. Troppo comodo fare soldi così con le informazioni riservate! Altro che analisi fondamentale e studio delle società. Molto meglio, agli occhi del gestore manigoldo, avere informazioni di prima qualità forniti dalla top tier american business class.
Ci allineamo al commento del Financial Times:” This verdict is not only welcome but important. It is welcome because it should nail the idea that juries are incapable of following complex fraud trials. This has tended to inhibit criminal prosecutors from bringing cases they fear they may lose. The broader lesson is that the authorities should be encouraged to pursue insider trading cases more aggressively”.
In difesa del mercato e a favore dell’accusa è intervenuto al processo anche l’attuale CEO di Goldman, Mr Blankfein, il quale ha dichiarato di essere rimasto sbalordito dal comportamento di Gupta – esonerato dal suo incarico di consigliere – che ha causato una perdita per gli investitori che acquistarono il titolo da Galleon ignari di un’imminente notizia negativa.
Sempre l’FT con John Gapper ha elogiato i giudici (strano, visto dall’Italia): “The prosecutors and law enforcers deserve at least one day of celebration. They peered into the chasm of defeat during the jury’s discussions and have emerged with their powers and authority reinforced. For all those with an interest in clean markets, that is very welcome”.
Torniamo all’Italia. E’ interessante sapere che le operazioni fraudolente compiute dai cosiddetti “furbetti del quartierino” del 2005 – tentativo di scalata a RCS, scalata a BNL, scalata a Banca Antonveneta – sono stati scoperte grazie al recepimento della Direttiva europea sul “market abuse”, che ha permesso ai magistrati della Procura di utilizzare le intercettazioni telefoniche, strumento rivelatosi fondamentale per scoprire i diversi reati compiuti e i loro responsabili (per approfondimenti si consiglia Biondani-Gerevini-Malagutti, Capitalismo di rapina, Chiarelettere, 2007)
In Italia il finanziere Emilio Gnutti – protagonista della scalata con Colaninno a Telecom Italia nel 1999 - condannato in primo grado dal Tribunale di Brescia per insider trading nel 2002 è rimasto vicepresidente del Monte dei Paschi dal 2003 al 2005.
Siccome anche colui che delinque è sotto certi profili un agente economico, se gli si tolgono i disincentivi a delinquere, agirà razionalmente e commetterà più crimini.
Chiudiamo con Guido Rossi che in Trasparenze e vergogna (Il Saggiatore, 1982, p.215) che illustra magnificamente la diversità delle due culture: “Gli antropologi hanno distinto due tipi di culture, le guilt- cultures e le shame-cultures: società di colpa e società di vergogna. Nelle società di colpa ai membri del gruppo vengono imposti divieti e la sanzione per la violazione del divieto. Diverse invece le società di vergogna, nelle quali ai membri del gruppo più che imporre divieti si propongono modelli positivi di comportamento; nelle quali solo chi si adegua al codice sociale proposto gode della pubblica stima e nelle quali la perdita di tale pubblica stima (una sorta di moderna infamia) è sanzione così forte da comportare di fatto l’esclusione dell’indegno dal gruppo”.
Negli States non c'è stato bisogno della condanna per escludere Rajaratnam dalla comunità finanziaria. Il suo fondo Galleon ha subito copiosi riscatti degli investitori subito dopo l'emergere delle accuse.
In Italia non solo abbiamo bisogno di una condanna (in Cassazione, mi raccomando!, quindi definitiva), ma questa condanna non arriva mai perchè il reato è ormai prescritto o amnistiato o il condannato ormai ha superato i 70 anni e quindi si consigliano i domiciliari per raggiunti limiti di età.
Così senza un valido enforcement, gli italiani hanno perso fiducia nei mercati finanziari, considerati una bisca per giocatori d’azzardo.
mercoledì 11 maggio 2011
La Grecia grida alla speculazione brutta e cattiva. Ma per favore! Lunga vita alla speculazione
Negli scorsi giorni abbiamo letto la reazione del Primo Ministro greco George Papandreu, che ha attaccato la stampa tedesca. Il settimanale Der Spiegel, infatti, ha descritto la Grecia ormai al collasso pronta a ristrutturare il debito, ipotizzando una prossima uscita della Grecia dall’euro: “Tali ricostruzioni sono ai confini del criminale. Ieri alcuni hanno voluto diffondere il panico anche per motivi speculativi”.
Il Ministro delle Finanze greco George Papacostantinou ha parlato di sciacalli e “Cassandre destinate a bruciarsi le dita”. Per adesso le dita – e non solo – se le stanno bruciando gli investitori che hanno creduto nello Stato greco.
Il New York Times ci ha messo del suo scrivendo: “I lupi del mercato sono tornati ad ululare”.
Il mio parere? Non ne posso più di sentire giornali e telegiornali – e ministri – prendersela con la fantomatica speculazione. Brutta e cattiva, ovviamente, fonte di ogni nefandezza.
Rifacciamoci ai classici, Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana (Laterza, 1993): “Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascistica, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia esterna nel valore della nostra moneta, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero parte della ricchezza nazionale.
La tesi che denuncia piani destabilizzanti, orditi da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del Governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui titoli della Repubbblica o su quelli di altri Stati”.
