mercoledì 30 marzo 2011

Omaggio a Ezio Tarantelli, barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse il 27 marzo 1985

Durante la lezione in Università di settimana scorsa ho preso atto per l'ennesima volta che gli studenti non sanno una beata fava sulla storia italiana degli ultimi 30 anni. Da qui il post di oggi, che cerca di colmare qualche lacuna.

In un post del 2010, quando ancora il blog era per iniziati – vedi post Modigliani, Baffi e Tarantelli - ripresi la testimonianza del premio Nobel Modigliani: “Tarantelli venne ucciso perchè, con coraggio, diceva la verità sulle aberrazioni della scala mobile e del punto unico. Fu lui, con me, a lanciare l’idea dell’inflazione programmata e della contrattazione tra le parti sociali, basandosi sul modello che comincia contrattando il salario nominale, sulla base di un obiettivo per l’inflazione futura...Quella strada si concluse nel 1993, quando finalmente anche la CGIL, grazie al lavoro di Carlo Azeglio Ciampi, accetta il principio di negoziare il salario nominale”.

Ermanno Rea nello splendido “L’ultima lezione” (Einaudi, 1992) scrive: “In luglio 1984 il Pci avvia le procedure per il referendum sulla scala mobile: In ottobre la Camera, dopo aver discusso le conclusioni dell’inchiesta sul caso Sindona, boccia una mozione radicale in cui si chiedono le dimissioni di Giulio Andreotti, accusato di aver sostenuto oltre ogni decenza il bancarottiere siciliano....In dicembre un’ennesima strage insanguina l’Italia: due esplosioni sventrano il treno 904 in galleria tra Firenze e Bologna. Quindici i morti; oltre cento i feriti. Il 27 marzo dell’anno successivo, il 1985, le Brigate Rosse ammazzano Ezio Tarantelli: quasi sotto gli occhi di Caffè.
E’ una mattina sfolgorante. Sulla ripida scalinata di accesso alla facoltà di Economia e commercio marzo è di tepore irresistibile, tanto è vero che non si contano i giovani corpi discesi al sole, qualche libro per cuscino sotto la nuca. La raffica fa sobbalzare tutti: è un rumore attutito ma inconfondibile anche per le orecchie di chi non ha mai sentito, se non al cinema, crepitare un’arma da fuoco automatica. Si odono delle grida....In una Citroen rossa, la testa inondata di sangue, un uomo giace col busto riverso sul sedile accanto a quello di guida sul quale ha preso posto. E’ stato il facile bersaglio di uno sconosciuto che imbracciava una mitraglietta Scorpion e che prima di colpirlo lo ha chiamato per nome: “Professor Tarantelli!””.

Ezio Tarantelli
Il torto di Tarantelli - agli occhi dei terroristi – era di voler proporre un rimedio, buono o cattivo che fosse, contro la disoccupazione.

In una lettera che Tarantelli scrisse a Modigliani nel 1983 si legge: “...Ma non ho alcuna intenzione di cambiare linea. Costi quel che costi ai miei rapporti con il sindacato e fuori”. Sembra di leggere Giorgio Ambrosoli nella lettera alla moglie Annalori, quando scrive: “E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell’Umi (Unione Monarchica Italiana, ndr) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito.[…] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa”.

In un recente intervento del Governatore Mario Draghi leggiamo: “Le ripercussioni di shock esogeni di prezzo sulle economie dei paesi dell’area sono oggi molto contenute: gli aumenti del prezzo del petrolio tra il 2007 e il 2008 sono stati di entità comparabile, in termini reali, con quelli della fine degli anni Settanta, ma hanno generato un rialzo una tantum dei prezzi al consumo inferiore ai due punti percentuali, che non si è radicato in inflazione, diversamente da quel che in passato era successo in diversi paesi dell’area. Secondo nostre valutazioni, rispetto al decennio Settanta l’effetto inflazionistico in Italia di uno shock di questo tipo si è ridotto a un decimo. Vi hanno certo contribuito cambiamenti strutturali nei processi produttivi, ma la credibilità acquisita dalla politica monetaria e le modifiche che ne sono discese nelle modalità di determinazione di prezzi e salari hanno svolto un ruolo cruciale”.
E’ un omaggio postumo alle idee di Ezio Tarantelli, grazie al quale anche in Italia è stata sconfitta la spirale prezzi-salari.

Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi. Ma in quale Paese al mondo i giuslavoristi e gli economisti del lavoro vengono ammazzati o devono viaggiare sotto scorta, come l'autorevole Pietro Ichino?

Ah dimenticavo. Una delle massime folgoranti di Ezio Tarantelli era: "L'utopia dei deboli è la paura dei forti". Tenere a mente.

lunedì 28 marzo 2011

Omaggio a Ugo La Malfa, politico di grande spessore

Il 26 marzo ricorre l’anniversario della morte di Ugo La Malfa, grande politico italiano, che della libertà aveva fatto la sua bandiera. Un’emorragia cerebrale lo colpì , il 24 marzo 1979 il giorno dell’attacco a Banca d’Italia, vedi il duplice post
Ricordiamolo come merita.

Ugo La Malfa nasce a Palermo il 16 maggio 1903. Si trasferì a Venezia dopo aver completato gli studi secondari, iscrivendosi a Ca' Foscari alla Facoltà di Scienze politiche. Così ricorda: “Avevo pochi soldi e la sera mangiavo fichi secchi. La mia cena era di fichi secchi”((Intervista sul non-governo, a cura di Alberto Ronchey, Laterza, 1977, p. 2).

Così Wikipedia: “Nel 1934 viene assunto da Raffaele Mattioli a Milano, nell'ufficio studi della Banca Commerciale Italiana del quale diviene direttore nel 1938. In questi anni lavora intensamente, soprattutto con funzioni di raccordo fra i vari gruppi dell'antifascismo, per costituire una rete che confluisce nel Partito d'Azione, di cui egli sarà uno dei fondatori. Il 1 gennaio 1943 La Malfa e l'avvocato Adolfo Tino riescono a pubblicare il primo numero clandestino de Italia Libera; nello stesso anno La Malfa deve lasciare l'Italia per sfuggire ad un arresto della polizia fascista. Trasferitosi a Roma, prende parte alla Resistenza e rappresenta il PdA in seno al CLN, insieme con Emilio Lussu.

