martedì 30 novembre 2010

Mobutu, i Next Eleven e le speranze dell’Africa

Mobutu Sese Seko
Quarantacinque anni fa, il 30 novembre 1965, il generale Mobutu si autoproclamava presidente della Repubblica del Congo.

Nel 1959, quando re Baldovino del Belgio concede l’indipendenza al Congo, Mobutu  - Mobutu Sese Seko, nome completo Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga (letteralmente, "Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo") - è segretario del leader del movimento indipendentista Lumumba. Una volta che Lumumba diventa primo ministro e nomina Mobutu comandante dell’esercito, il gioco è quasi fatto. Mobutu fa fuori Lumumba in un bagno di acido solforico. In breve diventa presidente dittatore.

Visto che il Congo è dotato di miniere di uranio e visto che le potenze mondiali hanno bisogno dell’uranio per le bombe atomiche, Mobutu è accolto in tutto il mondo a braccia aperte. Lo si vedrà in televisione alla Casa Bianca con il presidente Nixon. Lo accoglieranno sia il Generale De Gaulle che la regina d’Inghilterra, sia Indira Ghandi che Mao Zedong.

Mobutu con Ronald Reagan
Nel 1997 Mobutu muore per un cancro alla prostata, lasciando agli eredi un bel po’ di conti cifrati nelle banche svizzere.

Questa è una delle tante storie dell’Africa, dove i Mobutu di turno purtroppo di alternano con eccessiva facilità. Ma quando potremo vedere l’Africa protagonista dello sviluppo economico mondiale?

In una ricerca di Jim O’Neill di Goldman Sachs – How exciting is Africa’s potential – si fa notare come nella lista stilata dei prossimi 11 Paesi top nella crescita – definita da GS “Next Eleven”, sono due i paesi africani presenti: Egitto e Nigeria.

Per capire dai livelli da cui partiamo, oggi il PIL combinato degli 11 paesi più popolati dell’Africa – Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Nigeria, Sud Africa, Sudan, Tanzania, Uganda e Zimbabwe – è pari a un decimo del PIL dei Paesi BRIC – Brasile, Russia, India e Cina. Gli stessi 11 paesi hanno complessivamente un’economia un po’ più grande del Messico o della Corea del Sud.

Nelle stime di GS, nel 2050 il PIL combinato degli 11 paesi potrebbe raggiungere più di 13 miliardi di dollari, quindi non maggiore del PIL di Cina o India.

La metà del PIL del 2050 sarebbe originato da Egitto e Nigeria, quindi è dal progresso di questi due paesi che dipende il potenziale del continente africano. La Nigeria potrebbe diventare come la Germania di oggi.

Sempre entro il 2050 la classe media degli 11 African countries potrebbe raggiungere i 400 milioni di persone, contro i 50 milioni di oggi.

Jim O'Neill di Goldman Sachs
O’Neill scrive: “Eradicating chronic corruption might be the most important step on the path towards higher productivity and sustanable growth. Improving human capital, including the most basic level of education and life expectancy, also remains critical, particularly in Nigeria, Congo and Uganda…Transparency and an environment conducive to business are what African leaders should be concentrating on. Otherwise, the dream of an African BRIC will remain just that – a dream”.

Visto che:

1. la crescita economica dell’Egitto è molto importante per il futuro del continente africano,
2. viste le frequentazioni assidue del nostro Presidente del Consiglio con la “nipote” del Presidente dell’Egitto Hosni Mubarak,


chiediamo gentilmente alla “nipote di Mubarak”, alias Karima El Mahroug, nata a Fquih Ben Salah (Marocco) il 1° novembre 1992, soprannominata dalla stampa italiana Ruby Rubacuori – che certamente legge con assiduità il nostro blog - di riportare queste informazioni a suo zio, presidente da quasi 30 anni dell’Egitto (precisamente dal 14 ottobre 1981).
Se riesce a far svegliare dal torpore l'Egitto, l'Africa potrà dare seguito al sogno di Martin Luther King.

lunedì 29 novembre 2010

La globalizzazione funziona! Le due Coree a confronto


I dati economici diffusi nel mondo confermano il decoupling tra Oriente e Occidente: il primo contraddistinto da una forte crescita economica, il secondo caratterizzato da crescita anemica.

Settimana scorsa il guest speaker all’inaugurazione dell'anno accademico all'Università Bocconi è stato Kishore Mahbubani - professore della Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore – che ha detto: “La crisi ha accelerato il cambiamento, ma sarebbe ora di cambiare definizione. Il nome giusto è crisi finanziaria occidentale...In passato, quando le economie occidentali rallentavano, si fermava anche l’economia mondiale. Non è più così. L’economia occidentale è ferma, mentre l’India cresce del’8 o 9%, la Cina del 9 o 10% e Singapore del 15%. Sapete che Singapore ha un Pil procapite superiore a quello della Gran Bretagna?”

Kishore Mahbubani
Purtroppo per ragioni storiche, mentre la Corea del Sud è un Paese tra i più ricchi del mondo, la Corea del Nord è un Paese disgraziato, governato da un dittatore fuori di testa. La popolazione nord coreana vive di stenti e si nutre di erbacce. Numerose sono le missioni dell’ONU per intervenire sul fronte alimentare. Ma entrare in Corea del Nord è impervio.

L’altro giorno abbiamo assistito al bombardamento da parte della Corea del Nord dell’isola sudcoreana di Yeonpyeong, al confine tra i due paesi. Due soldati sudcoreani sono morti, i feriti sono una ventina tra soldati e civili. L’isola, abitata da 1600 persone, è stata evacuata. Seul ha risposto immediatamente all’aggressione mobilitando le sue forze armate e alzando in volo i suoi caccia.

Non si può assolutamente sottovalutare una dittatura paranoica, che guida con il terrore un Paese che va in pezzi ma che è armata fino ai denti e ha potenzialità atomiche. Kim-Jong Il al potere in Corea del Nord sta compiendo il classico gioco della brinkmanship, dello spingere le crisi croniche sul brink, sull’orlo acuto della catastrofe per strappare successi, concessioni, effetti propagandistici prima di ritrarsi dalla soglia dell’abisso.

Kim Jong-Il
Un po’ di storia. Nel 1950 la Corea del Nord invade la Corea del Sud, segue la guerra delle due Coree, muoiono due milioni di civili, 1,5 milioni di militari nordcoreani, 400mila sudcoreani, 30mila soldati americani e 1000 britannici. Il 27 luglio 1953 viene firmato l’armistizio che sancisce la tregua militare tra le due Coree. L’ultimo episodio è indicativo del fatto che la tregua è stata infranta più volte.

Ma come è possibile che due Paesi che sono partiti da situazioni economiche simili siano oggi tanto diversi. La mia risposta? La globalizzazione. Che funziona.