L’origine etimologica di speculare è decisamente positiva: dal latino specula, che significa “luogo dal quale si osserva”, esplorare, fare progetti, tentare imprese commerciali. Il termine speculazione nasce dalla voce latina specula (vedetta), da specere (osservare, scrutare), ovvero colui che compiva l'attività di guardia dei legionari. Da qui deriva il senso etimologico di "guardare lontano" e "guardare in profondità con attenzione", e così in senso traslato "guardare nel futuro" o "prevedere il futuro".
A me lo speculatore fa tornare in mente il capitano Drogo del Deserto dei Tartari.
I pensatori della scuola neoclassica invece intendono la speculazione come l'attività di un operatore che si assume dei rischi per i quali richiede una adeguata remunerazione. Secondo questa scuola di pensiero lo speculatore è un elemento fondamentale del mercato poiché assicura liquidità e concorre alla formazione di un prezzo efficiente. Secondo Galileo, “Speculando noi vogliamo tentare di penetrare l’essenza vera delle cose”.
Secondo Ludwig von Mises, ogni attore economico è uno speculatore, in quanto l'azione umana è sempre diretta verso il futuro che è di per sé sconosciuto e quindi incerta. Il modo distintivo di pensare dello speculatore sta nella capacità di comprendere i vari fattori che determineranno il corso degli eventi futuri. Ogni genere di investimento è quindi una forma di speculazione.
Io a lezione – quando parlo della speculazione – leggo a voce alta “L’infinito”, Giacomo Leopardi, 1819,
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e 'l suon di lei. Così tra questa
Infinità s'annega il pensier mio:
E 'l naufragar m'è dolce in questo mare
Allora la colpa del downgrade del debito greco da parte di Standard & Poor's o i timori dei mercati sono dovuti alla speculazione, agli sciacalli, ai traders o le forze di mercato stanno – viva – costringendo la Grecia a risanare i conti pubblici, smettere di falsificare i conti, smettere di premiare i dipendenti pubblici che arrivano puntuali in ufficio, iniziare una seria politica di liberalizzazioni e privatizzazioni?
Se non ci fossero i mercati, la Grecia non avrebbe fatto alcun passo in avanti verso la modernizzazione.
Guardare al di là della siepe, guardare lontano, immaginare il futuro. Lunga vita alla speculazione!
Il Ministro delle Finanze greco George Papacostantinou ha parlato di sciacalli e “Cassandre destinate a bruciarsi le dita”. Per adesso le dita – e non solo – se le stanno bruciando gli investitori che hanno creduto nello Stato greco.
Il New York Times ci ha messo del suo scrivendo: “I lupi del mercato sono tornati ad ululare”.
Il mio parere? Non ne posso più di sentire giornali e telegiornali – e ministri – prendersela con la fantomatica speculazione. Brutta e cattiva, ovviamente, fonte di ogni nefandezza.
Rifacciamoci ai classici, Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana (Laterza, 1993): “Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascistica, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia esterna nel valore della nostra moneta, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero parte della ricchezza nazionale.
La tesi che denuncia piani destabilizzanti, orditi da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del Governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui titoli della Repubbblica o su quelli di altri Stati”.
L’origine etimologica di speculare è decisamente positiva: dal latino specula, che significa “luogo dal quale si osserva”, esplorare, fare progetti, tentare imprese commerciali. Il termine speculazione nasce dalla voce latina specula (vedetta), da specere (osservare, scrutare), ovvero colui che compiva l'attività di guardia dei legionari. Da qui deriva il senso etimologico di "guardare lontano" e "guardare in profondità con attenzione", e così in senso traslato "guardare nel futuro" o "prevedere il futuro".
A me lo speculatore fa tornare in mente il capitano Drogo del Deserto dei Tartari.
I pensatori della scuola neoclassica invece intendono la speculazione come l'attività di un operatore che si assume dei rischi per i quali richiede una adeguata remunerazione. Secondo questa scuola di pensiero lo speculatore è un elemento fondamentale del mercato poiché assicura liquidità e concorre alla formazione di un prezzo efficiente. Secondo Galileo, “Speculando noi vogliamo tentare di penetrare l’essenza vera delle cose”.
Secondo Ludwig von Mises, ogni attore economico è uno speculatore, in quanto l'azione umana è sempre diretta verso il futuro che è di per sé sconosciuto e quindi incerta. Il modo distintivo di pensare dello speculatore sta nella capacità di comprendere i vari fattori che determineranno il corso degli eventi futuri. Ogni genere di investimento è quindi una forma di speculazione.
Io a lezione – quando parlo della speculazione – leggo a voce alta “L’infinito”, Giacomo Leopardi, 1819,
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e 'l suon di lei. Così tra questa
Infinità s'annega il pensier mio:
E 'l naufragar m'è dolce in questo mare
Allora la colpa del downgrade del debito greco da parte di Standard & Poor's o i timori dei mercati sono dovuti alla speculazione, agli sciacalli, ai traders o le forze di mercato stanno – viva – costringendo la Grecia a risanare i conti pubblici, smettere di falsificare i conti, smettere di premiare i dipendenti pubblici che arrivano puntuali in ufficio, iniziare una seria politica di liberalizzazioni e privatizzazioni?
Se non ci fossero i mercati, la Grecia non avrebbe fatto alcun passo in avanti verso la modernizzazione.