Nel 1945 assume il dicastero dei Trasporti nel governo guidato da Ferruccio Parri. Nel seguente governo di Alcide De Gasperi, è nominato ministro per la Ricostruzione e in seguito ministro per il Commercio con l'estero. Nel febbraio del 1946 si tiene il primo congresso del Partito d'Azione, nel quale prevale la corrente filosocialista facente capo a Emilio Lussu: La Malfa e Parri lasciano il partito. A marzo, La Malfa partecipa alla costituzione della Concentrazione democratica repubblicana che si presenta alle elezioni per la Costituente del giugno 1946: La Malfa risulta eletto insieme a Parri. Nel settembre dello stesso anno, incoraggiato da Pacciardi, La Malfa aderisce al Partito Repubblicano Italiano (Pri).
 Nell'aprile del 1947 La Malfa viene designato a rappresentare l'Italia al Fondo Monetario Internazionale. L'anno seguente è nominato vicepresidente dell'Istituto. Ma non lascia la politica attiva. Nel 1962 è nominato ministro del Bilancio in un governo Fanfani. Nel mese di maggio presenta la Nota aggiuntiva, che fornisce una visione generale dell'economia italiana e degli squilibri da cui è caratterizzata, delineando inoltre gli strumenti e gli obiettivi della programmazione democratica attraverso la politica dei redditi. Deve affrontare l'ostilità dei sindacati e di Confindustria. Nel marzo del 1965 è eletto segretario del Partito Repubblicano Italiano. Si avvede immediatamente delle insufficienze della coalizione di centrosinistra. Nel 1966, La Malfa apre un dibattito con il PCI che coinvolge Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, col quale aveva condiviso le prime esperienze antifasciste, comunista, figlio di Giovanni: il leader repubblicano invita la sinistra a lasciare la sua vecchia ortodossia, ponendosi come forza in grado di sviluppare un approccio riformatore, consonante con la complessità di un paese radicato nell'Occidente. Nel quarto governo Rumor (1973), La Malfa assume l'incarico di ministro del Tesoro. Tra il 1976 e il 1979 è il maggiore sostenitore della politica di "solidarietà nazionale" tesa a condurre il PCI nell'area della legittimità. La Malfa ha presente con una lucidità che non ha eguali le difficoltà crescenti del sistema democratico e giudica positivamente la revisione ideologica e politica che Enrico Berlinguer imprime al PCI. Nel 1978 la sua azione risulta determinante nella decisione italiana di aderire al Sistema monetario europeo”.

La sua carriera politica fu segnata da quattro momenti particolari:

1) 1943, quando La Malfa abbandonò l’Italia per sfuggire all’arresto dopo la pubblicazione clandestina del giornale Italia Libera. Rientrò successivamente prendendo parte alla Resistenza e rappresentando il Partito d’Azione in seno al Comitato di Liberazione Nazionale;

2) Sequestro di Aldo Moro – segretario della Democrazia Cristiana - 1978, quando La Malfa fu uno dei più convinti sostenitori del “partito della fermezza”, ostile ad ogni trattativa con le Brigate Rosse;

3) 1974, quando le banche di Michele Sindona (vedi post n. 1 e post  n. 2) – Banca Privata Finanziaria e Banca Unione, poi oggetto di fusione nella Banca Privata Italiana - crollano, a fronte delle continue proposte di salvataggio (definite da Enrico Cuccia “un papocchio” a danno dei contribuenti) – portate avanti da Giulio Andreotti tramite il fidato Evangelisti (di cui ricordiamo il celebre ritornello a Fra’, che te serve?), l’unico che si oppone con tutte le sue forze è Ugo La Malfa, che da Ministro del Tesoro si rifiuta categoricamente di convocare il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, organo che avrebbe dovuto dare l’ok a un colossale aumento di capitale per 160 miliardi di lire (una somma enorme all’epoca) della Finambro di Sindona.
Così La Malfa (Intervista sul non-governo, p. 87): “Avevo notizia del suo gioco sui cambi e sulla svalutazione della lira, che aveva già determinato forti perdite. Quindi, avuta l’impressione di una certa politica che prevedeva un processo inflazionistico, la fermai come era mio dovere. Credo che se fosse stato accettato l’aumento di capitale della Finambro, molti avrebbero perso parecchi soldi. Su quel punto dovevo essere intransigente”.

Sandro Pertini
4) Luglio 1978, quando La Malfa contribuì in modo determinante all’elezione alla Presidenza della Repubblica di Sandro Pertini.

La Malfa fu sostenitore del liberalismo democratico - sempre schiacciato tra i due blocchi dei cattolici e dei comunisti – della possibile “terza via” che l’Italia non ha mai avuto la lucidità di prendere.

Sappiamo che in Italia domina l’ideologia. Non si discute dei problemi e delle soluzioni, ma solo di chi ha detto che cosa. Allora citiamo La Malfa che era tutto l’opposto, razionale e alla ricerca dei modi per far crescere l’Italia in modo sostenibile. Leggiamo insieme un passo della sua intervista ad Alberto Ronchey: “Del resto, la assoluta trascuratezza degli impegni che si assumono è tipica della sinistra italiana. E ne è prova esemplare l’esperienza dell’Enel. La nazionalizzazione fu voluta e fortemente voluta, perchè avrebbe consentito di destinare i profitti privati, e le economie di energia, conseguenti alla gestione unica, alla riduzione del prezzo dell’energia e all’aiuto delle zone sottosviluppate. Nessuna corrente della cosiddetta sinistra si è più preoccupata se la gestione dell’Enel garantisse la soddisfazione degli impegni assunti o se la nazionalizzazione non fosse puramente servita a creare posizioni di privilegio all’interno dell’azienda. Ma questa disinvolta trascuratezza, è una delle ragioni per cui la sinistra non acquista credito, come forza dirigente di una società o di uno Stato”.
Paolo Baffi
Al funerale di Ugo La Malfa, il 26 marzo 1979 - due giorni dopo l’arresto del vidirettore generale di Banca d’Italia Mario Sarcinelli e l’incriminazione del Governatore Baffi, vedi post  - un appoggio clamoroso arrivò dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini che volle accanto a sè Baffi di fronte alla salma di La Malfa.
Nell’intervista a Ronchey del 1977 - La Malfa ripercorrendo la sua vita chiude così: “Rivivo la mia vita come guardando un film. La giovinezza difficile in un’isola deserta. L’evasione verso il Nord, Ca’ Foscari, l’antifascismo e il fascismo a Venezia. L’incontro a Roma con Giovanni Amendola...il trasferimento a Milano e casa Mattioli (mitico presidente della Banca Commerciale Italiana, ndr), L’amicizia e la frequentazione continua di Ferruccio Parri...Uno straordinario viaggio con Mattioli, da Milano attraverso Tornio distrutta dai bombardamenti dino a Dogliani per vedere Einaudi. La costituzione del Partito d’Azione, l’uscita clandestina del primo numero dell’”Italia Libera” a Milano Il Governo Parri e la scissione del Partito d’Azione. La milizia nel Partito repubblicano. l governi De Gasperi e le visite al “Mondo”, il ricordo di Mario Pannunzio, la battagli aper il centro-sinistra e le delusioni. La crisi, i comunisti e il compromesso storico. Alla fine una grande amarezza. Ora osservo che non c’è quell’Italia che avevamo in mente”.


Non è consolante nel 2011 leggere Carlo Azeglio Ciampi che titola il suo ultimo libro Non è il paese che sognavo (Il Saggiatore, 2010).

giovedì 24 marzo 2011

24 marzo 1979, attacco punitivo alla Banca d’Italia (seconda parte)

Riprendiamo il corso degli eventi, dopo la prima parte pubblicata ieri. Come mai nel 1979 il “coacervo politico-affaristico-giudiziario" prende di mira e vuole punire la Banca d’Italia? Quali sono le "colpe" di Baffi e Sarcinelli?