Per dimostrare come la globalizzazione sia molto positiva - si consiglia la lettura di J. Bhagwati, Contro il protezionismo, Laterza, 2005; J. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, 2006 - e consenta ai Paesi Emergenti di diventare Paesi Avanzati – vediamo come comparando la Corea del Sud – Tigre Asiatica con una crescita elevatissima degli ultimi 40 anni – e la Corea del Nord, da una parte abbiamo un paese aperto agli scambi con l’estero, in forte crescita, con un pil pro-capite su livelli occidentali, grandi imprese multinazionali (LG e Samsung su tutte), export fortissimo e dall’altra abbiamo un dittatore megalomane, un paese chiuso con l’estero, arretrato, dove la popolazione soffre di malnutrizione e con un bassissimo tenore di vita.

Vi racconto un episodio emblematico. Al termine dei Mondiali di calcio (dove la Corea del Nord è stata sconfitta da Brasile, Costa d’Avorio e Portogallo), tutta la squadra (per il commissario tecnico della Corea del Nord, Kim Song Hun è stato previsto anche un periodo di lavori forzati) è stata messa alla gogna. Sono dovuti stare sei ore in piedi, immobili, su un palco – allestito dai dirigenti del partito comunista - insultati da 400 tifosi agguerriti che hanno continuato ad insultare il team calcistico. Hanno avuto una sola colpa: aver tradito la fiducia del “caro leader” (così lo chiamano) Kim Jong Il, che governa la Corea del Nord dal 1994, succedendo al padre Kim Il Sung.

Nella vicina Cina la gogna ha una tradizione millenaria. Imposta in epoca imperiale, è stata rilanciata da Mao Zedong durante la rivoluzione culturale. Nel 2010, dopo qualche anno di interruzione, le campagne di “umiliazione pubblica” sono state ventisei. Recentemente ad Ankang, nello Shanxi, diciassette uomini e donne hanno sfilato in processione davanti a migliaia di contadini. Camminavano con una tavoletta appesa al collo che recava scritto: “Sospetto sabotaggio di costruzione pubblica e disturbo dell’ordine sociale”.

Le autorità hanno spiegato così: “L’umiliazione è una misura speciale che svolge un ruolo importante nell’educazione delle masse”.

Ma questa ennesima dimostrazione di forza della Corea del Nord non è altro che un messaggio all’Occidente della Cina, che protegge la dittatura di Kim Jong Il. Il fallimento dell’ultimo vertice G20 di Seul ha convinto i dirigenti cinesi ad allentare il guinzaglio del mastino nordcoreano, consentodogli di bombardare l’isola di Yeonpyeong, contesa da oltre 50 anni. Fa fede il comunicato cinese del giorno dopo: “La Cina è contraria a tutte le azioni militari non autorizzate all’interno della propria zona economica esclusiva”.

Marta Dassù
La pensiamo come la sinologa Marta Dassù, che ieri sulla Stampa – “Crisi coreana, ora Pechino deve decidere" - ha scritto: “Con le sue mosse militari, infatti, il regime di Pyongyang mette in gioco la credibilità della garanzia americana agli alleati asiatici, spinge la Corea del Sud a decidere misure più rapide di reazione; sottopone a dura prova il rapporto fra Washington e Pechino... Non ci sarà soluzione possibile, ai problemi di sicurezza dell’Asia orientale, senza accordo fra Cina e Stati Uniti: un accordo che la crisi coreana, dopo la crisi finanziaria, rende più difficile. Tuttavia, la provocazione di Pyongyang offre anche, a un mese dal viaggio del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti, la possibilità di allargare l’agenda. La speranza, insomma, è che la consapevolezza del rischio coreano aumenti i margini per un qualche tipo di trade-off. La condizione, sul lato americano, è che Washington riesca a combinare la rassicurazione verso Seul con un’apertura seria a Pechino: e seria significa che gli Stati Uniti dovranno anche concedere qualcosa. Sul lato cinese, la condizione è che una leadership pragmatica decida di assumersi finalmente delle responsabilità positive”.

venerdì 26 novembre 2010

“Cattivissimo me” e i banchieri “brutti e antipatici”

Il week-end è alle porte. Nevica, fa freddo. Mi permetto di dare un consiglio ai miei lettori. Andate al cinema a vedere Cattivissimo me, non ve ne pentirete.

Io ho visto in compagnia dei miei figli Cattivissimo me - del regista francese Pierre Coffin - e ho riso non poco, forse più dei bambini seduti al cinema. Oltre ad essere in 3D – con occhialini ad hoc – il film è denso di spunti di riflessione.

A un certo punto del film – non vi racconto tutto, altrimenti che gusto c’è! - il protagonista Gru progetta il più grande colpo della storia del mondo: rubare la luna. Per compiere il tutto ha bisogno di farsi finanziare il progetto. Va quindi alla Evil bank, già Lehman Brothers, dove un banchiere dalla faccia torva lo invita a spiegare i motivi per i quali dovrebbe finanziare il progetto. Il banchiere alla fine non lo finanzia. Ha senso. Come noto la Lehman Brothers non finanziava progetti, ma impacchettava CDO e altri titoli di bassissima qualità (cosiddetti asset tossici) per poi rivenderli ai gonzi. Per chi desidera approfondire il perchè Lehman Brothers era già fallita molto prima del settembre 2008, si invitano i lettori a leggere la relazione di Anton Valukas, un esaminatore nominato dal tribunale fallimentare, che in “sole” 2.200 pagine dipinge una società fallita da lungo tempo, tenuta in vita solo da trucchi contabili, come i famigerati repo 105 (vendite a termine contabilizzate come vendite finali).

Alla fine del film ho avuto uno scambio di battute con mia figlia Allegra.

A.: “Papi, ma perchè il banchiere era brutto e antipatico?”
B. (Ho fatto un po’ fatica a rispondere, ma poi ho detto): “Sai, c’è stata una forte crisi economica e finanziaria e la colpa è stata attribuita ai banchieri, che sono diventati la causa di tutti i mali del mondo. E quindi i banchieri sono rappresentati con l’aria truce e risultano brutti”.
A.: “Papi, ma tu di lavoro non fai il banchiere”?
B.: “(fosse facile essere semplici, distinguere una SGR da una banca, distinguere un banker vero da un umile private banker, ma ho risposto in modo affermativo) Sì”.
A.: “Allora sei tu che hai creato la crisi finanziaria?”
B. “Veramente........”

Gru
Come sappiamo, i bambini ci inchiodano alle nostre affermazioni e non sappiamo più cosa rispondere. Ho bofonchiato qualcosa, ma non riuscivo a non ridere per la franchezza e il sillogismo aristotelico che contraddistingueva le affermazioni di Allegra.

Arrivato in ufficio il giorno dopo ho pensato alle risposte da dare a freddo a mia figlia. Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è utile all’uopo: “La radice della crisi che investe il mondo da quasi tre anni sta in carenze regolamentari e di vigilanza nelle piazze finanziarie più importanti” (dalla Relazione del Governatore, 31 maggio 2010).

Avrei potuto parlare dello Zeitgeist, dello Spirito del Tempo americano nei primi anni del nuovo millennio.