Guardare al di là della siepe, guardare lontano, immaginare il futuro. Lunga vita alla speculazione!
lunedì 9 maggio 2011
Le regole e la felicità
Roger Abravanel – dopo Meritocrazia, di cui abbiamo parlato nel post La battaglia di Roger Abravanel per una società più meritocratica , è tornato a spiegare le sue ragioni – che dovrebbero essere anche le nostre – con un nuovo saggio Regole. Perchè tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il paese (con Luca D’Agnese, Garzanti, 2010).
L’Italia è il paese delle regole. Abbiamo oltre 170.000 leggi, contro una media dei maggiori paesi europei che resta sotto le 10.000. Verrebbe da dire che, visto il gran numero di leggi, la moralità regni sovrana nel nostro paese.
Ma non prendiamoci in giro! Il gran numero di leggi in Italia non è altro che lo specchio di un diffuso malcostume: vanno bene le regole, ma solo finchè non se ne lamenta qualcuno che abbia il potere di modificarle; altrimenti, ecco pronta una nuova legge, o decreto che dà una via d’uscita a chi non riesce – è più forte di lui - ad adempiere.
E ovviamente non si rinuncia alle norme precedenti: va a finire che per ogni legge se ne potrebbe trovare un’altra che dice l’esatto opposto.
I sondaggi ci dicono come gli italiani siano, in Europa, i più moralisti: la nostra riprovazione per i piccoli e i grandi illeciti (dal non pagare il biglietto del tram all'evasione fiscale) è più elevata di quella dei vicini francesi, dei tedeschi, degli inglesi. Eppure, nel quotidiano, risultiamo essere i più opportunisti: le regole sembrano fatte, nel Bel Paese, per essere aggirate, come se fossero degli ostacoli da superare. È proprio questo errore interpretativo che deve essere superato, come ben spiegano Abravanel e D’Agnese.
Per anni in Italia le regole sono state viste come un freno: un limite (malvisto) alla nostra libertà o un limite (benvisto) alla prepotenza e alla furbizia degli altri. Dobbiamo invece imparare a concepirle come un formidabile motore per lo sviluppo, capace di far collaborare gli individui.
Gli autori partono da un’analisi della situazione attuale. Il mancato rispetto delle regole costa al nostro paese una cifra spropositata: 360 miliardi l’anno.
Le regole nascono, di norma, da un circolo virtuoso che si basa su quattro pilastri fondamentali:
1) l'educazione civica dei cittadini; su questo punto siamo messi particolarmente male, visto che studi europei evidenziano come 4 italiani su 5 siano analfabeti (cioè, se siete in una stanza con altre 4 persone, è altamente probabile che siano tutte analfabete). Chiaro che non si parla di analfabetismo di ritorno, né di gente che non sa leggere la lingua scritta; ci si riferisce all’incapacità degli italiani adulti di comunicare e operare in contesti complessi, tipici della società moderna o dell’incapacità di comprendere a fondo un testo scritto: siamo a livelli da Terzo mondo!
2) una giustizia civile veloce; quando ho letto giustizia veloce ho pensato a un ossimoro tipo ghiaccio bollente o silenzio assordante. La giustizia italiana è lenta e spesso funziona male: chiaro che questo non incentiva al rispetto delle regole. Per fortuna ci sono degli esempi che ci fanno credere che un miglioramento in questo senso è possibile: al tribunale di Torino hanno, in pochi anni, dimezzato i tempi delle cause civili. Com’è stato possibile? Semplice, Mario Barbuto, presidente della Corte d'appello di Torino, non ha fatto altro che ridefinire il concetto di “merito” nella giustizia civile. Per Barbuto giudicare bene” non significa solo una sentenza giusta, ma anche una sentenza veloce. Ha quindi introdotto una serie di intelligenti e semplici innovazioni organizzative.
3) media indipendenti; lo so, sembra una barzelletta in Italia, ma è fondamentale avere dei mezzi di informazione indipendenti. Non diciamo altro, che ogni parola è superflua a riguardo.
4) regolatori autorevoli; fondamentale che le autorità di vigilanza siano indipendenti e rispettate nello svolgimento delle loro funzioni.
È davanti ai nostri occhi come in Italia il circolo virtuoso delle regole diventi in realtà un circolo vizioso: molti rispettabilissimi italiani percepiscono le regole come oppressive, e per questo si sentono autorizzati a non rispettarle. Questo da una parte rende necessaria una lunga serie di condoni, sanatorie o scudi fiscali, e dall’altra genera regole ancora più rigide, che spesso cadono nell’assurdo, giustificando violazioni di massa. Il circolo vizioso è appena cominciato.
Quando i nostri governi impareranno che non abbiamo bisogno di più regole, ma di una cultura delle regole, forse inizieremo a muoverci nella giusta direzione.
Nell’appena uscito La felicità della democrazia (E. Mauro-G. Zagrebelsky, Laterza, 2011) Ezio Mauro scrive: “In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l’idea che la felicità e la soddisfazione dell’individuo possano essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio che irride al sentimento del rispetto e del pubblico decoro. E’ la ribellione culturale contro il “regolamentarismo” e il politicamente corretto, ed è la rivolta più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando “il sonno della legge”. E’ un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell’urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l’esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura”.
Mauro, che chiarezza, grazie.