1) aver fatto sciogliere il cda dell’Italcasse, cioè del più importante istituto di credito dominato dal potere DC;
2) aver ordinato un’ispezione presso il Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi ; nel processo per bancarotta del Banco Ambrosiano nel 1982, Andreatta riferirà che: “Sarcinelli pallido in volto e con il tono amaro, mi disse che lui era finito in galera proprio per Calvi, giacchè il caso giudiziario che gli era occorso era stato montato in concomitanza con la conclusione dell’ispezione al Banca Ambrosiano del 1978, e proprio a causa della stessa”.

Giorgio Ambrosoli
3) l’opposizione ferrea ai piani di salvataggio delle banche di Sindona, il cui commissario liquidatore era Giorgio Ambrosoli .
Umberto Ambrosoli scrive: “Queste sollecitazioni mirano a far sì che alla liquidazione sia data una soluzione fantasiosa...il buco lasciato dalle condotte criminose di Sindona sarebbe stato ripianato con i soldi della collettività. Di fatto, sarebbe stato annullato il provvedimento di commissariamento e messa in liquidazione della banca, Sindona sarebbe stato restituito vergine alla sua capacità di continuare a fare affari in Italia, sarebbe venuto meno il processo penale: tutto grazie ai soldi della collettività”.
Sarcinelli alle sollecitazioni di Andreotti, Evangelisti e l’avv. di Sindona Guzzi rispose: “Noi non guardiamo cose che ci provengono dagli avvocati di persone che secondo noi sono dei bancarottieri, perchè dobbiamo guardarlo?

Nel 1986, il faccendiere Pazienza affermerà, davanti ai magistrati, che l’incriminazione di Baffi e Sarcinelli era stata decisa dalla Loggia P2 capitanata da Licio Gelli.

Baffi e Sarcinelli vennero scagionati nel 1981 per l’assoluta insussistenza delle accuse. E’ significativo ricordare che al momento di lasciare la Magistratura, dopo 42 anni di carriera, il Sostituto Procuratore dellaa Cassazione, Cesare d’Anna scrisse: “Mi sia permesso di chiudere la mia carriera con un atto di umiltà: a nome di quella giustizia italiana che non ho mai tradita, intendo chiedere solennemente perdono ai professori Baffi e Sarcinelli ed a tutte le eventuali vittime di un distorto, iniquo esercizio del potere giudiziario”.

Il 30 marzo il 1979 Marco Vitale con rammarico ed un filo di sarcasmo scrisse: “Ho sempre sostenuto che la nomina da Baffi a governatore delle Banca d'Italia è stata l'unica riforma di struttura degli anni '70. Non è dunque un caso che Baffi e Sarcinelli siano trattati come malfattori. […] Così come non è un caso che tutta l'Italia seria, quella che guarda al futuro e non al passato, ha subito compreso, al di là del merito giuridico, il significato politico dell'episodio e dice a Baffi ed a Sarcinelli: resistete. […] Là realtà è che questa Banca d'Italia seria dava fastidio e meritava una lezione. Così come merita una lezione tutta questa Italia seria che sta cercando, con tutta fatica, di ricostruire il proprio tessuto economico e il proprio volto di paese civile.”

I migliori economisti italiani capitanati da Sergio Steve - Caffè, Andreatta, Spaventa, Savona, Monti, Tarantelli, Reviglio e altri, in totale circa 150 - il 2 aprile 1979 firmano una dichiarazione a favore di Baffi e Sarcinelli e contro l’ignobile attacco: “Conosciamo da anni la dirittura morale, l'impegno intellettuale e civile e la competenza tecnica di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli; siamo certi delle loro assoluta correttezza nello svolgimento dei compiti del loro ufficio. […] Il Paese ha bisogno che uomini retti come Baffi e Sarcinelli ed istituzioni di alto prestigio ed efficienza quali la Banca d'Italia possano operare serenamente per il bene di tutti”.

Il 24 Aprile 1979 gli economisti che firmarono il manifesto appena menzionato, furono convocati in massa presso il Palazzo di giustizia ed interrogati da Alibrandi. Gli interrogati vennero trattati male, con frase denigratorie o accusatorie del tipo: “Levi i gomiti dal tavolo, qui il professore sono io” e “Avrebbe firmato un manifesto per le Brigate rosse?”.

Nelle Considerazioni finali del 1979 - le sue ultime, si dimetterà nell'ottobre 1979 - Baffi scrisse: “Ai detrattori della Banca, auguro che nel morso della coscienza trovino riscatto dal male che hanno compiuto alimentando una campagna di stampa intessuta di argomenti falsi o tendenziosi e mossa da qualche oscuro disegno. Un destino beffardo ha voluto che da questa campagna io fossi investito dopo 43 anni di servizio”.

Ma nelle memorie consegnate a Massimo Riva e pubblicate su Panorama l’11 febbraio 1990 - che potete trovare al link http://www.unibg.it/dati/persone/2806/3147-Memorie_Paolo_Baffi_IParte.pdf ; http://www.unibg.it/dati/persone/2806/3146-Memorie_Paolo_Baffi_IIParte.pdf - Baffi commentò: “Queste parole piuttosto pacate non danno certo misura dell’amarezza e dello sdegno che io provavo in quei giorni: ma se vi avessi dato sfogo, forse mi sarei procurato nuove incriminazioni".

Così Carlo Azeglio Ciampi: “Nell'ottobre del 1979, Paolo Baffi rinunciò alla carica di Governatore nel timore che la Banca risentisse della vicenda giudiziaria che ne aveva tanto ingiustamente colpito il vertice. La dignità di cui Paolo Baffi diede esempio ne ha innalzato la figura”.

Caro Paolo Baffi, sei uno dei nostri più alti riferimenti. Nella dispensa per gli studenti, chiudo un approfondimento su Paolo Baffi riportando le parole di Massimo Riva – Una stella nel cielo degli onesti (La Repubblica, 8 agosto 1989): “Con la coscienza tragica di Prometeo, egli sapeva altrettanto bene che la libertà e la dignità dell’uomo si riscattano solo facendo il proprio dovere, avvenga che può. Lasciandosi questa lezione alle spalle, ora è andato ad arricchire quel cielo stellato sulle nostre teste, a cui guardano tutti gli uomini che, pur in tempi di degrado dell’etica pubblica, non hanno perso la volontà di fare la propria parte anche a costo di suscitare la vendetta degli dèi. Basterà allora alzare gli occhi: in quel cielo da ieri notte c’è una stella in più e la sua luce risulta già più forte delle trame e dei mediocri maneggi dei piccoli mercanti che ancora occupano il tempio della politica”.

Caro Governatore, ti sia lieve la terra.