Il 12 novembre 1999 – Amministrazione Clinton - il Congresso statunitense ha abrogato una parte del Glass-Steagall Act attraverso il Gramm-Leach-Bliley Act - anche conosciuto come Financial Services Modernization Act of 1999 - che ha consentito il consolidamento tra business per legge separati ("The Glass-Steagall Act prohibited any one institution from acting as any combination of an investment bank, a commercial bank, and/or an insurance company"). E’ stato l’inizio della fine. Una unica istituzione finanziaria può quindi svolgere sia attività di commercial banking che di investment banking che di securities firms e insurance.

Ancora sullo Zeitgeist. George W. Bush si fece promotore del concetto di "Ownership society", una società dove tutti hanno il diritto – è qui l’errore mastodontico – di possedere una casa. Per allargare l’area del consenso popolare, furono varati piani e politiche per favorire l’acquisizione di una casa anche in strati della popolazione con redditi bassi.

"...if you own something, you have a vital stake in the future of our country. The more ownership there is in America, the more vitality there is in America, and the more people have a vital stake in the future of this country" - President George W. Bush, June 17, 2004

"We're creating... an ownership society in this country, where more Americans than ever will be able to open up their door where they live and say, welcome to my house, welcome to my piece of property" - President George W. Bush, October 2004

"America is a stronger country every single time a family moves into a home of their own" - President George W. Bush, October 2004

Le Government Sponsored Enterprise (GSE) Fannie Mae e Freddie Mac – che garantiscono le banche per i mutui erogati - vennero indotte ad allargare le maglie per consentire anche ai meno abbienti l’acquisto della casa. Bush, tra l’altro, spinse per la politica del “zero down- payment”, cioè della non necessarietà del pagamento iniziale per l’acquisto di un immobile. Follia. Ci pensate ad andare al compromesso per l'acquisto di una casa senza uno straccio di assegno?
Come abbiamo visto poi, sia Fannie che Freddie sono state salvate dal Governo Americano con ingenti aiuti di miliardi di dollari (che difficilmente torneranno indietro).

Ma se un individuo è NINJA – non ha asset, nè lavoro, nè reddito – è bene che si compri una casa a debito? Certamente no.

Nei giorni scorsi ho letto con interesse l’ultimo saggio di Innocenzo Cipolletta “Banchieri, politici e militari” (Laterza, 2010) e ho ripensato alle parole di Allegra. In particolare quando Cipolletta afferma (p. 87): “Ma basteranno nuove regole sui banchieri per evitare il riproporsi di una crisi globale? Ne dubito molto. Anche i militari e i politici necessitano di nuove regole e nuovo comportamenti. Perchè, in caso contrario, una nuova crisi globale può esplodere dove meno te lo aspetti”.

E' troppo comodo pensare che i problemi siano semplici, che sia tutta colpa dei banchieri. Lungi da me difenderli, ma come disse qualcuno "La realtà è molto più complessa".

giovedì 25 novembre 2010

Obama, con General Motors hai preso una sòla!

Il CEO di GM festeggia il ritorno al NYSE
Settimana scorsa le azioni della General Motors sono tornate ad essere quotate al New York Stock Exchange (NYSE). Il nostro quotidiano di riferimento, il Financial Times, ha titolato “Government Motors” fades away with IPO”, e ha proseguito: “Government Motors became General Motors again this week, 17 months after the Obama Administration rescued the carmaker, fired its chief executive and pushed it through bankruptcy”. E' evidente come un governo che investe in una società automobilistica sia considerato un investitore sconsiderato. Il settore automobilistico è infatti caratterizzato da eccesso strutturale di offerta, competizione elevata, margini risicati, forte ciclicità.

Quindi la moribonda società automobilistica americana è tornata a respirare e in poco tempo è tornata in borsa (tramite Initial Public Offering - alias IPO - a 33$ per azione).

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato: “La quotazione a Wall Street è una pietra miliare non solo per quest’azienda, simbolo dell’industria americana, ma anche per l’intero settore dell’auto”.

Pensiamo che Obama stia dicendo una fesseria e stia prendendo in giro i contribuenti americani.

Vediamo in dettaglio perchè la “meravigliosa” operazione è da considerarsi un fake per l’Amministrazione Obama. Tralasciamo gli effetti occupazionali. Guardiamo al risultato dell’investimento governativo.

Il collocamento di GM ha visto la vendita da parte del Governo USA di 1,5 miliardi di azioni, a un prezzo di 33$ ciascuna. L’IPO ha portato all’incasso di circa 10 miliardi di dollari. E’ opportuno ricordare che GM ha ricevuto dal Governo tra capitale di debito e capitale proprio ben 49,5 miliardi di dollari. GM deve quindi al Governo ancora 39,5 miliardi di dollari.

Il trading floor del NYSE
L’FT ha calcolato che - avendo il governo americano pagato ogni azione 45$ - per uscire in pari, Obama dovrà vendere le rimanenti azioni in suo possesso – 609 milioni di azioni - a 54$ l’una.

Dopo l’IPO, il Governo detiene ancora il 33% di GM. Secondo “People close to the deal, the final exit could now haoppen by the end of the year”.

Come fa notare la Lex Column del Financial Times del 17 novembre scorso, le probabilità che l’operazione GM si chiuda in profitto per il governo americano sono estremamente scarse: “GM is a vastly improved company with great financial flexibility, but it faces headwinds in most of its big markets and serious share overhang as bondholders wait to sell. Unless the average of the next two offerings is at least two-thirds higher than today’s price or about 19 times 2010 earnings, taxpayers will have been taken for a ride” (traduco per i peones: i detentori di bond, bondholder, hanno in mano bond convertibili, quindi se una volta convertiti i bond in azioni, vendono le azioni, queste subiscono una pressione al ribasso. Inoltre visto che la prima tranche dei titoli GM è stata venduta in perdita, la rimanente deve essere venduta a un prezzo di 2/3 higher del prezzo di oggi e circa 19 volte gli utili del 2010).



Se io dicessi a un mio cliente che ho comprato per lui azioni della General Motors a 45$ e le ho rivendute in perdita a 33$, perdendoci il 26,6%, mi direbbe giustamente: “Lei è un cretino”. Altro che “Pietra miliare”! Obama, con GM hai preso una sòla!

mercoledì 24 novembre 2010

Il capolavoro di Carlo Azeglio Ciampi

Carlo Azeglio Ciampi
Il 24 novembre 1996 – giusto 14 anni fa - la delegazione italiana guidata dal Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi – presenti Mario Draghi per il Tesoro ed Antonio Fazio e Pierluigi Ciocca per Banca d’Italia - vola a Bruxelles dove si terrà l’Ecofin, la riunione dei Ministri economici europei. Ordine del giorno: il rientro della lira nel Sistema Monetario Europeo.

Il giorno precedente la direzione generale del Tesoro emana questo comunicato: “Il Governo italiano ha chiesto l’avvio delle procedure per il rientro della lira negli accordi di cambio previsti dal Sistema Monetario Europeo (SME). La procedura avrà inizio domani con la riunione del Comitato Monetario convocato per le 15.00”.