L’Italia è il paese delle regole. Abbiamo oltre 170.000 leggi, contro una media dei maggiori paesi europei che resta sotto le 10.000. Verrebbe da dire che, visto il gran numero di leggi, la moralità regni sovrana nel nostro paese.
Ma non prendiamoci in giro! Il gran numero di leggi in Italia non è altro che lo specchio di un diffuso malcostume: vanno bene le regole, ma solo finchè non se ne lamenta qualcuno che abbia il potere di modificarle; altrimenti, ecco pronta una nuova legge, o decreto che dà una via d’uscita a chi non riesce – è più forte di lui - ad adempiere.
E ovviamente non si rinuncia alle norme precedenti: va a finire che per ogni legge se ne potrebbe trovare un’altra che dice l’esatto opposto.
I sondaggi ci dicono come gli italiani siano, in Europa, i più moralisti: la nostra riprovazione per i piccoli e i grandi illeciti (dal non pagare il biglietto del tram all'evasione fiscale) è più elevata di quella dei vicini francesi, dei tedeschi, degli inglesi. Eppure, nel quotidiano, risultiamo essere i più opportunisti: le regole sembrano fatte, nel Bel Paese, per essere aggirate, come se fossero degli ostacoli da superare. È proprio questo errore interpretativo che deve essere superato, come ben spiegano Abravanel e D’Agnese.
Per anni in Italia le regole sono state viste come un freno: un limite (malvisto) alla nostra libertà o un limite (benvisto) alla prepotenza e alla furbizia degli altri. Dobbiamo invece imparare a concepirle come un formidabile motore per lo sviluppo, capace di far collaborare gli individui.
Gli autori partono da un’analisi della situazione attuale. Il mancato rispetto delle regole costa al nostro paese una cifra spropositata: 360 miliardi l’anno.
Le regole nascono, di norma, da un circolo virtuoso che si basa su quattro pilastri fondamentali:
1) l'educazione civica dei cittadini; su questo punto siamo messi particolarmente male, visto che studi europei evidenziano come 4 italiani su 5 siano analfabeti (cioè, se siete in una stanza con altre 4 persone, è altamente probabile che siano tutte analfabete). Chiaro che non si parla di analfabetismo di ritorno, né di gente che non sa leggere la lingua scritta; ci si riferisce all’incapacità degli italiani adulti di comunicare e operare in contesti complessi, tipici della società moderna o dell’incapacità di comprendere a fondo un testo scritto: siamo a livelli da Terzo mondo!
Mario Barbuto |
3) media indipendenti; lo so, sembra una barzelletta in Italia, ma è fondamentale avere dei mezzi di informazione indipendenti. Non diciamo altro, che ogni parola è superflua a riguardo.
4) regolatori autorevoli; fondamentale che le autorità di vigilanza siano indipendenti e rispettate nello svolgimento delle loro funzioni.
È davanti ai nostri occhi come in Italia il circolo virtuoso delle regole diventi in realtà un circolo vizioso: molti rispettabilissimi italiani percepiscono le regole come oppressive, e per questo si sentono autorizzati a non rispettarle. Questo da una parte rende necessaria una lunga serie di condoni, sanatorie o scudi fiscali, e dall’altra genera regole ancora più rigide, che spesso cadono nell’assurdo, giustificando violazioni di massa. Il circolo vizioso è appena cominciato.
Quando i nostri governi impareranno che non abbiamo bisogno di più regole, ma di una cultura delle regole, forse inizieremo a muoverci nella giusta direzione.
Nell’appena uscito La felicità della democrazia (E. Mauro-G. Zagrebelsky, Laterza, 2011) Ezio Mauro scrive: “In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l’idea che la felicità e la soddisfazione dell’individuo possano essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio che irride al sentimento del rispetto e del pubblico decoro. E’ la ribellione culturale contro il “regolamentarismo” e il politicamente corretto, ed è la rivolta più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando “il sonno della legge”. E’ un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell’urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l’esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura”.
Mauro, che chiarezza, grazie.
venerdì 6 maggio 2011
L'opacità dell'INPS e lo scarso successo dei fondi pensione
Qualche giorno fa abbiamo spiegato – L’INPS e la busta arancione - perchè la busta arancione sarebbe così importante. Solo con una maggiore contezza della pensione futura, i lavoratori potrebbero prendere le contromisure con prontezza e largo anticipo. Solo così i giovani potrebbero capire che il sistema contributivo – che fa dipendere la propria pensione dal montante contributivo – è un sistema meritocratico. C’è stretta corrispondenza tra contributi versati e pensione futura. E prima si versa meglio è.Si avrà la pensione (secondo le stime sotto il 50% dell’ultimo stipendio contro l’80% di oggi) che si è maturata negli anni con una leggera rivalutazione – leggera visto che cresciamo poco e i contributi si rivalutano alla media della crescita del PIL dei 5 anni precedenti.
Con il precedente sistema – metodo retributivo – i contributi versati avevano un impatto inferiore. Contava l’ultimo stipendio e spesso la pensione era molto più alta di ciò che si era maturato a livello di contributi.
Ci ha quindi colpito in negativo l’intervista che ha rilasciato il Presidente dell’INPS Antonio Mastropasqua al Corriere della Sera lo scorso 6 marzo. Sentiamo il botta e risposta con il giornalista Enrico Marro:
Marro: “Accedendo al conto previdenziale si può fare anche la simulazione della pensione che si prenderà?”