Per approfondimenti si consiglia:

Giuseppe Amari (a cura di), In difesa dello Stato al servizio del paese, Ediesse Editore, 2010
Giorgio Ambrosoli e Paolo Baffi. Due storie esemplari, Università Bocconi Editore, 2009
SIBC, Atti del convegno Etica pubblica e poteri di controllo: la vicenda Baffi, Sarcinelli, Ambrosoli, Roma, 22 ottobre 2009
Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, Sironi Editore, 2009
Corrado Stajano, Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Einaudi, 1991
Paolo Baffi. Testimonianze e ricordi, Scheiwiller, 1990
Paolo Baffi, Cronache brevi, pubblicate da Panorama, 11 febbraio 1990
Marco Vitale, Intervento al Circolo Società Civile, il 15 maggio 1989

mercoledì 23 marzo 2011

24 marzo 1979, attacco punitivo alla Banca d’Italia (prima parte)

Paolo Baffi, Governatore Banca d'Italia
Quando l’estate scorsa i miei studenti mi convinsero a partire con un blog, non ebbi esitazioni a scegliere la foto iniziale di presentazione. Presi dal web la foto di Paolo Baffi, Governatore della Banca d’Italia dal 1975 al 1979, da lui definito “Il mio quinquennio di fuoco”.

Sulle pagine di Facebook sono presente come Faust e il Governatore e la foto è sempre la stessa: Baffi, il Governatore della Vigilanza.

In un precedente post del settembre 2010 ho ricordato la sua figura, vedi post Paolo Baffi, Governatore integerrimo
Oggi rievochiamo l’attacco alla Banca d’Italia del 24 marzo 1979, giusto 32 anni fa. Nelle sue Cronache brevi Paolo Baffi definì il mandante del premeditato attacco punitivo con l’espressione “coacervo politico-affaristico-giudiziario”.

Carlo Azeglio Ciampi (Da Livorno al Quirinale, Il Mulino, 2010, p. 125): “Ricordo bene quel sabato, un sabato drammatico. Era il 24 marzo 1979. Quella mattina ricordo ancora che ero in macchina a via Nazionale, e in senso opposto transitò un’autoambulanza a sirene spiegate: non sapevo ancora che dentro c’era Ugo la Malfa, ormai morente.
Andai in Banca, lavorai tranquillamente. A un certo punto entrò nella mia stanza Sarcinelli (Vice Direttore generale della Banca d'Italia con delega sulla vigilanza degli istituti di credito, ndr) che mi disse: “Carlo, sono venuti ad arrestarmi” (per dovere di cronaca i carabinieri guidati dal Colonnello Campo, ndr) . Mi precipitai da Baffi e lo trovai distrutto. Aveva in mano il documento (il “duo inafferrabile” viene accusato di interessi privati in atti d’ufficio e di favoreggiamento personale, ndr) che gli avevano consegnato, con l’incriminazione per lo stesso reato contestato a Sarcinelli; il documento era stato scritto con la carta carbone. Non si concludeva con l’arresto solo per l’età. Mi precipitai a informare il Quirinale”.
Mario Sarcinelli
Massimo Riva sul Corriere della Sera nel 1979 scrisse: “Michele Sindona ha regalato al Paese una bancarotta per qualche centinaio di miliardi e se ne sta indisturbato in un grande albergo di New York. Ma Mario Sarcinelli, che si è impegnato per smascherare i trucchi dei banchieri d’assalto, è finito dentro un carcere”.

E’ opportuno chiarire che le pressioni alla Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli iniziano ben prima del 1979, e precisamente nel 1978. Nel febbraio 1978 il Ministro del Tesoro Stammati e Evangelisti – sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – convocano due volte Baffi e Sarcinelli sollecitando la sistemazione dei debiti Caltagirone nei confronti dell’Italcasse, feudo democristiano.

Marco Vitale scrive: “Quando nel 1975 Carli lascia la Banca d’Italia, ed alla sua guida subentra Baffi, la linea della Banca d’Italia cambia. Recupera la sua volontà di guida del potere bancario, sia sul fronte della gestione della moneta, che sul fronte della Vigilanza sulle aziende di credito e sulla corretta amministrazione delle stesse. In un certo senso, ritornando a fare severamente il proprio mestiere, la Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli accetta il rischio di essere considerata, per usare la terminologia di Carli, “sovversiva” ed è per questo che va punita....Il nuovo corso della Banca d’Italia dava fastidio”.

Mentre la politica prepara l’attacco alla Banca d’Italia, Baffi è impegnato, ai massimi livelli, nelle difficilissime trattative per l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo – dove Baffi riuscì a convincere Helmut Schmidt e Giscard D’Estaing a concedere all’Italia la banda di oscillazione “larga” al 6%. Riva scrive: “Il potere politico era del tutto assente da questo passaggio fondamentale per la storia del Paese, mentre era presente – presentissimo – in quegli stessi mesi, per quanto riguardava vicende di affari privati e personali. Quelli dei fratelli Caltagirone, per esempio. Quelli di Sindona, successivamente”.

Nel consigliare una studentessa che sta realizzando una tesi su Paolo Baffi, mi è tornato all’occhio un passaggio impressionante delle Cronache brevi di Baffi.
A Baffi fu ritirato il passaporto e gli venne impedito di andare a Basilea (quando oggi sentiamo parlare del Comitato di Basilea, nato nel 1974, dobbiamo ringraziare Baffi) ai consueti consessi mensili dei banchieri centrali europei presso la Banca dei Regolamenti Internazionali, dove rappresentava l’Italia con notevole prestigio.
Baffi: “9 marzo 1980 - La Repubblica pubblica un articolo, con titolo a caratteri cubitali: “A Baffi, Cappon, Ossola ritirato il passaporto”. Fors'anche come risultato di questo articolo, quando, nel viaggio in treno per Basilea, arrivo alla frontiera di Como, il funzionario di polizia in borghese, dopo aver guardato lungamente e sfogliato il nuovo passaporto, e avermelo restituito, torna indietro e lo richiede la seconda volta: strofina il pollice sull'impronta dei timbri a umido, forse per vedere se sbavano, cioè se mi sono fabbricato il passaporto la notte prima. Subisco in silenzio questa nuova umiliazione, anch'essa inflitta dalle istituzioni che ho servito in un'intera vita di lavoro”.

Avete letto bene. Il Governatore della Banca d’Italia viene sospettato di aver falsificato il passaporto. Tutto ciò ha dell’incredibile.

Michele Sindona
La verità - si saprà anni dopo - è che la P2 - su pressione della Democrazia Cristiana e dei soggetti economici vicini agli esponenti democristiani (Sindona, Caltagirone, Calvi, Italcasse) organizzò una manovra d’attacco alla Banca d’Italia servendosi di due suoi iscritti: gli inqualificabili giudice istruttore Infelisi e il pm Alibrandi, che si permise di trattare in modo violento e ostile Baffi durante l‘interrogatorio.