L’Italia uscì dallo SME nell’autunno 1992, e per rispettare i parametri di Maastricht e far parte dei Paesi dell’Unione Economica e Monetaria partecipanti alla nascita dell’Euro, era necessario e vitale rientrare nell’Exchange Rate Mechanism.

Il punto chiave del rientro nello SME era il tasso di cambio ritenuto corretto dagli altri partner europei. Nella riunione di sabato mattina a Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio Prodi e Ciampi appresero dal Governatore della Banca d’Italia Fazio che la video-consultazione del venerdì aveva prospettato la posizione tedesco-olandese, che sostenevano che il cambio giusto per la lira sarebbe stato 925 per un marco. Prodi e Ciampi dissero che non se ne parlava neppure. Gli industriali italiani fantasticavano tassi di cambio ben superiori a quota 1.000, tipo 1.030/1.040. Il Governo sapeva che l’unica speranza era aggrapparsi alla cifra tonda: quota 1.000.

Per ottenere 1.000, si decise di dare a Draghi e Ciocca il mandato di chiedere 1.010, con la facoltà di scendere a 1.000. Il tasso di cambio sui mercati in quei giorni viaggiava intorno a 985 lire per marco.
Draghi e Ciocca non trovarono l’accordo ma riuscirono ad abbattere il muro delle 950 lire, trovando qualche difficoltà a trattare su quota 970.

La tensione era visibile. Il momento era importante. Si giocava il futuro dell’Italia. Cosi Paolo Peluffo in Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo e il Presidente (Rizzoli, 2007): “Ciampi volle partire per tempo, in mattinata. Si viaggiava ancora sul vecchio DC9 che aveva un grande salottino aperto e comodo per la conversazione. Ma di conversazione, quel giorno, ve ne fu davvero poca. Si guardava tabelle, dati sulla bilancia dei pagamenti, in silenzio, scambiandosi mezze frasi, sottovoce”.

Alle 15.00 in punto a Bruxelles inizia l’Ecofin. Dopo i primi convenevoli, Wim Duisemberg – poi primo presidente della BCE - per conto dell’Istituto Monetario Europeo dà la parola a Ciampi, che improvvisa l’arringa meglio riuscita della sua carriera istituzionale, parlando a braccio sulla base di una scaletta.

Questi i punti salienti del discorso di Ciampi:

1. "Sono qui davanti a Voi con emozione, ma anche con orgoglio, per proporre il reingresso dell’Italia nell’accordo di cambio. Personalmente ho vissuto tutta l’esperienza del Sistema Monetario Europeo, dalla sua creazione nel 1979 all’uscita dell’Italia...Le vicende dell’estate-autunno del 1992 furono estremamente gravi per lo SME (l'Italia svalutò del 7% la lira il 15 settembre 1992, ma non bastò; il 16 settembre 1992 la lira uscì provvisioriamente dallo SME; il 22 settembre 1992 viene prorogata sine die la sospensione per la lira degli obblighi di intervento, ndr). Ritengo che in quell’occasione pagammo tutti, ma credo che l’Italia pagò in particolar modo. Questi quattro anni in cui abbiamo continuato a partecipare allo SME, ma non al suo aspetto centrale – ovvero l’accordo di cambio – sono stati per il mio Paese anni che io chiamo di “sofferto esilio”.

2. Il 1992: il dramma del 1992 ha costituito il turning point per il risanamento dell’economia. Da allora il mio Paese ha fatto importanti progressi verso la stabilità, attraverso il concorso della politica monetaria, dei redditi, del bilancio pubblico. La politica monetaria, che alla fine degli anni Ottanta agli inizi degli anni Novanta aveva fatto dell’accordo di cambio elemento di disciplina, che costringesse a comportamenti delgi operatori italiani verso la stabilità, ha continuato a essere non meno rigorosa, pur non avendo più il vincolo della disciplina del cambio, attraverso una gestione diretta e severa della moneta e del credito.

3. L’Italia che negli anni Settanta e per gran parte degli anni Ottanta aveva visto più volte avvitare la sua economia nella spirale perversa “aumento dei costi salariali/prezzi”, ha abolito ogni indicizzazione e ha adottato una severa politica dei reddito. Congiuntamente è stata iniziata una politica di riequilibrio del bilancio dello Stato.

4. Veniamo ora alla proposta dell’Italia di una parità centrale tra 1.000 e circa 1.010 per marzo. E’ sempre stata la prassi di impostare la discussione partendo dai valori di mercato. Come è stato ricrodato e come è nella tabella di fronte a voi, il tasso di mercato della lira rispetto al marco, nella media degli ultimi sei mesi, è di poco superiore a 1.000. Questo è appunto il tasso al quale l’Italia fa riferimento.

5. Vi invito a considerare un altro aspetto: che per contribuire alla politica di disinflazione, la Banca d’Italia ha adottato una politica monetaria che ha mantenuto e mantiene elevati i tassi a breve. Se esaminate la curva dei tassi di interesse in Italia, essa disegna una “V”, con il tasso più basso del titolo a tre anni e agli estremi dei titoli a tre mesi e di quelli a dicei anni, che hanno di fatto lo stesso livello. Non sono in grado di calcolare quanto questa situazione dei tassi d’interesse sul mercato monetario abbia influenzato e influenzi il livello del tasso di cambio. Quel che sembra indubbio è che il tasso di cambio ha subito e subisce due influenze di segno opposto: 1) è sostenuto da un tasso di interesse elevato; 2) è frenato dagli acquisti di valuta estera fatti dalla Banca d’Italia.

6. E’ interesse dell’Italia di avere una parità che sia equa, sostenibile e duratura. Credo che una parità di 1.000 lire per marco sia una cifra appropriata.

7. Con questo animo, con questi sentimenti, con il desiderio di ritornare pienamente a far parte di questa Comunità Europea, che vede nell’accordo di cambio uno dei punti essenziali della politica di convergenza che l’Europa ha seguito in questi anni, Vi prego caldamente di tener conto di queste mie considerazioni e di accogliere integralmente la proposta che l’Italia ha fatto, e cioè non solo di vedere di buon grado il rientro dell’Italia, ma di approvare anche il valore proposto per la parità della lira”.

Peluffo racconta: “Seguì un lungo silenzio. Nessuno osò parlare. Investiti da quel fiume di argomentazioni appassionate. Il sottosegretario irlandese chiese se qualcuno volesse prendere la parola. Tutti tacquero. La seduta fu sospesa”.

Dopo estenuanti trattative durate più di otto ore – compresa la minaccia di Ciampi di tornare a Roma senza accordo e lasciar fluttuare liberamente la lira - si trovò l’accordo in tarda serata (giusto in tempo per comunicare l’accordo prima dell’apertura dei mercati australiani: mezzanotte di Bruxelles equivale alle 9.00 a Sidney) a quota 990 contro marco.