Mastropasqua: “Di regola no. Solo se si è a meno di 24 mesi dal momento del pensionamento si può fare la simulazione (su internet, cosa non semplice per molti italiani non connessi al web, ndr)
Marro: “Per i giovani, in particolare precari, non sarebbe utile avere una stima di quello che potrebbe essere il loro assegno previdenziale?”
Mastropasqua: “L’INPS ha deciso di rendere possibile la stima della pensione solo quando si è in prossimità della stessa e questo vale per tutti i lavoratori, non solo per i parasubordinati. Prevedere la possibilità della simulazione prima non garantirebbe una previsione affidabile”.
Oh, che belle parole, Presidente! Se ne deduce che un lavoratore precario caratterizzato da carriera interrotta con 15 datori di lavoro nel corso della sua vita lavorativa prende consapevolezza della propria pensione stimata SOLO a due anni dal pensionamento. Fantastico! E povero caro, cosa può fare quando a 24 mesi dal pensionamento - se riesce a ottenere dall’INPS tutti i Pin e password in tempo reale - viene a sapere – se si attiva, bien sur – che la sua pensione lorda sarà di 400 euro? Inizia un piano pensionistico a 63 anni con un fondo pensione aperto?
Ma Presidente, molto, ma molto meglio una simulazione inesatta – spedita via lettera! magari colorata – che niente.
In chiusura di intervista Marra domanda: “Perchè la previdenza complementare, nonostante tutto non decolla?”
Mastropasqua con candore risponde: “In gran parte credo che dipenda dalla scarsa conoscenza che si ha del sistema previdenziale”.
Rob de matt, dicono a Milano. Il Presidente dell’INPS non informa come dovrebbe gli italiani sulla loro futura pensione e ha nel contempo il coraggio di dire che il sistema dei fondi pensione non funziona per mancanza di informazioni. Ma è l’INPS che deve darcele!
Riepiloghiamo: i giovani, i precari, gli immigrati, tengono in piedi un sistema previdenziale sussidiato che pesa per il 14,1% del PIL – e secondo le stime OCSE nel 2040 peserà fino al 15,8% del PIL – e non ricevono alcuna informazione sulla loro futura pensione perchè “la previsione non è affidabile”. Come disse il grande Gianni Brera, solo chi fa previsioni, le sbaglia.
Pochi giorni fa il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia ha svolto un’Audizione alla Camera dei Deputati, dal titolo Indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari di cui riportiamo uno stralcio: “Anche il comparto dei fondi pensione ha un grado di sviluppo relativamente limitato nel confronto internazionale. Dal suo avvio il numero degli iscritti alla previdenza complementare è fortemente cresciuto, anche per effetto della riforma del 2007 sulle contribuzioni per il TFR. Ciò nonostante, solo una minoranza dei lavoratori italiani è iscritta a un fondo pensione e le attività in gestione restano limitate. Alla fine del 2010, il tasso di adesione tra i lavoratori era pari a circa il 22 per cento; le risorse gestite dalle varie forme pensionistiche complementari rappresentavano circa il 4,4 per cento del PIL. I fondi pensione costituiscono una quota poco superiore all’1 per cento delle attività finanziarie delle famiglie, contro il 13 per cento in Germania e il 27 per cento negli Stati Uniti.
I bassi tassi di adesione sono in parte ascrivibili alle difficoltà dei lavoratori con minor reddito ad accrescere il proprio risparmio, in parte alla scarsa conoscenza delle regole previdenziali”.
Visto che la pensione pubblica non basta più e pochi lo sanno, qualcuno in Banca d’Italia può essere così gentile da chiamare il Presidente dell’INPS e invitarlo a spedire a tutti gli italiani la Busta arancione, così forse i fondi pensione – che godono di forti benefici fiscali - e la previdenza integrativa inizieranno a decollare?
Con il precedente sistema – metodo retributivo – i contributi versati avevano un impatto inferiore. Contava l’ultimo stipendio e spesso la pensione era molto più alta di ciò che si era maturato a livello di contributi.
Ci ha quindi colpito in negativo l’intervista che ha rilasciato il Presidente dell’INPS Antonio Mastropasqua al Corriere della Sera lo scorso 6 marzo. Sentiamo il botta e risposta con il giornalista Enrico Marro:
Marro: “Accedendo al conto previdenziale si può fare anche la simulazione della pensione che si prenderà?”
Mastropasqua: “Di regola no. Solo se si è a meno di 24 mesi dal momento del pensionamento si può fare la simulazione (su internet, cosa non semplice per molti italiani non connessi al web, ndr)
Marro: “Per i giovani, in particolare precari, non sarebbe utile avere una stima di quello che potrebbe essere il loro assegno previdenziale?”
Mastropasqua: “L’INPS ha deciso di rendere possibile la stima della pensione solo quando si è in prossimità della stessa e questo vale per tutti i lavoratori, non solo per i parasubordinati. Prevedere la possibilità della simulazione prima non garantirebbe una previsione affidabile”.