Il 21 aprile 1979 un giornalista del Messaggero Fabrizio Menghini raccoglie questa incredibile e sconcertante testimonianza di Alibrandi: “Ho trovato dirigenti di istituti bancari piuttosto risentiti per le inchieste a senso unico dell’Istituto di emissione”. Nel Trentino, in Veneto, come in Sicilia, cioè in quelle località note come feudi democristiani, la Banca d’Italia, in persona di Sarcinelli, si sarebbe particolarmente accanita. Prosegue Menghini: Sorpresi da tanta franchezza i giornalisti hanno chiesto ad Alibrandi (il quale non fa mistero del suo orientamento politico: è un missino sfegatato) come mai si sia fatto paladino della Dc nei confronti della presunta persecuzione della Banca d’Italia. “Qui non si tratta di ideologie politiche ma di amministrare giustizia ed io come giudice non posso non rilevare questa mancanza di obiettività da parte della Banca d’Italia. C’è da augurarsi che Sarcinelli impari la lezione, se un giorno o l’altro riprenderà il suo posto in Banca d’Italia”.
Alibrandi, ci fai schifo. Due stimatissini banchieri devono imparare la lezione? Ma vergogna! Con un figlio brigatista nero (Alessandro Alibrandi, terrorista di destra, membro dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, ammazzato poi in uno scontro a fuoco con la polizia nel 1981). Non c’è limite al peggio.

Vi aspetto domani per la seconda parte.

lunedì 21 marzo 2011

Luigi Einaudi, la corruzione e le pere indivise

Luigi Einaudi
Il 24 marzo 1874 a Carrù (Cuneo) nacque Luigi Einaudi. Intellettuale ed economista di fama mondiale, Luigi Einaudi è considerato uno dei padri della Repubblica Italiana.

Vice Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro delle Finanze, del Tesoro e del Bilancio nel IV Governo De Gasperi, tra il 1945 e il 1948 fu Governatore della Banca d'Italia. Dal 1948 al 1955 fu Presidente della Repubblica Italiana.

Ci sarebbe da scrivere per ore. In un blog ci limitiamo ad alcuni snapshot.

Riprendo in mano alcuni discorsi del periodo 1920-22, dove Einaudi sentì una “diffidenza invincibile” per questo “spropositato aumento” della burocrazia. Egli propugnava una riforma tale da alleggerire lo Stato di tutto quel groviglio di mansioni che non gli erano proprie, e di cui la burocrazia si era impossessata, esercitandole anche in modo dannoso e pericoloso.

Alessandro Galante Garrone – nel suo L’Italia corrotta 1895-1996, Cento anni di malcostume politico (Aragno Editore, 2009) – appunta: “Come ha scritto Norberto Bobbio nel 1974 “urgeva una riforma. Ma Einaudi sa benissimo che una riforma non verrà mai, perchè i riformatori (cioè il Parlamento, e a maggior ragione, se la riforma si vorrà fare attraverso decreti-legge, il governo) sono nelle mani dei riformandi”.

Sempre Einaudi nel 1943 scrisse: “La corruzione è fatale. Se, come è naturale, il capo supremo non può attendere a tutto e deve delegare le sue facoltà a qualche migliaio di sottocapi e gerarchi, chi potrà impedire che costoro abusino della loro situazione?...Ecco diffusa la lebbra della corruzione pubblica, della mancia in paesi che prima ne erano immuni: ecco diventata caratteristica dei paesi civili la consuetudine levantina del bakscisch. Ecco verificarsi un regresso spaventoso nella compagine sociale e politica del paese”.


Ennio Flaiano
 Il grande Ennio Flaiano - La solitudine del satiro (1973, poi postumo Rizzoli, 1989) racconta in modo magistrale una serata al Quirinale. La riporto integralmente:.

Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenziale, fui invitato a cena al palazzo del Quirinale, da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam – il Presidente non mi conosceva affatto – ma come redattore di una rivista politica e letteraria diretta da Mario Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Presidente e sua moglie. Otto convitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto piacevolmente, la conversazione toccò vari argomenti, con una vivacità e una disinvoltura che davano fastidio all’enorme e unico maggiordomo in polpe che ci serviva. Questo maggiordomo, una specie di Hitchcock di più vaste proporzioni ma completamente destituito di ironia, aveva sulle prime tentato di intimidirci posandoci il prezioso vasellame davanti come se temesse che l’avremmo rotto; e fulminandoci con occhiate di sconforto se non riuscivamo a individuare tra le tante (alcune nascoste persino tra i merletti della tovaglia) le posate giuste. Poiché il Presidente, nei suoi anni verdi, aveva frequentato un fiaschetteria di via della Croce, la Fiaschetteria Beltramme (che noi ancora frequentiamo), si parlò anche di questa: e dei suoi colleghi di università coi quali vi andava, del proprietario e di altri clienti che egli vi intravedeva: Bruno Barilli, Cardarelli, il pittore Bartoli. Da un argomento all’altro, tra aneddoti che, per il gran ridere, scuotevano il Presidente come un uccellino bagnato; tra riflessioni che seguivano gli aneddoti, pensieri economici e altri sul futuro, la cena si stava prolungando oltre il lecito.

Il Presidente sembrava un nonno felice di rivedere nipoti lontani. Ma eccoci alla frutta. Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io” disse “prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che vuole dividerne una con me?”. Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, a una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia, lo battei di volata: “Io, Presidente” dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. Un tumulto di disprezzo doveva agitare il suo animo non troppo grande, in quel corpo immenso. “Stai a vedere” pensai “che adesso me la sbuccia, come ai bambini”. Non fece nulla, seguitò il suo giro. Ma il salto del trapezio era riuscito e la conversazione riprese più vivace di prima; mentre il maggiordomo, snob come sanno esserlo soltanto certi camerieri e i cani da guardia, spariva dietro un paravento.
Qui finiscono i miei ricordi sul Presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la Repubblica delle pere indivise”.

Che tempi!

Caro Luigi Einaudi da Dogliani, sei un nostro riferimento. E non ci dimentichiamo del tuo esempio e delle tuo lucido monito: “Conoscere per deliberare”.

venerdì 18 marzo 2011

Robert Kennedy, il PIL e la ricerca della felicità

Il 18 Marzo del 1968 - giusto 43 anni fa - Robert Kennedy pronunciava, presso l'università del Kansas, un discorso nel quale evidenziava - tra l'altro - l'inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate.

Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati Uniti d'America.
Ecco alcuni passaggi significativi:

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
 Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.


Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.


Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Il primo in Italia a studiare la qualità del PIL è stato Giorgio Fuà  , fondatore dell’ISTAO ad Ancona. Così lo ricorda Carlo Azeglio Ciampi – in Da Livorno al Quirinale (Il Mulino, 2010, p. 96): “Giorgio accoppiava la preparazione solida da economista con la capacità socratica di stimolare, di domandare, di suscitare interesse nei propri allievi, che gli volevano un bene più che filiale, paterno”.