Sempre Peluffo: “Il ritorno a tarda sera fu euforico. Ci si rendeva conto di aver ottenuto un successo strepitoso. Ciampi si attendeva un trionfo anche sulla stampa”. Ma grande fu la delusione perche i giornali presentarono il risultato come una vittoria a metà, perchè gli industriali speravano in qualcosa di meglio" (a una parità di 1.100 lire, le esportazioni italiane sarebbero state agevolate, con lo svantaggio di importare imflazione, ndr). Non si capì che grazie all’accordo, saremmo poi entrati nell’euro fin dalla sua introduzione. E vi pare poco?

Il Financial Times, però, il 26 novembre 1996 fece tornare il sorriso a Carlo Azeglio Ciampi. Lionel Barber – The quest for Emu: Italy home but not dry – descrisse Ciampi come un lottatore ("his craftiness is legendary") senza pari in Europa, l’unico in grado di vincere la resistenza del duro dei duri, Hans Tietmeyer, Presidente della Bundesbank. Barber – tra l’altro - cita un diplomatico italiano: “Ciampi gave the performance of his life. Se qualcuno (diverso da Ciampi, ndr) avesse provato la stessa operazione lo avrebbero buttato giù dalla finestra”.

Peluffo ci racconta che quell’articolo fu una delle soddisfazioni più intense di quegli anni in prima linea. Io l’articolo di Barber – pescato nel mio archivio, qui a fianco - lo porto sempre a lezione. Per ricordare agli studenti il capolavoro di Carlo Azeglio Ciampi.

martedì 23 novembre 2010

La tenacia, il coraggio, De Laurentiis e la paura di fallire

Dino de Laurentiis
Settimana scorsa è scomparso all’età di 91 anni Dino (Agostino) De Laurentiis, grandissimo produttore cinematografico italiano. Un uomo che ha saputo usare l’avventurosa saggezza napoletana per scegliere, vedere, lontano, rischiare, decidere.

Nella sua vita ha prodotto più di 100 film, tra i quali “Riso amaro”, “La grande guerra”, “Totò a colori”, “Serpico”, “I tre giorni del condor”.

Una frase mi ha colpito, nel racconto del nipote di Dino - Aurelio de Laurentiis, figlio di Luigi, fratello di Dino, attuale presidente del Napoli Calcio: “Dino non temeva l’insuccesso. Era la sua forza”. Figlio di pastaio, nato a Torre Annunziata nel 1919, è diventato uno dei più celebri produttori dell’universo cinematografico.

Credo che la paura di fallire, la paura di non farcela sia determinante nella vita.

L’economista della Bocconi e del MIT Francesco Giavazzi nel suo “Il liberismo è di sinistra” (con Alberto Alesina, Il Saggiatore, 2007) spiega la diversità tra Stati Uniti e Europa: “In Italia il numero dei fallimenti di imprese è tra i più bassi dei Paesi Ocse. Fallire in Italia, è un trauma da evitare. La stessa frase “è un fallito” ha una connotazione colpevole e offensiva. Come se il fallimento di un’attività economica rischiosa, che non ha prodotto profitti sufficienti, significa che chi l’ha intrapresa non sia una persona onesta, ma un truffatore. Il termine “fallito”, invece di caratterizzare semplicemente il proprietario di un’azienda che non è sopravvissuta alla concorrenza, diventa un macigno che un imprenditore si porta sulle spalle per il resto della vita”.

Al Pacino in Serpico
Quando nel 1972 una legge cancellò i benefici grazie ai quali era nata Cinecittà a Roma, De Laurentiis non esitò un secondo e si trasferì a Los Angeles, dove ripartì subito alla grande con il successo di “Serpico”, con un grandissimo Al Pacino.

Dino De Laurentiis è stato un uomo capace di riprendersi e rialzarsi ogni volta dopo le disavventure e le difficoltà della vita (perse il figlio in un incidente aereo avuto dalla bellissima Silvana Mangano).

Nel bel libro di Mario Calabresi, La fortuna non esiste.Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi (Mondadori, 2008) si trasmette un messaggio altamente positivo. Il motto del libro è una frase di Joe Biden, attuale vicepresidente degli Stati Uniti: «Non importa quante volte cadi. Quel che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi».

Sempre Giavazzi e Alesina raccontano un aneddoto emblematico (Il Liberismo è di sinistra, p. 78): “La figlia di un nostro collega stava per sposarsi, ma all’ultimo decise di rompere il fidanzamento. All’inevitabile domanda sulle motivazioni di una scelta tanto drastica rispose che, tra l’altro, il fidanzato non “era mai fallito”. Il povero ex fidanzato era probabilmente un ragazzo che preferiva un posto fisso e non aveva partecipato all’effervescente nascita di nuove iniziative legate a internet, molte delle quali, appunto, sono fallite. La figlia del nostro collega avrebbe serie difficoltà a trovare un “fallito” da sposare in Italia”.

Ci è piaciuto un recente commento di Luca Cordero di Montezemolo, a seguito della sconfitta nel mondiale piloti: “Quando facciamo degli errori (in Ferrari, ndr), come in questo caso, li riconosciamo, li analizziamo e poi torniamo a guardare subito avanti in attesa della prossima sfida”.

Marco Marinucci, manager di Google e padre della fondazione Mind the Bridge, intervistato dal Corriere della Sera il 6 novembre scorso dice: “Mi viene in mente un report che un’agenzia dell’Onu fece circa un anno fa. Venivano intervistati i trentenni di tutto il mondo e la domanda era: ti senti padrone del tuo futuro? Il 72% dei trentenni americani rispondeva di sì. Circa il 75% dei trentenni italiani di no”.

Chiudo con il ricordo di Dino da parte di Aurelio de Laurentiis: “Ascoltava tutti e non ascoltava nessuno. Ha spinto l’acceleratore della sua vita fino all’ultimo”.

Dino, ti sia lieve la terra, sei un grande!

lunedì 22 novembre 2010

22 novembre 1963: assassinato John Fitzgerald Kennedy

JFK
John Fitzgerald Kennedy, comunemente chiamato John Kennedy o solo JFK, venne assassinato a Dallas, in Texas, 47 anni fa, alle 12.30 del 22 novembre 1963.

Il quarantaseienne presidente degli Stati Uniti sta percorrendo su una macchina scoperta una piazza della città, accompagnato dalla moglie Jacqueline e dal governatore del Texas John Connolly, quando dal quinto piano di un edificio e da una collinetta sulla destra del corteo (memorabile il filmato di Zapruder) partono alcuni colpi di fucile. Gravemente feriti, Kennedy e il governatore sono immediatamente trasferiti al Parkland Memorial Hospital, dove il presidente muore, trenta minuti dopo senza riprendere conoscenza.


Kennedy appena colpito dai proiettili
Immediatamente dopo gli spari, la polizia arresta il presunto responsabile: si chiama Lee Harvey Oswald – che poi verrà ammazzato solo due giorni dopo da Jack Rubinstein detto Jack Ruby - ha fatto parte in passato del corpo dei marines. Nel frattempo sull’aereo che lo riporta a Washington il vicepresidente Lyndon B. Johnson presta giuramento come 36° presidente degli Stati Uniti: sono passati appena 99 minuti dalla morte di JFK.