Oh, che belle parole, Presidente! Se ne deduce che un lavoratore precario caratterizzato da carriera interrotta con 15 datori di lavoro nel corso della sua vita lavorativa prende consapevolezza della propria pensione stimata SOLO a due anni dal pensionamento. Fantastico! E povero caro, cosa può fare quando a 24 mesi dal pensionamento - se riesce a ottenere dall’INPS tutti i Pin e password in tempo reale - viene a sapere – se si attiva, bien sur – che la sua pensione lorda sarà di 400 euro? Inizia un piano pensionistico a 63 anni con un fondo pensione aperto?
Ma Presidente, molto, ma molto meglio una simulazione inesatta – spedita via lettera! magari colorata – che niente.
In chiusura di intervista Marra domanda: “Perchè la previdenza complementare, nonostante tutto non decolla?”
Mastropasqua con candore risponde: “In gran parte credo che dipenda dalla scarsa conoscenza che si ha del sistema previdenziale”.
Rob de matt, dicono a Milano. Il Presidente dell’INPS non informa come dovrebbe gli italiani sulla loro futura pensione e ha nel contempo il coraggio di dire che il sistema dei fondi pensione non funziona per mancanza di informazioni. Ma è l’INPS che deve darcele!
Riepiloghiamo: i giovani, i precari, gli immigrati, tengono in piedi un sistema previdenziale sussidiato che pesa per il 14,1% del PIL – e secondo le stime OCSE nel 2040 peserà fino al 15,8% del PIL – e non ricevono alcuna informazione sulla loro futura pensione perchè “la previsione non è affidabile”. Come disse il grande Gianni Brera, solo chi fa previsioni, le sbaglia.
Pochi giorni fa il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia ha svolto un’Audizione alla Camera dei Deputati, dal titolo Indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari di cui riportiamo uno stralcio: “Anche il comparto dei fondi pensione ha un grado di sviluppo relativamente limitato nel confronto internazionale. Dal suo avvio il numero degli iscritti alla previdenza complementare è fortemente cresciuto, anche per effetto della riforma del 2007 sulle contribuzioni per il TFR. Ciò nonostante, solo una minoranza dei lavoratori italiani è iscritta a un fondo pensione e le attività in gestione restano limitate. Alla fine del 2010, il tasso di adesione tra i lavoratori era pari a circa il 22 per cento; le risorse gestite dalle varie forme pensionistiche complementari rappresentavano circa il 4,4 per cento del PIL. I fondi pensione costituiscono una quota poco superiore all’1 per cento delle attività finanziarie delle famiglie, contro il 13 per cento in Germania e il 27 per cento negli Stati Uniti.
I bassi tassi di adesione sono in parte ascrivibili alle difficoltà dei lavoratori con minor reddito ad accrescere il proprio risparmio, in parte alla scarsa conoscenza delle regole previdenziali”.
Visto che la pensione pubblica non basta più e pochi lo sanno, qualcuno in Banca d’Italia può essere così gentile da chiamare il Presidente dell’INPS e invitarlo a spedire a tutti gli italiani la Busta arancione, così forse i fondi pensione – che godono di forti benefici fiscali - e la previdenza integrativa inizieranno a decollare?
mercoledì 4 maggio 2011
Gloriana Pellissier e le donne multitasking. La crescita inclusiva ci impone di aumentare il tasso di occupazione femminile
Gloriana Pellissier |
Visto che la Strategia Europa 2020 prevede come obiettivo fondamentale la crescita inclusiva, non si può che partire dalla condizione di forte inferiorità della donna in Italia, che si trova a lottare con un tasso di ipocrisia vergognoso.
Riportiamo Ferrera: “Abbiamo circa tre milioni di donne che vorrebbero lavorare, ma non lo fanno. Il fattore “D” potrebbe essere un formidabile volano di sviluppo. Molti paesi delal UE hanno favorito l’occupazione delle donne rendendo più conveniente il lavoro fuori casa; senza un passo deciso in questa direzione, il volano da noi non può accendersi”.
Qualche pagina più in là, sempre sul Corriere, abbiamo letto la storia di Gloriana Pellissier - due figli, un marito e un lavoro part time, prima di entrare nell’esercito nel 2006 - la maratoneta (skyrunner) delle nevi, già vincitrice per quattro edizioni - e di quest'ultima! - del Trofeo Mezzalama , ritenuta la più massacrante tra le competizioni di sci alpinismo in alta quota: 45 km di gara, 2.812 metri di dislivello in salita, 3.145 in discesa.
Una donna tostissima, che dimostra come le donne multitasking siano degli esempi da imitare. Sentiamola: “Sono convinta che le donne saranno presto in grado di accorciare le distanze rispetto ai tempi degli uomini. In queste attività ci vuole determinazione, bisogna saper stringere i denti e utilizzare le proprie energie fino all’ultima goccia. La testa conta quanto il fisico. Pur essendo più forti, molti uomini mancano di questa determinazione. Del resto non è così anche nella vita? Io mi alleno tutto il giorno, ma poi devo tenere la casa, fare la spesa, lavare e stirare, fare la mamma e la moglie. E’ una scuola durissima, che mi viene buona in gara sui ghiacciai e sulle creste, quando capisco che anche i limiti più estremi possono essere superati”.