Giorgio Fuà
Il Governatore della Banca d’Italia recentemente ha così ricordato Giorgio Fuà : “Il nome di Giorgio Fuà è intimamente legato agli studi sullo sviluppo economico...Nella Lettura all’Associazione Il Mulino, Fuà osservava che “… oggi, nei paesi ricchi, … dobbiamo smettere di privilegiare il tradizionale tema della quantità di merce prodotta e dedicare maggiore attenzione ad altri temi, che non possono più essere considerati secondari dal punto di vista del benessere collettivo.
Tra gli altri, citava l’equilibrio con l’ambiente naturale, il senso di soddisfazione o alienazione che caratterizza il lavoro. Per Fuà il reddito nazionale e il benessere collettivo non sono la stessa cosa”.

Entriamo in un campo minato. Parliamo di felicità, ricchezza e benessere. Visto che ricordiamo Bob Kennedy, non è inutile ricordare che la Dichiarazione di indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 recita che tra gli inalienabili diritti dell’uomo esiste la pursuit of happiness. Non per nulla il simpatico Will Smith ci ha entusiasmato al cinema con La ricerca della felicità (Muccino style).


Enrico Finzi - uno dei più noti ricercatori sociali italiani - in un libro divertente e interessante - Come siamo felici. L’arte di goderci la vita che il mondo ci invidia (Sperling & Kupfer, 2008) - ci racconta come l’italiano riesca ad essere felice nonostante tutto quello che gli succede intorno.

La felicità non è il conseguimento dell’obiettivo, bensì la spinta verso il fine, il viaggio e non la destinazione.

Oscar Wilde disse: "Ci sono due tragedie nella vita, due drammi che noi viviamo: uno, quello di non avere ciò che desideriamo; l'altro, di aver soddisfatto il nostro desiderio!"

martedì 15 marzo 2011

L'omologazione del pensiero? Una brutta bestia. Seguiamo Steve Jobs: "Stay hungry, stay foolish"

Sono assolutamente convinto che la crisi economico e finanziaria – che ha colpito l’Occidente (Asia, what crisis?) nell’estate 2007 e da cui il mondo sta faticosamente uscendo – prima ancora che da errori di gestione della finanza internazionale e dei suoi controllori, origini da una crisi di omologazione del pensiero.

E’ noto da tempo agli psicologi sociali (vedasi esperimento di Solomon Asch sulla lunghezza dei bastoncini) che gli individui deisderano essere considerati favorevolmente dagli altri. Essere stimati e approvati dagli altri produce un’immagine gratificante di sé. Se percepiscono che, in un dato ambiente sociale, le opinioni vanno in una certa direzione, orientano le proprie posizioni nel senso dominante per suscitare l’approvazione dei pari. Si astengono dall’esprimere punti di vista dissidenti o critici.

In un recente librettino, scorrevole e stimolante – Ho studiato economia e me ne pento, Florince Noiville (Bollati Boringhieri, 2010) – l’autrice scrive: “Un’altra spiegazione? La difficoltà di pensare fuori dagli schemi. Come se questa strana civiltà del lucro avesse finito per esaurire la fonte della nostra fantasia e immaginazione. Non capita spesso che veniamo incoraggiati a pensare controcorrente. Di nuovo, forse, in fondo, la prerogativa di una grande école è solo la riproduzione di elementi conformi e identici a se stessi...
Come è possibile che una formazione di altissimo livello arrivi a impedirci di essere padroni del nostro destino? Perchè mai studi così esclusivi portano a un mondo di “gregari dorati”, una realtà di pecoroni pluridiplomati, che, al seguito di anonimi pastori, non hanno difficoltà a lanciarsi tutti insieme nel baratro delle crisi più profonde?
E perchè continuiamo a credere che queste greggi siano il simbolo stesso dello spirito imprenditoriale, del coraggio e del successo?”

Queste le lucide argomentazioni di Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda – l’associazione delle imprese di Milano e provincia – alla Assemblea di Assolombarda del 14 giugno scorso: “Un pensiero omologato, apparentemente stabile, è il principale ostacolo alla stabilità. “Gli idoli del pensiero alla moda”, come li chiamò con crudezza Solženicyn davanti agli studenti di Harvard più di trent’anni fa.


Tra questi idoli, certamente, una diffusa convinzione della visione a breve delle attività, in particolare finanziarie: e, per dirla con la sinteticità esemplare del latino (e di Virgilio!), “auri sacra fames”, la esecranda ingordigia di ricchezza, anche se disgiunta dal merito e dalla verifica del contributo alla crescita della società, che è cosa ben diversa dalla ricerca di un profitto stabile nel tempo.


Meglio, molto meglio, ascoltare e far proprio l’invito di Steve Jobs agli studenti americani: “Stay hungry, stay foolish!” Traduco liberamente: non saziatevi del tutto, e sviluppate un pensiero fuori dal coro!”.

Meomartini si riferisce al discorso di Jobs all’Università di Stanford http://news.stanford.edu/news/2005/june15/jobs-061505.html da cui prendiamo un passaggio che ci piace in particolar modo: “Remembering that you are going to die is the best way I know to avoid the trap of thinking you have something to lose. You are already naked. There is no reason not to follow your heart”.

Cerchiamo di pensare con la nostra testa. Evitiamo di fare i pecoroni, di essere soggetti all’”effetto gregge”, limitiamo gli effetti su di noi dello storytelling, vedi post Storytelling e mille e una notte.

Sappiamo che una storia plausibile e ben raccontata ci fa ritenere “obiettivamente” probabili eventi cui non avremmo dato nemmeno un filo di probabilità pochi minuti prima.

Chiudo con il grande Indro Montanelli: “In questo Paese, per chi esce dal branco e fa la stecca al coro, la vita è dura. Saranno ghettizzati e silenziati. I cosiddetti mezzi di comunicazione di massa, radio e televisione, ma anche il grosso della stampa – e lo si vede digià – ignoreranno la loro voce spegnendone qualunque eco. Nella subdola arte del fuori giuoco (parliamo per esperienza, non per sentito dire), il conformismo italiano è maestro”.

Il sempre saggio Marco Vitale ha scritto: “Siamo ancora in tempo per riprendere una via corretta, ma i tempi si sono maledettamente ristretti. Questo ci dice la crisi mondiale: non c’è più tempo da dilapidare. La crisi, nel mezzo della quale ci troviamo è durissima e rischiosa, ma di essa non dobbiamo avere paura. Perché essa null’altro è che un vigoroso richiamo della storia verso la riscoperta della ragione, della responsabilità individuale e collettiva, della morale, della solidarietà, del coraggio.

Come scrisse Albert Einstein:

“La crisi è la migliore benedizione che può arrivare a persone e Paesi, perché la crisi porta progressi.

La creatività nasce dalle difficoltà come il giorno nasce dalla notte oscura.

È dalla crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.

Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.
Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni.


La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. La convenienza delle persone e dei Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita.

Senza crisi non ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti.
 È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno, poiché senza crisi ogni vento è una carezza".

La penso come Samuel Goldwyn – produttore cinematografico statunitense : “Io non voglio uomini accondiscendenti vicino a me. Voglio qualcuno che mi dica la verità anche se questo gli costerà il posto”.