Candidato del Partito Democratico, vinse le elezioni presidenziali del 1960 e succedette al Presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower. Assunse la carica il 20 gennaio 1961 e la mantenne fino al suo assassinio.

Kennedy, di origine irlandese, è stato il primo Presidente degli Stati Uniti di religione cattolica. Fu anche il primo presidente statunitense ad essere nato nel XX secolo ed il più giovane a morire ricoprendo la carica.

La sua breve presidenza, in epoca di guerra fredda, fu segnata da alcuni eventi molto rilevanti: lo sbarco nella Baia dei Porci, la Crisi dei missili di Cuba, la costruzione del Muro di Berlino, la conquista dello spazio, gli antefatti della Guerra del Vietnam e l'affermarsi del movimento per i diritti civili degli afroamericani.

Desidero ricordare John Fitzgerald Kennedy con le sue parole più belle, enunciate nel discorso di insediamento alla Casa Bianca il 10 gennaio 1961: “My fellows Americans, ask not what the country can do for you, ask what you can do for your country. My fellows citizens of the world, ask not what America will do for you, ask what together we can do for the freedom of men”.

Ask not. Due sole parole che sono ancora oggi evocative. Smettiamola di lamentarci. Chiediamoci invece che cosa possiamo fare noi per il nostro paese. Solo così potrà tornare un po’ di entusiasmo e di ottimismo. Ne avremmo bisogno.

Da numerose ricerche demoscopiche, mai l’Italia è stata così poco ottimista. Un ricercatore demoscopico contattato mi ha detto: “Dal 63% storico (per circa 30 anni) siamo scesi - nel momento più' cupo - al 29% di sentiment positivo (ottimisti in senso stretto + stabili positivi). Nel 2009 siamo risaliti a oltre il 52% e nel 2010 siamo rimasti fermi: da 8 a 10 punti in meno rispetto alla media storica ma con un livello d'insoddisfazione di base del 30% circa superiore rispetto alla tradizione sino al 2007”.

Ripensiamo alle parole di Giorgio Ambrosoli - commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, assassinato dal killer J. Arico assoldato dal finanziere mafioso Michele Sindona - del 25 febbraio 1975 (ben 4 anni prima di essere ammazzato) alla moglie Annalori: “...Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi”.

In sole otto righe la declinazione della parola dovere è ripetuta quattro volte. Pensiamoci. Basta lamenti. Rimbocchiamoci le maniche e diamoci da fare. In modo serio e onestamente.

venerdì 19 novembre 2010

America ancora sotto shock. E i banchieri? Hanno già ordinato la Ferrari nuova

Una volta gli imprenditori milanesi volavano alto e finanziavano istituzioni culturali, dove si formavano generazioni di persone preparate, colte, curiose, con visione internazionale. Oggi finanziano le squadre di calcio.


Per rinverdire gli antichi fasti, martedì scorso sono stato all’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. L'ISPI, fondato nel 1934, è tra i più antichi e prestigiosi istituti italiani specializzati in attività di carattere internazionale, con sede a Palazzo Clerici a Milano.

E’ giusto ricordare che l’ISPI nasce grazie alla forte volontà di Alberto Pirelli (che ne diviene infatti nel 1935 il Presidente). Lo storico Nicola Tranfaglia nel suo splendido Vita di Alberto Pirelli (1982-1971)- Einaudi, 2010 - racconta come “L’attività dell’ISPI venne avviata ufficialmente il 27 marzo 1934 da un gruppo di giovani studiosi dell’Università di Milano e di Pavia, che, in considerazione della forte presenza internazionale italiana in quegli anni, si proponevano di dotare l’Italia fascista di un centro di studio focalizzato sulla politica estera, ispirandosi al modello del Royal Institute of Internation Affairs di Londra e della Foreign Policy Association di New York...Si assiste a una politica del presidente Pirelli che pensa a un’istituzione che coltivi nello stesso tempo un’azione politico-culturale di alto livello, un progreamma di insegnamento, un progetto editoriale che coinvolge storici di grande qualità e a volte tutt’altro che schierati con il regime”.

Nelle sale affrescate da Gianbattista Tiepolo si tiene una tavola rotonda su "Elezioni di mid term. Le sfide economiche della presidenza" con la presenza dell’ex ambasciatore a Washington Boris Biancheri (Presidente dell’ISPI), il responsabile della sede di New York del Financial Times Francesco Guerrera (formazione classica, 38 anni, prima Master in giornalismo a Londra, poi 4 anni a Hong Kong per l’FT) e il direttore della Stampa Mario Calabresi.

Riporto gli spunti più interessanti.
Guerrera spiega come gli Stati Uniti siano ancora sotto un forte shock psicologico dovuto alla crisi finanziaria. Avevano sempre pensato che le crisi potevano colpire il Messico, l’Argentina, la Thailandia, i paesi periferici dell’Europa, ma mai avrebbero pensato di essere l’epicentro di una crisi. Da qui le difficoltà ad uscirne e il deciso rialzo precauzionale della propensione al risparmio.

L’altra grande credenza infranta è stato il mercato immobiliare. Il dogma era: i prezzi delle case non possono mai scendere. Nel passato si era assistito a un calo massimo dell’8%. Vedere i prezzi delle case calare del 34% (in media!) è stata una sorpresa per gli eterni ottimisti. L'uomo ragiona sulla base di intervalli temporali troppo brevi. E compie deduzioni irrazional. “Nel periodo 1997-2005, negli Stati Uniti la percentuale dei proprietari di case crebbe in tutte le regioni, in tutti i gruppi di età ed etnici, nonchè in tutte le fasce di reddito...La proprietà della casa , nonostante tuttii vantaggi, non è la soluzione ideale per chiunque e in qualsiasi circostanza” (Robert Shiller, Finanza Shock. Come uscire dalla crisi dei mutui subrime, Egea, 2008).

E’ imprescindibile rifarsi a Nassim Taleb e al suo ottimo “Giocati dal caso” (Il Saggiatore, 2008) in cui ci illumina sul ruolo della fortuna nella vita: “Ci sono casi in cui ci si può fidare di una performance storica, ma non troppi. E’ necessario esibire un minimo di umiltà e cautela da chi lavora con il caso. Machiavelli scriveva alla fortuna almeno il 50% di ciò che accade (il resto si deve all’astuzia e alla bravura)....Il fatto che una persona abbia guadagnato in passato non è né significativo, né rilevante...(e qui si supera, ndr)...Non siamo progettati per capire le cose. Siamo fatti solo per sopravvivere e procreare. Per sopravvivere, dobbiamo sovrastimare alcune probabilità”.