In un’altra intervista di anni fa Gloriana disse: “Gli allenamenti sono molto faticosi e più lunghi rispetto alla corsa classica, ma questo non mi spaventa, anzi mi dà nuovi stimoli per continuare. Sono una persona a cui piace emergere, vincere... e non esiste buon piazzamento che possa sostituire il profumo di una vittoria. Ogni vittoria mi regala una grande carica che mi spinge ad allenarmi di più. E' uno sport duro, il fisico ti chiede in continuazione di mollare invece devi resistere, soprattutto con la testa. Inutile far finta che non ci siano sacrifici da fare, ci sono eccome! Devo allenarmi tutti i giorni, anche per 3- 4 ore. Ed è faticoso, stancante, a volte doloroso. Ma la soddisfazione di superare i propri limiti è unica. Pian piano l' organismo impara a conoscere fin dove può arrivare e questo è bellissimo”.
Linda Gilli |
Linda Gilli in un agile intervento all’interno di Impresa responsabilità imprenditoriale e flessibilità del lavoro, (M. Vitale, P. Ichino, L. Gilli, Piccola Biblioteca d’impresa, Inaz, 2009) spiega: “Per la lavoratrice si tratta di trovare le condizioni di rientrare in azienda in un contesto favorevole e compatibile con la nuova condizione familiare. Per l’azienda si tratta di mantenere il più possibile le persone di valore in azienda. Per esempio, in un’azienda di servizi nell’area informativa come la nostra, le donne hanno un ruolo e un’influenza decisiva. Le donne hanno una cura quasi materna del cliente, e questo per noi è importante. Hanno un alto livello scolastico, spesso universitario, un’ottima conoscenza della normativa”.
Come ci spiega Daniela del Boca su lavoce.info “In Italia il tasso di occupazione femminile è pari al 48 per cento, dato non diverso da quello registrato all'inizio del decennio. I maggiori problemi per le donne italiane nascono, ancora, dalla difficoltà a conciliare lavoro e famiglia. Una difficoltà che mette le donne (e ancora solo loro) di fronte alla scelta tra avere un lavoro e avere dei figli. Il risultato è che sia il tasso di occupazione femminile sia il tasso di natalità continuano a rimanere bassi.
Da ormai un decennio i tassi di fecondità in Italia si sono assestati intorno a 1,4 figli per donna. In attesa di una condizione lavorativa più stabile, i giovani postpongono sempre di più l’età in cui hanno il primo figlio e così la probabilità di non avere figli o di averne uno solo aumenta.
Il terzo nodo cruciale è la povertà infantile, il cui tasso, in Italia, si attesta al 15 per cento. La percentuale sale però al 22 per cento quando solo uno dei due genitori ha un lavoro. Il lavoro delle madri è un importante strumento di protezione dei figli dal rischio di povertà. Nei paesi dove le madri lavorano di più, i figli sono meno poveri. L'Italia, come si vede dal grafico 1, è uno dei paesi con più alti tassi di povertà e più bassi tassi di partecipazione. La flessibilità degli orari di lavoro svolge ancora un ruolo limitato nell’aiutare i genitori a conciliare lavoro e famiglia: meno del 50 per cento delle imprese con 10 o più dipendenti offre flessibilità ai propri dipendenti e il 60 per cento dei lavoratori dipendenti non è libero di variare il proprio orario di lavoro".
Nel Nord Europa – dove i tassi di occupazione femminile sono elevati – si tutela concretamente la famiglia. In Italia si parla di famiglia e poi non si fa nulla. Nel Sud Italia - dove non esistono nè asili nidi, nè il tempo pieno scolastico - i tassi di occupazione femminile sono tra i più bassi d'Europa.
A noi italiani piace parlare, bla bla bla. Solo chiacchiere e distintivo, direbbe Robert De Niro, vedi post Solo chiacchiere e distintivo . Quando ci occuperemo dei problemi veri e di come risolverli?
lunedì 2 maggio 2011
L'INPS e la busta arancione: un caso classico di mancata trasparenza
L’INPS aveva promesso di informare i cittadini lavoratori in relazione alla loro futura pensione stimata. Con il passaggio dal sistema retributivo al contributivo, per coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995 la pensione non sarà pari a 95% dell’ultimo stipendio – come nel retributivo – ma in relazione ai contributi versati nel corso della vita e rivalutati, che costituiscono il cosiddetto montante contributivo.
Il montante contributivo verrà quindi moltiplicato per un coefficiente tanto più piccolo quanto più è l’aspettativa di vita media (oggi è nell’intorno del 5% e in netto calo visto che viviamo sempre più a lungo).
Se ne deduce che tanto più si è giovani, tanto più di ha una vita contributiva discontinua – cocopro, cocosu, cocogiù – tanto meno cresce il pil (il montante contributivo si rivaluta in base alla crescita media del pil dell’ultimo quinquennio), tanto più la futura pensione sarà irrisoria.
Il precario nato dopo il 1970 avrà una pensione pari al 36% dell’ultima retribuzione. Tra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro (lordi!) al mese. In molti casi la pensione risultante dal metodo contributivo sarà inferiore al minimo sociale.
Confrontiamo subito l'importo dell'assegno sociale con la pensione stimata di un cocopro di circa € 340.
Dal sito dell'INPS leggiamo: “L’importo dell’assegno sociale per l’anno 2011 è stato ritoccato dall’INPS a 417,3 €, pari a 5.424,9 € l’anno.