Riflettiamo prima di agire. Non dobbiamo aver paura della nostra libertà di pensiero.

mercoledì 9 marzo 2011

Gheddafi, il cane pazzo, suo figlio Al Sa'adi, calciatore: cronache ironiche in un panorama agghiacciante

L’economista Mario Deaglio – sulla Stampa  di settimana scorsa – scrive: “Asserragliato nel «bunker» del suo feroce crepuscolo, il colonnello Gheddafi, «guida della rivoluzione» come ama definirsi, può avere almeno una magra e maligna soddisfazione: con i suoi 6 milioni e mezzo di abitanti, meno di un millesimo della popolazione del pianeta, la Libia è riuscita a mettere in difficoltà tutto il ricco Occidente, a innescare una nuova, difficile fase della crisi mondiale”.

Mentre il nostro ineffabile Presidente del Consiglio diceva di “non volerlo disturbare”, il "cane pazzo" Gheddafi – come lo definì il Presidente Ronald Reagan – decideva di far partire gli aerei per mitragliare la popolazione libica, in strada per liberarsi di un dittatore capace di tenere sotto scacco l’Occidente.

Speriamo che l’Europa si faccia finalmente sentire, o quantomeno l’ONU imponendo la no-fly zone sullo spazio aereo libico al fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue.

Settimana scorsa sono riuscito a sorridere leggendo il fine analista mediorientale Alberto Negri sul Sole 24 Ore. Nel suo pezzo I cerchi di potere del Colonnello, si legge: “Nel primo cerchio di potere sono inseriti i figli del Colonnello (Gheddafi, ndr) come Al Sa’adi, l’ex calciatore inviato adesso a occuparsi dell’ordine pubblico a Bengasi...:”.

Vista l’esperienza di Al Sa'adi, abbiamo capito subito che Bengasi sarebbe stata presa dagli insorti in un baleno.

Ma chi è Al Sa’adi? Così leggiamo da Wikipedia:

Al Sa'adi
Terzo figlio del Colonnello Gheddafi, non pare interessato al "lavoro" paterno, tanto è vero che coltiva altri interessi, primo tra tutti il calcio: è stato infatti un calciatore professionista ed è stato presidente della Federazione calcistica libica e capitano della Nazionale del suo paese. Dopo aver studiato i metodi di lavoro ed essersi allenato con squadre del calibro di Juventus e Lazio agli inizi degli anni novanta, per poi passare nell'annata 2003-2004 al Perugia di Luciano Gaucci (per intenderci l’ex fidanziato della Tulliani, un gentiluomo, fuggito a Santo Domingo per sfuggire alla magistratura italiana, ndr). Con la maglia dei grifoni ha giocato soltanto una partita, curiosamente contro la Juventus di cui era socio e tifoso diventando in questo modo il primo calciatore libico a giocare in serie A. Successivamente viene trovato positivo al controllo antidoping successivo a Perugia-Reggina (partita dove peraltro era rimasto in panchina) e viene squalificato per 3 mesi....Nella stagione 2005-2006 passa all'Udinese, giocando anche qui una sola partita. Nella stagione 2006-2007 passa in forza alla Sampdoria, senza disputare alcuna partita, terminando la sua esperienza calcistica in Italia.”

Uno che si fa squalificare per doping non entrando neanche sul terreno di gioco come può gestire la controffensiva di Gheddafi a Bengasi? Meno male. La liberazione della Libia dal "cane pazzo" è vicina. Viva.

lunedì 7 marzo 2011

Il Pio Albergo Trivulzio: un caso da manuale di incompetenza crassa

Il Prof. Emilio Trabucchi – ordinario di chirurgia generale all’Università di Milano, non pago della sua attività universitaria, che non vuole assolutamente lasciare neanche a 70 anni (ha fatto ricorso al TAR contro l'Università e ha vinto) – nel 2000 è stato nominato consigliere di amministrazione del Pio Albergo Trivulzio e dal 2004 è Presidente del Pio Albergo Trivulzio.

Qualche giorno fa il Prof. Trabucchi ha rilasciato un’intervista a Repubblica , che ho conservato gelosamente. Analizziamo insieme le risposte del Professore. C’è da morir dal ridere (o piangere).

Oriana Liso (giornalista): “È importante chiarire una questione: lei è presidente del cda dal 2004, confermato nel 2009 dal sindaco Moratti. In tutti questi anni qualcuno, dal Comune o dalla Regione, ha mai sollevato dubbi sulla gestione della Baggina?”
Prof. Trabucchi: "Assolutamente no. Solo una volta, nel 2008, la commissione regionale di controllo ci ha mosso un rilievo, quando abbiamo chiuso il bilancio in passivo di tre milioni e mezzo, perché un rogito è stato fatto in ritardo, una situazione che non si è più ripetuta. Ma né il sindaco né altri mi hanno mai chiesto spiegazioni o mosso critiche. Del resto, se sono stato riconfermato nel mio ruolo un motivo ci sarà".

Avete sentito bene. Nel 2008 il bilancio del PAT ha chiuso in perdita perchè non si è rogitato la vendita di un immobile! Rob de matt.

Leggendo le cronache poi abbiamo capito. Dal Corriere della Sera : “Il buco nero nei bilanci del Trivulzio è il 2008: con una chiusura in passivo per 3 milioni e 920.375 euro. Un guaio che fa scattare contromisure come la dismissione del patrimonio immobiliare. Nel 2009 va meglio: più 33 mila euro. Ma il risultato è positivo solo grazie alle plusvalenze ottenute dalle vendite. Sono 7 milioni e rotti fondamentali per la Baggina per fare fronte agli 87 milioni di euro di spese (tra personale e altri costi) contro i soli 80 milioni di ricavi garantiti dalle rette”.
Negli ultimi 5 anni il PAT ha venduto circa 40 appartamenti per un controvalore di 30 milioni di euro.

Ogni anno il PAT ha una gestione caratteristica in forte perdita. Siccome i costi di gestione della struttura sono enormi e gli sprechi immensi – nonostante i rimborsi della Regione sulla parte di assistenza sanitaria – ogni anno gli amministratori del PAT mettevano in vendita parte del patrimonio, al fine di realizzare plusvalenze straordinarie, necessarie per uscire con un utile.

Come se una famiglia a fine anno vendesse le case ereditate. Bell’affare, dopo poco tempo si è senza una lira. E - a quanto pare dalla lettura dei giornali - le vendite favorivano gli amici degli amici che compravano sotto i prezzi di mercato.

Così abbiamo capito cosa intendeva il presidente Trabucchi. Con la gestione straordinaria – la vendita del patrimonio del PAT – si “rimettevano a posto i conti”. Ecco spiegata la frase sul ritardo del rogito.

Concordiamo con Andrea Boitani della voce.info: “La locazione di immobili ad affitto agevolato non rientra tra le finalità statutarie del Trivulzio; mentre è chiaro che le rendite patrimoniali rappresentano un importante mezzo di finanziamento delle attività di assistenza che sono la vera ragion d’essere dell’ente pubblico. Dare in affitto immobili (anche di pregio) a canoni più bassi di quelli di mercato significa avere risorse inferiori a quelle che sarebbero ottenibili da un patrimonio immobiliare che conta su “160 stabili per un totale di circa 1.400 unità immobiliari e si sviluppa su una superficie complessiva di circa 100 mila mq ai quali si aggiungono 1700 ettari di aree rurali (terreni e poderi)”.