Se ne deduce che la crescita del mercato immobiliare prima della crisi è stato un fatto casuale e NON significativo. Sempre Taleb (e provate a non ridere): “Se fate una gara in mountain bike con un vostro amico attraverso la Siberia e al traguardo lo battete di un solo secondo, è chiaro che non potete vantarvi di essere più veloci di lui. Potreste essere stati aiutati da qualcosa, o potrebbe tratttarsi semplicemente di un caso, e null’altro”.

Hotel su Brickell Avenue a Miami
Calabresi – quando era inviato per Repubblica negli States – cercò l’epicentro della crisi – il malato numero zero - e lo trovò su suggerimento di Stiglitz a Downtown Miami in Florida, dove in Brickell Avenue i prezzi sono passati per un bilocale con vista mare da 299.000$ a 79.000$. In Florida c’era gente che firmava compromessi per un immobile pur non avendo le disponibilità e lo vendeva poco dopo il rogito, credendo che nulla potesse impedire la crescita dei prezzi.

Oggi negli States il 75% degli household ha un mutuo più grande del valore attuale della casa – si trovano, in gergo, underwater. Chi è più scaltro, esce di casa e spedisce le chiavi alla banca (give back keys letter). Così sono numerosi i quartieri disabitati con persone che hanno abbandonato le loro case. A nord di New York, a Buffalo, il sindaco sta procedendo ad abbattere interi quartieri per poi piantare boschi. Un grande!

Guerrera spiega perchè gli stimoli dell’Amministrazione Obama faticano a produrre effetti:

1. 780 miliardi$ di stimolo pubblico sono pochi su 15.000 miliardi di PIL
2. paura che la crisi ritorni (aumento del risparmio)
3. shock psicologico ancora da assorbire
4. la spesa pubblica si è concetnrata su sussidi mirati al settore automobilistico e alla casa, ma sarebbe necessario un piano infrastrutturale tipo il New Deal di Roosevelt, visto gli aeroporti, le stazioni, i ponti...non sono certo al livello asiatico
5. il tightening quantitativo della Fed non piace neanche ai membri della Fed che si sentono soli in battaglia. E dopo la perdita della maggioranza al Senato sarà ancora più dura per Obama approvare provvedimenti espansivi.

Michael Douglas, alias Gordon Gekko in Wall Street
Chiudo con un divertente racconto di Calabresi, che tempo fa ha intervistato una imprenditrice, il cui business è organizzare feste di compleanno per i figli dei Master of the Universe della finanza (copyright Il Falò delle vanità, Tom Wolfe). Nella fase di bonanza, una festa di un bambino (figlio di un Gordon Gekko qualsiasi) poteva costare fino a 50.000$ (lo riscrivo, così ci capiamo, cinquantamila dollari!). Veniva preparata in una location prestigiosa una torta-casetta di marzapane e alla fine i bambini invitati potevano portarsi a casa una porta, una finestra di cioccolato...Follia!

Potranno mai i banker rinsavire e limitare la loro avidità? Difficile. I primi dati sui bonus 2010 fanno pensare che nulla sia cambiato. I concessionari di Ferrari a New York hanno già gli ordini in mano, ci riferisce l’ottimo Francesco Guerrera del FT.

giovedì 18 novembre 2010

L'università italiana: gli operai sussidiano i figli di papà

I quotidiani e le televisioni ci hanno raccontato che a Londra gli studenti hanno assaltato la sede dei Tories per protestare contro l’aumento delle tasse universitarie previste dalla riforma guidata dal premier conservatore David Cameron.

Uno studente della London School of Economics, Carl, 23 anni, spiega: “Continueremo al lottare, non solo per impedire l’aumento delle tasse universitarie, ma per contrastare una politica che, in Gran Bretagna e in tutto l’Occidente, sta facendo pagare ai più deboli le colpe dei più forti, ai più poveri gli eccessi dei banchieri che hanno provocato la recessione globale”.


Ci permettiamo di sostenere che Carl non ha capito una beata fava e lo invitiamo a leggersi Roberto Perotti, “Anti Robin Hood all’Università”  (Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2010). Ne riportiamo il pensiero chiave: “La riforma proposta dal governo fa esattamente l’opposto di quanto è stato riportato: riduce il costo degli studi universitari per il terzo meno abbiente degli studenti, e lo aumenta per i più ricchi. Le rette universitarie probabilmente aumenteranno, ma in Gran Bretagna chi vuole può pagarle chiedendo al governo un prestito dello stesso ammontare; questo viene restituito quando si comincia a lavorare, ma solo se il reddito supera una certa soglia. Con la riforma questa soglia cresce, quindi più laureati non pagheranno niente; sale il tasso di interesse (del prestito a favore degli studenti, ndr) per coloro che guadagnano di più; e aumenta il sussidio ai meno abbienti per pagare le spese di sostentamento durante gli studi, mentre diminuisce per i più ricchi. Sale anche il supporto per gli studenti lavoratori che frequentano a tempo parziale...Chi protesta dunque? Gli studenti meno abbienti male informati e i figli di papà che vogliono mantenere i propri privilegi attuali. Questa diabolica coalizione di interessi è uno dei motivi principali per cui è praticamente impossibile riformare l’università. In nessun posto ciò si vede meglio che in Italia”.

In Italia sono per lo più i figli delle famiglie abbienti che frequentano l’università. Se l’università è quasi gratuita, significa che i contribuenti i cui figli si fermano alla scuola superiore sussidiano un investimento ad alto rendimento e con rischio moderato per i più ricchi.

L’economista Pietro Reichlin – Più tasse per laurearsi meglio scrive: “Non è affatto detto che dare più soldi alle università sia condizione sufficiente per aumentare la qualità dell'istruzione. Dal 1998 al 2002 la spesa pubblica per l'università è cresciuta in Italia del 34% (del 13, del 18 e del 24% rispettivamente in Francia, Germania e Regno Unito). Come sono stati spesi questi soldi? Direi quasi completamente per promuovere dalle fasce inferiori alle superiori gran parte dei docenti già in ruolo.
… questo argomento è basato su una premessa fallace: che tutti debbano pagare le stesse tasse. Ricordiamoci che l'investimento in istruzione è redditizio. Con tasse uguali per tutti, facciamo un regalo alle famiglie benestanti (che possono anticipare il denaro) e mettiamo in difficoltà le famiglie povere. Sarebbe più equo aumentare il costo d'iscrizione all'università e, al contempo, dare borse di studio agli studenti economicamente svantaggiati “.
Peraltro come ci suggerisce Perotti, “Pagando il costo dell’istruzione universitaria, gli studenti avrebbero molta più voce nel protestare contro i docenti che insegnano male, che non si fanno trovare a ricevimento, o che non si aggiornano. Oggi non possono farlo: quando il servizio che si riceve è quasi gratuito il potere contrattuale dei fruitori è limitato”.

Più ingiustizia di così si muore. E la sinistra italiana cosa fa? Invece di proporre borse di studio più sostanziose a fronte di tasse universitarie più care, continua a fare propaganda sul diritto allo studio a scapito dei meno abbienti. Ma sinistra non voleva dire – Bobbio dixit – difendere le classi più deboli? Io lo ripeto da sempre. Bertinotti e la demagogia sono i più grande alleati della destra.