L’assegno sociale è una prestazione di assistenza sociale erogata dall’INPS a coloro che hanno almeno 65 anni di età e non arrivano a totalizzare un reddito annuo di 5.424,9 €, che spetta a cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari".
Quindi lo Stato sarà costretto a integrare le pensioni.
In vista di questo disastro pensionistico, sarebbe opportuno che l’INPS rendesse edotti i lavoratori affinchè siano consapevoli e magari possano adottare contromisure, del tipo sottoscrivere un fondo pensione aperto – su cui c’è un vantaggio fiscale dato dalla deducibilità fino a 5.165 euro l’anno.
Invece l’INPS, nonostante diverse promesse, ha deciso diversamente e non ha spedito la famosa busta arancione. I primi ad adottare il sistema trasparente della comunicazione della futura pensione sono stati gli svedesi che spediscono ogni anno ai lavoratori una busta di colore arancione – blu in Francia – che informa in modo semplice quale sarà la pensione stimata.
Il presidente dell’INPS Antonio Mastropasqua ha dichiarato: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione dei parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”.
Vale la pena sottolineare che con il metodo contributivo tutti noi abbiamo bisogno di lavorare di più, per poter avere una pensione decorosa. Come ha fatto notare il mitico Thomas Friedman – autore del fantastico The World is flat (tradotto anche da Mondadori, Il mondo è piatto, 2008): “Questa settimana, il premio per chi non conosce il mondo in cui vive va sicuramente agli studenti liceali e universitari francesi che hanno occupato le università e bloccato il traffico ferroviario aderendo allo sciopero generale nazionale contro la decisione del governo francese di alzare l’età pensionabile da 60 a 62 anni. Se quegli studenti capissero in quale mondo ipercompetitivo ed economicamente integrato vivono, sarebbero scesi in piazza per chiedere aule meno affollate, una migliore qualità dell’istruzione (vedi post L'Università italiana: gli operai sussidiano i figli di papà), maggiori opportunità imprenditoriali e più investimenti privati in Francia – così da garantirsi meglio la possibilità di accedere a quelle categorie di posti di lavoro nel settore privato che permetteranno loro di finanziarsi il pensionamento a 62 anni”.
Tempo fa il Corriere della Sera ha dato ampio spazio al tema delle prossime pensioni. L’apertura di prima pagina titolava: “Giovani professionisti , pensioni al 25%”
Noi ripetiamo ad ogni piè sospinto il pensiero di Louis Brandeis, consigliere della Corte Suprema americana negli anni '30 – e autore del mitico “Other’s people money”: “La luce del sole è il miglior disinfettante, la luce elettrica il miglior poliziotto”.
P.S.: Per approfondimenti si consiglia Bruno Mangiatordi, La previdenza delle carriere interrotte , lavoce.info
Il montante contributivo verrà quindi moltiplicato per un coefficiente tanto più piccolo quanto più è l’aspettativa di vita media (oggi è nell’intorno del 5% e in netto calo visto che viviamo sempre più a lungo).
Se ne deduce che tanto più si è giovani, tanto più di ha una vita contributiva discontinua – cocopro, cocosu, cocogiù – tanto meno cresce il pil (il montante contributivo si rivaluta in base alla crescita media del pil dell’ultimo quinquennio), tanto più la futura pensione sarà irrisoria.
Il precario nato dopo il 1970 avrà una pensione pari al 36% dell’ultima retribuzione. Tra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro (lordi!) al mese. In molti casi la pensione risultante dal metodo contributivo sarà inferiore al minimo sociale.
Confrontiamo subito l'importo dell'assegno sociale con la pensione stimata di un cocopro di circa € 340.
Dal sito dell'INPS leggiamo: “L’importo dell’assegno sociale per l’anno 2011 è stato ritoccato dall’INPS a 417,3 €, pari a 5.424,9 € l’anno.
L’assegno sociale è una prestazione di assistenza sociale erogata dall’INPS a coloro che hanno almeno 65 anni di età e non arrivano a totalizzare un reddito annuo di 5.424,9 €, che spetta a cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari".
Quindi lo Stato sarà costretto a integrare le pensioni.
In vista di questo disastro pensionistico, sarebbe opportuno che l’INPS rendesse edotti i lavoratori affinchè siano consapevoli e magari possano adottare contromisure, del tipo sottoscrivere un fondo pensione aperto – su cui c’è un vantaggio fiscale dato dalla deducibilità fino a 5.165 euro l’anno.
Invece l’INPS, nonostante diverse promesse, ha deciso diversamente e non ha spedito la famosa busta arancione. I primi ad adottare il sistema trasparente della comunicazione della futura pensione sono stati gli svedesi che spediscono ogni anno ai lavoratori una busta di colore arancione – blu in Francia – che informa in modo semplice quale sarà la pensione stimata.
Il presidente dell’INPS Antonio Mastropasqua ha dichiarato: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione dei parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”.
Thomas Friedman |
Tempo fa il Corriere della Sera ha dato ampio spazio al tema delle prossime pensioni. L’apertura di prima pagina titolava: “Giovani professionisti , pensioni al 25%”
Louis Brandeis |
P.S.: Per approfondimenti si consiglia Bruno Mangiatordi, La previdenza delle carriere interrotte , lavoce.info