Andrea Boitani
 Sempre Boitani: “I dati analizzati confermano che mediamente il patrimonio immobiliare del Trivulzio ha reso molto meno di quanto avrebbe potuto, con danno per le finalità statutarie dell’ente. I canoni pattuiti, inoltre, non sembrano riconducibili a una logica economica comprensibile e a una gestione coerente nel corso del tempo. È difficile non coltivare il sospetto che i canoni (e i “beneficiari”) siano determinati sulla base di parametri non oggettivi, ma sulla base di conoscenze, contiguità politiche o altro. Del resto, l’opacità dei bandi per l’assegnazione delle case sembra esattamente quanto basta a far prevalere su tutto l’intuitu personae dei potenti di turno”. (per approfondimenti si rimanda a
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002190.html).

Il Pio Albergo Trivulzio ha acceso debiti con le banche pari a ben 23 milioni di euro: «L'esposizione finanziaria è uno dei motivi principali di preoccupazione sia per il management sia per il consiglio di amministrazione».
Ma il debito bancario ha senso quando l’attivo ha un rendimento maggiore del costo del passivo. Si parla di asset-liability management. Ma nel caso in questione, con l’attivo che non rende, che senso ha accendere dei prestiti? Non avrebbe più senso migliorare la gestione dell’attivo?

I giornali dei giorni scorsi: “Al Trivulzio arriva la Finanza, la richiesta è firmata dalla procura regionale della Corte dei Conti, che indaga per verificare se la vicenda di Affittopoli abbia provocato mancate entrate per le casse dello Stato. L’indagine di incrocia con quella della procura di Milano: le ipotesi di reato sono truffa aggravata ai danni di enti pubblici e abuso d’ufficio”.

Tralasciamo il danno reputazionale al Trivulzio per future donazioni o legati. Chi dopo queste vicende avrà il coraggio di donare immobili al PAT?

Respiriamo un po’ di ossigeno. Ne abbiamo bisogno.
Rifacciamoci ai Grandi italiani. Ugo La Malfa, Intervista sul non-governo (a cura di Alberto Ronchey, Laterza, 1977): “Questo è l’altro problema italiano, il rapporto tra sistema produttivo e strutture pubbliche. Il sistema produttivo ha dovuto sopportare il peso d’una struttura pubblica che è una cosa indicibile di parassitismo, ossia di alti costi e improduttività”.

Prof. Trabucchi, le consigliamo di tornare sui banchi. Come studente, non come professore. All’Università della terza età organizzano dei bei corsi di Contabilità e Bilancio. Ce la può fare.

Io, come diceva Ettore Petrolini , non ce l’ho con il Prof. Trabucchi, ce l’ho con chi l’ha nominato: “Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t'hanno buttato de sotto”.

Ci sembra giusto ricordare che a Milano negli ultimi 15 anni ha governato il centro destra.

venerdì 4 marzo 2011

Meno ai padri, più ai figli. Il fallimento di una generazione

Durante l’ultimo viaggio in treno Bergamo-Milano ho ripreso in mano un saggio di alcuni anni fa di Nicola Rossi, dal titolo evocativo Meno ai padri, più ai figli (Il Mulino, 1997). La rilettura è stata stimolata dalla lettera dello stesso Rossi – Il fallimento di una generazione - al Corriere della Sera del 4 febbraio scorso, di cui riportiamo alcuni passaggi: “Ho solo voluto smentire una delle tante favole che negli ultimi tempi hanno trovato credito soprattutto a sinistra: l’idea ingenua e fuorviante che l’evoluzione dell’umanità sia un processo lineare le cui interruzioni sono da considerarsi anomalie. Spiace, ma così non è. Così non è mai stato. E’ capitato a molti di sperimentare condizioni di vita e livelli di benessere inferiori rispetto a quelli sperimentari dalle generazioni precedenti. I giovani di oggi non sono i primi e non saranno gli ultimi. E la strada che hanno davanti è la stessa dei tanti che hanno in passato affrontato simili difficoltà e hanno saputo risalire la china: rimboccarsi le maniche, studiare e lavorare di più e meglio per riconquistare i perduti livelli di benessere, accettare la realtà e affrontarla a viso aperto, piegandola se necessario e quando possibile”.

Rossi prende di petto e accusa la generazione dei padri di ieri: “Una generazione composta in buona misura da cavallette. Politici – a destra come a sinistra – che hanno fatto quanto potevano per impedire (e ci sono riusciti!) che si facesse a tempo debito quanto poteva dare ai più giovani prospettive meno incerte”.

Mario Draghi
Nel leggere Rossi mi sono tornate in mente le considerazioni del Governatore Mario Draghi, che nel suo intervento di novembre ad Ancona – scrive: “Abbiamo ripetutamente richiamato l’attenzione sul più generale difetto, nel nostro paese, di social capability, il termine usato da Fuà (l'economista Giorgio Fuà, ndr) per indicare la mancanza “di un quadro politico e giuridico, di un sistema di valori, di una mobilità sociale, di un genere d’istruzione, di una disponibilità di infrastrutture tali da favorire lo sviluppo economico moderno".

Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva. È possibile che lo shock della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività; è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi; è anche possibile un percorso più negativo.


È già accaduto, in un lontano passato. All’inizio del Seicento, gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del pianeta, nonostante le guerre che avevano segnato il secolo precedente. Secondo le stime di Angus Maddison, pur controverse, il prodotto pro capite annuo, valutato ai prezzi internazionali del 1990, era pari a 1.100 dollari, un valore doppio della media mondiale, superato solo nei Paesi Bassi. “Tre generazioni più tardi – ha scritto Carlo M. Cipolla – l’Italia era un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di manufatti ed esportare di prodotti agricoli, dominato da una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari”23. La stagnazione proseguì nei decenni successivi e nel 1820 il PIL pro capite era fermo al livello di due secoli prima. Quali le ragioni di questo “lungo gelo” dell’economia italiana? Vi erano fattori esterni, come il collasso dei principali mercati di sbocco dei prodotti italiani del tempo, ma per Cipolla le ragioni erano soprattutto interne: salari non coerenti con la produttività del lavoro, un elevato carico fiscale, un difetto di capacità imprenditoriale che impedì di cogliere i mutamenti nella domanda; “il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera”.

Ah Carlo Maria Cipolla, sei insuperabile! Ne parlerò con i miei studenti a lezione.
Cari studenti, state attenti quando gli italiani si compiacciono della propria ricchezza (privata). La rendita, prima o poi, porta all’impoverimento. Un’economia che non si sviluppa non ha le risorse per pagare i propri debiti.

P.S.: per approfondimenti si consiglia Carlo M. Cipolla, Storia facile dell’economia italiana (Mondadori, 1995)