P.S.: per ulteriori approfondimenti, si consiglia la lettura di Roberto Perotti, “L’Università truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l’università”, Einaudi, 2008

mercoledì 17 novembre 2010

Lo spread BTP-Bund (Seconda parte)

Ieri abbiamo detto - vedere il post di ieri spread BTP-BUND - rappresenta l’indice di affidabilità del Paese Italia, che come noto ha il terzo debito pubblico del mondo, pur non essendo la terza economia del mondo.

I mercati svolgono con decisione la funzione informativa. Attraverso il meccanismo dei prezzi ci danno numerose informazioni. I mercati sono come delle sentinelle, giocano un ruolo positivo.
Rappresentano il Capitano Drogo del Deserto dei Tartari (Dino Buzzati, 1940). Sempre all'erta.
Ci ricordiamo benissimo come il Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi (anni Novanta) andasse sempre in giro con in tasca il grafico dello spread BTP-Bund, dimostrando come il focus del Governo Prodi fosse concentrato sulla riduzione dello stesso e quindi la diminuzione degli oneri sul debito pubblico. Ogni volta che veniva intervistato, Ciampi tirava fuori il dato aggiornato e spiegava. Che tempi!

Ci fa quindi sorridere il Sole 24 Ore del 12 novembre, “Stabilità? Sì. Paralisi? No, grazie”. In prima pagina Forquet scrive: “...E nella fast economy globale gli avversari spuntano da ogni parte, senza sosta, ad altissima velocità. Hanno il volto degli speculatori sui mercati finanziari, come testimoniano la Grecia e quegli spread che hanno ricominciato ad allargarsi”. Ma quali avversari! I mercati finanziari sono amici dei paesi coinvolti, soprattutto dei loro contribuenti. Esercitano in modo drastico la disciplina che i politici dei singoli paesi non sono capaci di adottare. Meno male che ci sono i mercati! Altrimenti la spesa pubblica volerebbe alle stelle. Se i mercati non avessero messo un fermaglio, avvertito - tramite lo spread in continua espansione – che le cose stavano volgendo al peggio, l’Italia non avrebbe mai intrapreso il percorso di risanamento che ci ha consentito di entrare nell’Euro.
Il Partenone ad Atene
Vogliamo parlare della Grecia? Fino all'ultima manovra d'emergenza - richiesta con pressione dai mercati - i dipendenti pubblici greci prendevano un bonus (significativo) se arrivavano puntuali in ufficio. Una follia, bella e buona. Sul Financial Times di ieri leggiamo che il budget deficit dal 7,8% (già rivisto dal 3,5%) è stimato oggi al 9,4%. Il rapporto debito/PIL pubblico è stato rivisto al rialzo dal 126,8% al 144%. Con questi dati, ovviamente lo spread si allarga. Ma la colpa non è certo dei mercati, che sono uno specchio del comportamento dei paesi convolti.
Siamo sempre a vedere avversari, anche quando non ci sono, o addirittura quando sono amici.

Guido Carli
Noi italiani siamo specializzati. Abbiamo la sindrome del complotto. Così l’ex Governatore della Banca d’Italia Guido Carli: “ Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascista, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fducia esterna nel valore della nostra moneta, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero interi pezzi della ricchezza nazionale...La tesi che denuncia piani destabilizzanti, ordini da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha il diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui titoli della Repubblica o su quelli di altri stati” (Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, 1993, p.300).

Secondo me, a livello di tassi a lungo termine e relativi prezzi dei titoli di Stato, è molto utile rifarsi alla teoria della riflessività elaborata da George Soros, gestore di hedge fund, finanziere e filantropo.

George Soros
Tale teoria sostiene che i mercati sono sempre inefficienti e che il rapporto fra fondamentali (i fondamentali di un paese sono: deficit, livello dei tassi di interesse, oneri sul debito, tasso di occupazione, tasso di crescita del pil...) e prezzi è circolare, cioè i fondamentali influiscono sui prezzi, ma i prezzi a loro volta, influiscono sui fondamentali. Soros rileva che “I partecipanti al mercato non possono fondare le loro decisioni sulla semplice conoscenza, e che le loro percezioni parziali possono influenzare non solo i prezzi di mercato ma anche i fondamentali che quei prezzi dovrebbero riflettere”. Spesso, quindi sui mercati si crea una spirale e un progressivo allontanamento dei prezzi dai fondamentali fino a creare una bolla speculativa cui, con la rottura della medesima, seguirà un rapido riallineamento dei prezzi ai fondamentali. “E’ falso e fuorviante che i mercati finanziari tendano verso un equilibrio naturale”.

Anche Mario Draghi - Gli economisti e la crisi, 22 ottobre 2009 – a suffragio delle teorie di Soros – si esprime così: “Non è dubbio che la fiducia nella capacità del mercato di auto-regolarsi e generare in ogni circostanza allocazioni efficienti delle risorse si sia rivelata mal riposta....Il mercato...acceccato, perdeva la sua capacità diagnostica; i suoi meccanismi autocorrettivi erano paralizzati”.

Verifichiamo insieme la teoria di Soros prendendo in considerazione la situazione italiana nel 1995-6, pre-ingresso dell’Italia nell’Unione Economica e Monetaria.
Come parametro prezzo prendiamo come riferimento lo spread BTP-BUND a 10 anni (10y), come parametro fondamentale prendiamo 1) il deficit e 2) il debito pubblico.

Come si vede in Figura 9 (copyright dispense Prof. Piccone) la circolarità della relazione prezzo (spread BTP-BUND) e fondamentali (deficit/debito pubblico) è evidente.


Il fatto che si sia passati da uno spread addirittura negativo (dicembre 1998) a 155 basis point (1,55%) di ieri può essere spiegato non solo dall’aumento del “rischio paese”, ma anche dall’appetito per il rischio.

L’economista Favero in un suo intervento Lo spread BTP-BUND, in tempo di crisi, il 9 giugno 2005, http://www.lavoce.info/articoli/pagina1580-351.html
scrive: ”La relazione tra fondamentali fiscali e differenziali di interesse non è lineare: la propensione al rischio dei partecipanti ai mercati finanziari non è costante nel tempo e l’effetto dei fondamentali sul differenziale di interesse può essere molto diverso in tempi di alta e bassa propensione al rischio”.

Noi siamo d’accordo con Soros: “I mercati non possono scontare correttamente il futuro perchè non si limitano ad anticiparlo, a contribuiscono a crearlo". Che fare? Seguire la strategia di Ciampi. Ridurre la spesa primaria - e vediamo come sia difficile  - porsi come obbiettivo un forte avanzo primario.
"Affamare la bestia", direbbe Ronald Reagan, e la bestia è l’Amministrazione Pubblica, pachidermica, inefficiente, irriformabile.

P.S.: per leggere la terza parte cliccare qui.
Per leggere la quarta parte cliccare qui.